06/06/08 Pisa - Sapienza
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Il centro interuniversitario di studi e di ricerche sulla giustizia civile "Giovanni Fabbrini", con il patrocinio della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università di Pisa e della scuola forense, organizza una giornata di studi su "La riforma del diritto fallimentare", il giorno 06/06/08 a Pisa, Palazzo della Sapienza, Aula Magna Nuova, dalle ore 09:00.

La relazione: Soggetti, atti, controlli by Claudio Cecchella
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La relazione: Soggetti, atti, controlli

Prof. Claudio Cecchella

(Relazione alla giornata di studi, organizzata dal centro Interuniversitario di studi e di ricerche sulla giustizia civile “Giovanni Fabbrini”, sul tema "La riforma

del diritto fallimentare" - Pisa, 06/06/2008)

Sommario: 1. La riforma dell’organizzazione del fallimento dopo la novella del 2006. Aspetti generali. 2. Segue. Aspetti particolari. 3. La riforma dell’organizzazione del fallimento dopo la novella del 2007. 4. La riforma generale delle forme processuali. 5. Introduzione sul regime previdente dei reclami. 6. Il reclamo avverso i provvedimenti del curatore e del giudice delegato: la disciplina originaria. 7. L’intervento della Corte costituzionale. 8. La giurisprudenza di legittimità. 9. Conclusioni sul regime previdente. 10 La riforma delle impugnative degli atti degli organi fallimentari. 11. I riti degli artt. 26 e 36. 12. Gli ulteriori riti camerali puri. 13. I riti camerali dei giudizi che derivano dal fallimento ex art. 24 e la loro abrogazione con la riforma del 2007.

1. La riforma dell’organizzazione del fallimento dopo la novella del 2006. Aspetti generali.

Con il d. lgs. n. 5 del 2006, che ha novellato la legge fallimentare e che è entrato in vigore il 16 luglio 2006, è stata rivoluzionata l'organizzazione del fallimento, pur nel contesto di una continuità delle sue articolazioni organiche, tra tribunale fallimentare, giudice delegato, curatore e comitato dei creditori.

Molte delle funzioni originarie dovute alla legge del 1942 sono state travasate da un organo ad un altro, sotto l’impulso delle linee di fondo dell'intervento riformatore, vera e propria carta al tornasole dell'indirizzo generale a cui attinge la novella, che è quello di valorizzare le istanze private rispetto a quelle pubbliche.

Quindi fermi gli aspetti strutturali dell’organizzazione, sono quelli funzionali ad essere stati intensamente interessati dalla riforma.

Le scelte della riforma dell'organizzazione delle procedure concorsuali e particolarmente del fallimento, dovuta al decreto legislativo n. 5 del 2006, sul piano funzionale sono contraddistinte dal diverso ruolo dei creditori nella amministrazione dell'impresa fallita e nella liquidazione del patrimonio dell'imprenditore insolvente, a scapito, rispetto al recente passato, della giurisdizione e particolarmente del tribunale fallimentare e del giudice delegato, affidati esclusivamente alle funzioni giurisdizionali in senso stretto.

Permane, invece, anzi viene rivalutata, la centralità del curatore nella amministrazione del patrimonio e nella sua liquidazione, di cui si rivalutano le professionalità anche attraverso i criteri di reclutamento in particolari e specifici ambiti professionali (art. 28).

a) Sotto il primo profilo, recuperando una tradizione normativa propria del codice del commercio anteriore alla legge del 1942 che faceva ruotare tutta la procedura concorsuale sulle iniziative del ceto creditorio a dispetto di un ruolo negletto e subordinato dei creditori nella disciplina degli articoli 40 e 41 della legge del 1942, oggi il comitato dei creditori è organo centrale nella amministrazione del patrimonio e nelle funzioni di controllo della gestione e della liquidazione, e di conseguenza ne viene riformata anche la regola relativa alla composizione, regola sulla quale forse si appuntano le maggiori critiche degli interpreti, per un eccessivo favore, secondo taluni, verso i creditori di maggiori dimensioni e particolarmente le banche, e soprattutto per uno scarso realismo della soluzione legislativa in relazione ai fallimenti di minori dimensioni.

b) In relazione al secondo aspetto, emerge dalla disciplina un giudice delegato espropriato delle funzioni di gestione e amministrazione del patrimonio, con funzioni limitate alla giurisdizione in senso stretto e di mero controllo. Ugualmente il tribunale fallimentare è escluso dalla gestione, conservando limitate funzioni di controllo ed essendo prevalentemente assorbito in funzioni giurisdizionali.

c) Non vi è dubbio, quale terzo aspetto, che il curatore, sotto il controllo del comitato dei creditori, sia il vero gestore o amministratore del patrimonio che fa capo all'imprenditore insolvente, domina la fase di liquidazione, acquisendo prerogative ed iniziative autonome prima ignorate dalla legge ed essendo sottoposto solo al controllo e alla vigilanza del comitato dei creditori e degli altri organi.

