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La riassunzione nell'arbitrato

Corte Costituzionale

Sentenza 19 luglio 2013, n. 223

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco GALLO Presidente

- Luigi MAZZELLA Giudice

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

- Giuseppe FRIGO ”

- Alessandro CRISCUOLO ”

- Paolo GROSSI ”

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Sergio MATTARELLA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile, promossi da un Arbitro di Bologna con ordinanza del 13 novembre 2012 e dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 26 giungo 2012, iscritte ai nn. 38 e 62 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 10 e 14 prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti l’atto di costituzione di R.A. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 2 luglio 2013 e nella camera di consiglio del 3 luglio 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi l’avvocato Marcello Marina per R.A. e l’avvocato dello Stato Attilio Barbieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza emessa il 13 novembre 2012 in Bologna nel corso di un arbitrato rituale tra F.F. e la E.C. s.r.l. ed iscritta al n. 38 del registro ordinanze dell’anno 2013, l’arbitro ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 11 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applichino regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile.

Il rimettente afferma che, con atto di citazione notificato il 4 marzo 2011 alla E.C. s.r.l., il socio F.F. aveva convenuto in giudizio la predetta società davanti al Tribunale ordinario di Bologna, impugnando la delibera assembleare del 6 dicembre 2010, trascritta in pari data nel libro delle decisioni dei soci. Con sentenza del 13 dicembre 2011, detto Tribunale aveva dichiarato la propria incompetenza in ragione della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società che rimetteva alla decisione dell’arbitro unico, tra l’altro, le controversie relative alle deliberazioni sociali concernenti interessi individuali dei soci.

L’arbitro aggiunge che F.F., con ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale ordinario di Bologna il 10 febbraio 2012, aveva proposto domanda per la nomina dell’arbitro. Nel corso del successivo procedimento davanti all’arbitro unico designato dal Presidente del Tribunale, la E.C. s.r.l. aveva eccepito in via preliminare la decadenza della controparte dall’impugnazione della delibera assembleare per decorrenza del termine di novanta giorni stabilito dall’art. 2479-ter del codice civile.

L’arbitro a quo sostiene che, ove non fossero fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda formulata nell’atto di citazione davanti al Tribunale di Bologna, si determinerebbe inevitabilmente una pronuncia di decadenza dall’azione proposta, mediante il ricorso per la nomina dell’arbitro, solamente in data 10 febbraio 2012, quando era ormai scaduto il termine stabilito dall’art. 2479-ter del codice civile. Ma a tale salvezza si oppone l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., il quale stabilisce che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica, tra l’altro, l’art. 50 del cod. proc. Civ., in virtù del quale, quando la riassunzione davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato, il processo continua e pertanto, al fine di verificare l’ammissibilità della domanda in relazione ai termini di decadenza cui essa sia eventualmente sottoposta, occorre far riferimento all’originario atto introduttivo della lite.

Ad avviso del rimettente, così disponendo l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., perché irragionevolmente ed in plateale disarmonia con la vigente disciplina codicistica che regola i rapporti tra i giudici ordinari e tra questi ultimi e quelli speciali, violando il diritto di difesa delle parti e i principi del giusto processo, determina, in caso di pronuncia di diniego della competenza del giudice ordinario adito in favore dell’arbitro, l’impossibilità, nel giudizio arbitrale successivamente instaurato, di far salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, proposta davanti al giudice ordinario. Secondo il rimettente, la reciproca estraneità fra giudizio statuale ed arbitrato non può giustificare, in caso di passaggio dall’uno all’altro, la mancata conservazione degli effetti dell’atto introduttivo, prevista invece nei rapporti tra il giudice ordinario e quello amministrativo, in forza delle pronunce della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.

Al riguardo, l’arbitro a quo richiama la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 4109 del 2007, la quale, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, ha ritenuto che nell’ordinamento processuale sia stato dato ingresso al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale e, viceversa, anche in caso di pronuncia resa sulla «giurisdizione».

Il rimettente aggiunge che, successivamente, questa Corte, con sentenza n. 77 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, evidenziando, nella motivazione, come il vigente codice di procedura civile, nel regolare questioni di rito – ed in particolare nella disciplina relativa all’individuazione del giudice competente – si ispira al principio per cui le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, senza che sia possibile sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al «bene della vita» oggetto della loro contesa.

L’arbitro a quo ricorda, poi, come il legislatore, preso atto dei descritti arresti giurisprudenziali, sia intervenuto a regolare i rapporti tra giudici appartenenti a diverse giurisdizioni, prima con l’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), e poi con l’art. 11 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), norme in forza delle quali oggi, nel caso in cui il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, se il processo sia tempestivamente riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, «sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda».