All’analisi per così dire statica del sistema organizzativo fallimentare sotto il profilo funzionale, se si accompagna un’analisi dinamica, volta ad esaminare le azioni e le forme processuali consentite nel caso in cui una delle funzioni viene esercitate in violazione del nuovo assetto normativo, l’intervento della riforma non è meno penetrante, essendo ridisegnato il sistema dei reclami avverso gli atti degli organi giurisdizionali e degli organi di amministrazione, con una soluzione che costituisce – anche in questo ambito – il modello generale cui attinge la novella sul piano processuale.

2. Segue. Aspetti particolari.

A) La funzione di amministrazione e liquidazione.

Sotto il profilo della normativa statica, la funzione di amministrazione del patrimonio dell'imprenditore insolvente e della sua liquidazione è oggetto degli interventi più significativi.

Ne sono "espropriati" il tribunale fallimentare e il giudice delegato, essendo venuto meno il regime tutorio, che si estrinsecava nell'autorizzazione degli atti di straordinaria amministrazione del curatore (previgente art. 35) e nella funzione del giudice delegato di direzione dell'amministrazione (previgente art. 31).

La stessa funzione tutoria è oggi affidata invece al comitato dei creditori, a sancire il ruolo centrale del ceto creditorio nello svolgimento della procedura. Ai creditori costituiti nel comitato non è solo attribuito in via esclusiva il potere di autorizzare il curatore nel compimento degli atti di straordinaria amministrazione, ma un penetrante ruolo di controllo, assimilabile a quello dei sindaci nelle società di capitali, ereditandone le corrispondenti responsabilità (art. 2407 c.c., richiamato nell'u.c. dell'art. 41).

Il ruolo centrale del comitato ha imposto la riscrittura dei tempi e delle forme di costituzione dell'organo, sancendo l'immediata costituzione per iniziativa del giudice delegato (entro trenta giorni dalla dichiarazione di fallimento, art. 40, 1° comma, e non più a seguito dell'accertamento del passivo), con una composizione provvisoria che tiene conto delle quantità e qualità dei crediti, da confermarsi in sede di adunanza dei creditori per la verifica dello stato passivo, ove alla maggioranza è data la possibilità di modificarne la composizione (art. 37 bis l. fall.). Su questa regola si è appuntata la critica dei primi interpreti, per il rischio di un dominio del ceto creditorio quantitativamente più rilevante, come quello bancario. Tuttavia è bene segnalare sul piano interpretativo che il tribunale, nel costituire il comitato secondo la composizione deliberata dai creditori, deve comunque assicurare la proporzionale rappresentanza dei creditori sul piano qualitativo (è richiamato l'art. 40, 2° comma), potendo al contrario rifiutare il provvedimento di costituzione e riconducendo tutto ad equilibrio (e la novella del 2007 non ha attribuito al giudice un ruolo di mera ratifica della volontà della maggioranza dei creditori, consentendo un apprezzamento discrezionale dei risultati della votazione).

Il curatore è l'esclusivo titolare delle funzioni dirette di amministrazione e liquidazione del patrimonio dell'imprenditore insolvente, non più esercitate sotto "la direzione" del giudice delegato, pur nel rispetto delle funzioni tutorie e di controllo del comitato, e che si estrinsecano in funzioni pianificatorie, di cui il programma di liquidazione ne è la riprova più evidente (art. 104 – ter l. fall.) e di esercizio dei singoli atti attuativi.

B) Funzioni giurisdizionali.

Agli organi giurisdizionali in senso stretto, il tribunale e il giudice delegato, sono attribuite funzioni coerenti al loro ruolo istituzionale, quello di dirimere le controversie sui diritti o sugli interessi, presiedendo il giudice delegato alle attività giurisdizionali endofallimentari (misure cautelari destinate ad assicurare il patrimonio, purché non confliggenti con diritti incompatibili di terzi; reclami avverso gli atti degli organi deputati alla amministrazione; accertamenti sul passivo e sui diritti reali e personali, riparti) e il tribunale anche alle azioni che derivano dal fallimento ma che si proiettano al suo esterno (in specie revocatorie fallimentari), con una formulazione ampia che non esclude più le azioni reali immobiliari (nuovo art. 24).

C) Funzioni di controllo.

Essi, tuttavia, conservano un'interferenza molto limitata con l'attività di amministrazione e liquidazione, potendo svolgere funzioni di controllo, mediante la convocazione degli organi di amministrazione attiva per chiarimenti (artt. 23, 25 n. 3, che posso sfociare nella revoca degli organi, per il curatore ex art. 27 e 40, 1° comma), quanto al giudice delegato nella previsione originaria della novella del 2006, con l'approvazione del piano di liquidazione (la cui attuazione è abbandonata tuttavia all'attività del curatore, art. 104 ter ) oppure in sede di reclamo di qualunque interessato avverso gli atti di gestione e liquidazione. L'attività di controllo tuttavia risulta pure essa significativamente ridotta da un'impugnativa che è ammessa solo per motivo di legittimità e non più di opportunità, come convenientemente nel recente passato, con conseguente controllo dei soli atti vincolati e non degli atti discrezionali del curatore e del comitato (art. 36, 1° comma).

Detto controllo, quindi, non può sfociare – se non eccezionalmente in relazione all’inerzia del comitato dei creditori, art.41, 3° comma – in un intervento sul merito dell’atto compiuto con funzioni sostitutive, ma esclusivamente in un annullamento per illegittimità se vi è stato reclamo, oppure qualora ve ne siano i presupposti di gravità in una revoca dell’organo di amministrazione.

Funzioni di controllo esercita quale compito istituzionale il comitato dei creditori, con le prerogative dei sindaci delle società di capitali (art. 41).

3. La riforma dell’organizzazione del fallimento dopo la novella del 2007.

Il Tribunale e il giudice delegato, a cui la prima riforma aveva assegnato in via esclusiva il ruolo istituzionale di dirimere le controversie fallimentari, con sacrificio delle funzioni tutorie e amministrative originarie, a tutto vantaggio del comitato dei creditori e del curatore, beneficia dal 1° gennaio 2008 di un recuperato ruolo nell'ambito della gestione e/o liquidazione dell'impresa fallita, espressione della dimensione di intervento della controriforma del 2007 sulla riforma del 2006 (d. lgs. N. 169 del 2007).

La controriforma (d. lgs. n. 169 del 2007) alla riforma (in larga parte d. lgs. n. 5 del 2006 e legge n. 80 del 2005), non si è limitata ai correttivi imposti dal coordinamento delle disposizioni e dalle difficoltà nella pratica degli istituti dopo un anno dalla entrata in vigore, ma a sua volta è intervenuta in modo penetrante sull'impianto originario, ridisegnando istituti come il processo fallimentare, il rito camerale e i rimedi agli atti che lo concludono (il reclamo avverso le sentenze dichiarative di fallimento e le sentenze di omologa del concordato), gli accordi di ristrutturazione dei debiti o le imprese commerciali escluse dal fallimento, il concordato preventivo.

Ma esiste un aspetto che nei primi commenti non sembra evidenziato nella sua giusta dimensione, per la difficoltà di coglierne pienamente le basi positive, diluite come sono nell'impianto generale della riforma, ma che ad una lettura appena più attenta ai profili sistematici del decreto correttivo non può non essere colta.

Si tratta del rinnovato ruolo della giurisdizione, rispetto a quello ridimensionato nella prima riforma.

Gli indici si evidenziano in più luoghi.

A. Nella nomina del curatore, secondo l'originario 2° comma dell'art. 28 l. fall. : <>, il comma è abrogato dalla novella del 2007, abbandonando alla discrezionalità dell'organo giurisdizionale la nomina, priva di oneri di motivazione.

B. Il potere dei creditori - in sede di adunanza per l'esame dello stato passivo (art. 37-bis ) - di effettuare nuove designazioni nell'ambito dei componenti del comitato e di chiedere la sostituzione del curatore, cui seguiva la necessità che il Tribunale provvedesse meccanicisticamente alle necessarie sostituzioni, con revoca dell'originario provvedimento, consente oggi una valutazione discrezionale al giudice collegiale il quale dovrà <>.