Il rimettente afferma anche che, pur volendo riconoscere la persistente problematicità dell’esatta qualificazione dei rapporti fra la giurisdizione ordinaria e quella arbitrale, occorre considerare che questa Corte, nella sentenza n. 376 del 2001, ha chiarito che il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statuali della giurisdizione, essendo potenzialmente fungibile con quello degli organi giurisdizionali.

Inoltre, con la riforma della disciplina dell’arbitrato introdotta dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), i rapporti tra arbitro e giudice ordinario sono stati inequivocabilmente ricondotti nell’ambito della «competenza», come riconosciuto dalla successiva giurisprudenza di legittimità.

Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che non si applichi l’art. 50 c.p.c. nei rapporti tra arbitrato e processo, comportando la mancata conservazione degli effetti dell’atto introduttivo in caso di riassunzione del processo nel termine di legge, contrasterebbe con il carattere della fungibilità della giurisdizione del giudice statale con quella dell’arbitro. Infatti, ad avviso del rimettente, pur volendo qualificare il compromesso come atto di rinuncia alla giurisdizione statale, non sarebbe possibile individuare la razionalità di un assetto normativo che, a fronte della medesima domanda giudiziale svolta originariamente innanzi ad un giudice ordinario, faccia conseguire la perdita irrimediabile degli effetti sostanziali e processuali derivanti dalla domanda nel caso in cui questa venga ritenuta improponibile dal giudice adito poiché doveva essere promossa innanzi all’arbitro ed invece escluda qualsivoglia decadenza sostanziale o processuale quando sussista il difetto di competenza o di giurisdizione in favore di altro giudice ordinario o speciale.

2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa dello Stato sostiene che nel diritto processuale positivo non si rinvengono norme che dispongano in maniera chiara la piena equiparazione della disciplina del processo davanti al giudice togato con quella del procedimento arbitrale. Anzi, il sistema continua a basarsi sulla perdurante diversità ed estraneità fra giudizio statale ed arbitrato, a differenza di quanto si può affermare rispetto ai rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Inoltre occorre considerare che il compromesso costituisce un atto di rinuncia alla giurisdizione statale, frutto di una libera scelta delle parti che presuppone necessariamente la conoscenza delle conseguenze derivanti dalla differenziazione delle discipline dei due tipi di giudizio previste dall’ordinamento, tra le quali rientra anche l’impossibilità della riassunzione della causa davanti all’arbitro in caso di dichiarazione di incompetenza resa dal giudice statale e della conseguente conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la mancata previsione della translatio iudicii è da ricondurre alla discrezionalità del legislatore, la quale si basa sulla non completa assimilazione del giudizio statuale e di quello arbitrale in ragione della differenza ontologica derivante dalla libera scelta delle parti che caratterizza il secondo e, pertanto, non è fonte di alcuna lesione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente. Del resto, aggiunge l’Avvocatura generale dello Stato, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 376 del 2001, ha affermato che il giudizio di arbitrale è fungibile solo “potenzialmente” con quello degli organi giurisdizionali.

3.– Nel corso di un giudizio civile promosso da A.R. contro la R.I. s.r.l. e avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera dell’assemblea straordinaria dei soci, il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza iscritta al n. 62 del registro ordinanze dell’anno 2013, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applichino regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile.

Il giudice a quo espone che la società convenuta in giudizio ha eccepito l’improponibilità della domanda e la decadenza dall’azione in ragione della presenza, nello statuto sociale, di una clausola compromissoria.

Sulla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente svolge argomentazioni identiche a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione pronunciata dall’arbitro di Bologna riportate sopra al punto n. 1.

Sulla rilevanza, il Tribunale ordinario di Catania afferma che la pronuncia di incompetenza del giudice adito sull’impugnativa della delibera assunta dall’assemblea straordinaria dei soci, ove non fossero fatti salvi, mediante il meccanismo offerto dall’art. 50 cod. proc. civ., gli effetti sostanziali e processuali della domanda in precedenza proposta davanti al giudice ordinario, determinerebbe comunque la decadenza dell’attrice (ai sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di impugnare la medesima delibera innanzi all’arbitro unico designando.

4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita A.R., la quale chiede che la norma censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima.

La parte sostiene, anzitutto, che la questione è rilevante, perché, ove non fossero fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta davanti al giudice ordinario, la pronuncia di incompetenza di quest’ultimo determinerebbe la decadenza dal potere di impugnare la delibera societaria davanti all’arbitro designando.

Quanto al merito, A.R. afferma che, a seguito della sentenza di questa Corte n. 77 del 2007 e di quella della Corte di cassazione n. 4109 del 2007, nel caso in cui il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, la regola generale oggi vigente nell’ordinamento è quella della possibilità di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilendo che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica l’art. 50 cod. proc. civ., contrasta con l’art. 3 Cost., sia perché tratta in modo diverso cittadini che versano in situazioni identiche, sia per carenza di ragionevolezza interna ed esterna.

Ad avviso della parte, sussiste lesione anche degli artt. 24 e 111 Cost., che assicurano ad ogni parte il diritto ad un giusto processo, così come previsto anche dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

5.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.

La difesa dello Stato sostiene che la questione è inammissibile, perché oggetto del giudizio principale è la pregiudiziale arbitrale, onde il rimettente dovrà decidere solamente sulla competenza propria o dell’arbitro, mentre la decadenza della parte attrice dal potere di impugnazione della delibera assembleare è questione che si potrà porre nell’eventuale giudizio arbitrale successivamente instaurato.

Con riferimento al merito della questione, l’Avvocatura generale dello Stato svolge argomentazioni analoghe a quelle sostenute nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dall’arbitro unico di Bologna e riportate sopra al punto n. 2.

6.– In prossimità dell’udienza di discussione, A.R. ha depositato una memoria nella quale ha ribadito la rilevanza della questione, affermando che, ove non fossero fatti salvi – mediante il meccanismo previsto dall’art. 50 cod. proc. civ. – gli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta davanti al giudice ordinario, la pronuncia del Tribunale relativa alla devoluzione ad arbitri dell’impugnativa della delibera dell’assemblea dei soci determinerebbe la decadenza (ai sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di impugnare la medesima delibera davanti all’arbitro designando. Né potrebbe opinarsi diversamente, sostenendo che a sollevare la questione dovrebbe essere proprio l’arbitro, perché questi, una volta investito del giudizio di impugnazione della delibera assembleare, si dovrebbe limitare a dichiarare l’inammissibilità della domanda per intervenuta decadenza.

Nel merito, la parte privata ripercorre l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di translatio iudicii tra giurisdizioni diverse e aggiunge che il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. esige che la domanda proposta dal soggetto sia esaminata nel merito dal giudice e che il processo si concluda con una sentenza idonea a dare una risposta in ordine al bene della vita oggetto della lite.

Inoltre, con riferimento all’art. 3 Cost., ad avviso della parte debbono essere ravvisate la violazione del principio di uguaglianza in senso formale e la mancata assimilazione di categorie di soggetti omogenee, nonché la carenza di ragionevolezza interna ed esterna della norma censurata. Questa, infatti, tratta in modo diverso cittadini che versano in analoghe o identiche situazioni, ponendo in essere una disparità di trattamento non giustificata da ragionevoli motivi.

La parte privata aggiunge che il principio del giusto processo è oggi testualmente consacrato nell’art. 111 Cost. come diritto di ogni cittadino di rivolgersi alla giustizia senza timore di alchimie processuali o di decisioni di rito discrezionali che impediscano il sereno esame della vicenda portata all’attenzione del giudice.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Catania e l’arbitro di Bologna dubitano, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti all’art. 50 dello stesso codice.

Ad avviso di entrambi i rimettenti, la norma censurata contrasterebbe con i menzionati parametri costituzionali perché, irragionevolmente e in disarmonia con la vigente disciplina del codice di rito relativa ai rapporti tra i giudici ordinari e tra questi e quelli speciali, violando il diritto di difesa e i principi del giusto processo, determina, in caso di pronuncia del giudice ordinario di diniego della propria competenza a favore di quella dell’arbitro, l’impossibilità di far salvi gli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda proposta dall’attore davanti al giudice ordinario.

2.– In ragione dell’identità delle questioni sollevate, i giudizi debbono essere riuniti per essere definiti con unica decisione.

3.– Successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza di legittimità si è espressa, con una isolata pronuncia, nel senso che l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., laddove afferma che «nei rapporti tra arbitrato e processo» non si applica l’art. 50 cod. proc. civ., riguarderebbe solo il caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella del giudice ordinario; allorquando, invece (come nel caso dei giudizi a quibus), sia il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri, sarebbe possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri nel termine fissato o, in mancanza, in quello previsto dall’art. 50, con salvezza degli effetti sostanziali della domanda (ordinanza n. 22002 del 2012).