C. La funzione vicaria del comitato dei creditori da parte del giudice delegato, non si limita al caso di inerzia dell'organo nominato o urgenza ma si estende, dopo la novella del 2007, alla <>, art. 41, 3° comma, norma che per la patologica riluttanza dei creditori ad accettare l'incarico di membri del comitato nei fallimenti di dimensioni piccole o medie potrebbe trasformare l'eccezione in regola (con riesumazione delle funzioni tutorie del giudice delegato).

D. La semplice autorizzazione dell'azione di responsabilità contro i membri del comitato, consente al giudice delegato l'immediata sostituzione degli stessi (art. 41, 8° comma, dovuto al decreto correttivo), pur avendo nella funzione autorizzatoria il giudice delegato il ruolo della parte piuttosto che quello di titolare di una funzione giurisdizionale (come ha bene inteso la riforma esonerandolo dal giudicare sulla controversia "autorizzata", art. 25).

E. Dopo la novella solo apparentemente il giudice delegato viene esonerato dal potere di autorizzare il piano di liquidazione ex art. 104 - ter , 1° comma, a favore del comitato dei creditori, perché ciò che toglie il primo comma rende - con formula sibillina e di difficile coordinamento - l'ultimo comma << il programma approvato è comunicato al giudice delegato che autorizza l'esecuzione degli atti a esso conformi>>. Peraltro la disposizione è ripresa nell'art. 35, ove al 2° comma, nel caso di autorizzazione del giudice delegato rispetto al singolo atto attuativo, non si rende più necessaria la previa sua informazione. Ora è da capire, ed è abbandonata al’aplicazione giurisprudenziale, che poteri spiega il giudice delegat in questa autorizzazione (riesumazione del testo originario dell’art. 35?).

F. Infine, in sede di liquidazione, l'originaria forma di vendita lasciata alla discrezionalità del curatore, in esecuzione del piano di liquidazione (art. 107 ), viene posta come alternativa rispetto alla eventualità che <>, con reviviscenza, tutt'altro che opportuna, delle forme della esecuzione individuale a cui potranno aderire i curatori più pigri e meno intraprendenti, mentre la novità della prima riforma era proprio stata quella di una liquidazione con regole e soluzioni alternative all'esecuzione individuale.

Com'è possibile ricavare dalle norme passate in rassegna, tutte dovute alle modifiche del decreto correttivo, il ruolo del tribunale e del giudice delegato beneficia di un ritorno al passato.

Se si considera che nella maggioranza dei fallimenti di medie dimensioni è assai difficile costituire un comitato dei creditori e che il curatore, per esperienza e cultura tende ad adagiarsi sulle conoscenze giuridiche del giudice delegato, quanto alla formazione del piano di liquidazione, ma soprattutto quanto alla liquidazione vera e propria dell'attivo (con il richiamo addirittura alle forme della esecuzione individuale), si coglie come la controriforma ha fortemente inciso sull'assetto che discendeva, nell'organizzazione fallimentare, all'indomani della prima riforma, recuperando un ruolo della giurisdizione nella amministrazione e liquidazione fallimentare, bandito nell'originario d. lgs. n. 5 del 2006.

Senza che chi scrive voglia esprimere in proposito un giudizio di valore, ma semplicemente proporre una sommessa interpretazione.

4. La riforma generale delle forme processuali.

La controriforma ha contemporaneamente il merito di essere intervenuta anche sulla funzione giurisdizionale in senso stretto.

a) In primo luogo ridisegnando il rito camerale, pur con soluzioni non omogenee (tanto da indurre a pensare che il processo fallimentare si caratterizzi per una varietà di riti, non solo all'interno dei vari procedimenti, ma addirittura nel passaggio dal primo al secondo grado), e aprendolo alle garanzie del giusto processo. Il pensiero volge sempre di più verso un processo camerale ibrido che delle originarie forme proprie della volontaria giurisdizione non ha più alcun elemento comune e che si propone di fatto come processo a cognizione piena di rito speciale: il rito è riscritto in numerose norme (artt. 15, 26, 99, 129, 180) e reso coerente anche nelle fasi di gravame, attraverso il reclamo avverso la sentenza dichiaratrice di fallimento, art. 18, e il reclamo contro la sentenza che omologa il concordato o ne nega l'omologazione, artt. 131 e 183 (disposizioni contraddittorie e gravemente incoerente nell'impianto originario della riforma).