Una simile interpretazione della norma censurata – che non costituisce diritto vivente – si basa, però, su argomentazioni fragili, fondandosi esclusivamente sulla constatazione che il secondo comma dell’art. 819-ter menziona i rapporti «fra arbitrato e processo» e non anche quelli «fra processo e arbitrato». È evidente la debolezza dell’argomento: l’espressione utilizzata dalla norma è tale da comprendere, in generale, qualsiasi tipo di rapporto che può intercorrere, rispetto ad una stessa causa, tra arbitri e giudici. Del resto, i giudici di legittimità non hanno chiarito quale sarebbe la ratio della diversità di trattamento che discende dall’interpretazione della norma da essi fatta propria e, cioè, per quale motivo la causa potrebbe proseguire davanti all’arbitro se è il giudice a dichiarare la propria incompetenza e invece dovrebbe essere riproposta ex novo davanti al giudice ove fosse l’arbitro a dichiararsi incompetente.

L’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione è smentita, poi, da inequivoci elementi letterali. Primo fra tutti, la rubrica della norma, intitolata, anch’essa, ai «Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria»; volendo seguire il ragionamento della citata ordinanza n. 22002 del 2012, da una simile indicazione si dovrebbe dedurre che l’intero art. 819-ter sia dedicato al caso in cui è l’arbitro a dichiarare la propria incompetenza. Al contrario, dal primo comma dell’articolo emerge chiaramente che esso tratta di aspetti relativi in generale ai rapporti tra i due soggetti e, anzi, dedica due specifiche disposizioni (il secondo ed il terzo periodo) al caso in cui è il giudice a dichiararsi incompetente. Ne deriva che il successivo secondo comma, nell’escludere l’applicabilità di una serie di norme del codice di rito in tema di competenza, ha sicuramente riguardo anche alle ipotesi in cui, appunto, la causa sia stata originariamente proposta davanti al giudice che si sia poi dichiarato incompetente. E ciò senza considerare che l’eccezione di incompetenza dell’arbitro è disciplinata specificamente dall’art. 817 cod. proc. civ., onde, se davvero la norma espressa dal secondo comma dell’art. 819-ter avesse ad oggetto esclusivamente il caso in cui l’arbitro si dichiari incompetente, sarebbe stato più logico il suo inserimento nel citato art. 817.

Si deve dunque concludere nel senso che l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., inibisce l’applicazione di regole corrispondenti a quelle enunciate dall’art. 50 cod. proc. civ., tanto nel caso in cui sia l’arbitro a dichiararsi incompetente a favore del giudice statale, quanto nell’ipotesi inversa.

4.– Nel merito, la questione sollevata dall’arbitro di Bologna è ammissibile e fondata.

Come già riconosciuto da questa Corte (sentenza n. 77 del 2007) gli artt. 24 e 111 Cost. attribuiscono all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ed impongono che la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi si ispiri al principio secondo cui l’individuazione del giudice munito di giurisdizione non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa. Da tale constatazione discende, tra l’altro, la conseguenza della necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione.

Tali principi si impongono anche nei rapporti tra arbitri e giudici, perché la possibilità che le parti affidino la risoluzione delle loro controversie a privati invece che a giudici è la conseguenza di specifiche previsioni dell’ordinamento.

Questa Corte, al fine di verificare la sussistenza della legittimazione degli arbitri a sollevare questioni di legittimità costituzionale, ha riconosciuto che «l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie» e ha affermato che il giudizio degli arbitri «è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione» (sentenza n. 376 del 2001).

Sul piano della disciplina positiva dell’arbitrato, poi, è indubbio che, con la riforma attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale.

Rilevano, al riguardo: l’art. 816-quinquies (sull’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 cod. proc. civ. in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso), l’art. 819-bis (nella parte in cui presuppone la possibilità per gli arbitri di sollevare questioni di legittimità costituzionale), l’art. 824-bis (che ricollega al lodo, fin dalla sua sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria).

Anche dall’esame della disciplina sostanziale emerge che, sotto molti aspetti, l’ordinamento attribuisce alla promozione del giudizio arbitrale conseguenze analoghe a quelle dell’instaurazione della causa davanti al giudice. Infatti, il codice civile, sia in materia di prescrizione (artt. 2943 e 2945), sia in materia di trascrizione (artt. 2652, 2653, 2690, 2691), equipara espressamente alla domanda giudiziale l’atto con il quale la parte promuove il procedimento arbitrale.

Pertanto, nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (ove assunta nel rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite.

Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse.

Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro. Ed invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità dell’art. 50 cod. proc. civ., impedisce che la causa possa proseguire davanti all’arbitro o al giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda.

Deve essere dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del codice di procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.

5.– La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Catania è assorbita.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2013.