b) Ma è soprattutto da evidenziare come conquista di civiltà giuridica la salutare abrogazione del 2° comma dell'art. 24, che avviava alle forme camerali "pure", ovvero alle scarne disposizioni degli artt. 737 ss. c.p.c. le forme di procedimenti di grande rilievo e importanza, discendenti dalla dichiarazione di fallimento, come le azioni revocatorie, le azioni di responsabilità degli organi di società, le azione discendenti dalla introduzione del regime speciale fallimentare ai contratti pendenti, in generale le azioni della massa.

Il gravissimo contrasto con i principi costituzionali dell'art. 111, 1° comma, Cost. (riserva di legge nella regolamentazione del processo, giusto processo), unito alle incertezza applicative (tra le quali l'inammissibilità di una tutela cautelare secondo le regole comuni, stante il regime dell'autosufficienza e autonomia del processo camerale), cui spesso si sono richiamati i primi commentatori, ha esercitato opportuna influenza sul legislatore.

Dunque, da un lato, si è voluto tendenzialmente restituire all'organo giurisdizionale le originarie prerogative tutorie e liquidatorie del recente passato, dall'altro si è aperto opportunamente il rito fallimentare a regole determinate dalla legge e non abbandonate alla discrezionalità del giudice, ispirate alle garanzie del giusto processo (contraddittorio in linea con il principio di preclusione, diritto alla prova, svolgimento di un'istruttoria aperta alle regole comuni, doppio grado di giudizio).

5. Introduzione sul regime previdente dei reclami.

Venendo ai profili dinamici dell’organizzazione fallimentare, è necessaria una premessa introduttiva.

Il diritto concorsuale è invaso da sempre di procedimenti aventi forme camerali, in un epoca, come quella della entrata in vigore della legge, il 1942, in cui il sistema processuale, in difetto di una costituzione rigida ispirata alle garanzie costituzionali del diritto di azione, del diritto di difesa, del diritto ad un sindacato di legittimità innanzi alla Corte di cassazione e oggi del diritto ad un giudice imparziale e ad un giusto processo regolato dalla legge, era assai meno sensibile ai principi processuali implicati.

Il modello del rito camerale era coerente al prevalente impulso ufficioso che ispirava le procedure concorsuali ove le forme erano abbandonate alle determinazione del giudice e soprattutto alla necessità di una rapidità dell’esito, poiché la liquidazione dell’impresa, ovvero la sua eliminazione dal mercato, non poteva avere pause e tra i due beni, quelli dell’imprenditore all’esercizio dell’impresa e quello della normalità dei rapporti nel mercato, si propendeva decisamente per il secondo.

Ne è riprova la circostanza che lo stesso procedimento sommario per la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 15 era intensamente ispirato alle forme camerali, anche se l’intervento del giudice costituzionale, dopo l’entrata in vigore delle garanzie offerte al processo nella Costituzione, ne aveva snaturato le forme (e d’altra parte spingeva in quella direzione la stessa conclusione con una sentenza idonea al giudicato secondo l’art. 16) al punto da ricondurre il rito piuttosto a forme sommarie anticipatorie.

Non si deve dimenticare la maggiore aderenza al rito camerale del procedimento in caso di rigetto della domanda per la dichiarazione di fallimento, ove l’istituto del reclamo dell’art. 22 era come è modellato sull’art. 739 c.p.c.

Presto si è posto in tutta la sua drammaticità il problema dell’inadeguatezza delle forme camerali ai nuovi principi della Costituzione, particolarmente nella elaborazione dovura all’esperienza dei c.d. reclami avverso gli atti del curatore e i provvedimenti del giudice delegato, regolati dagli artt. 23, 26 e 36, che hanno subito intense integrazioni alla luce della giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Alle regole relative ai reclami si allineavano poi i procedimenti relativi ai riparti parziali (art. 110), al riparto finale e al rendiconto (artt. 116 e 117), alla chiusura (art. 119), alla riabilitazione civile (art. 144).

Esisteva infine l’esperienza dei giudizi di ammissione della domanda di concordato preventivo e di amministrazione controllata (artt. 162 e 188), i quali seguivano forme camerali.

6. Il reclamo avverso i provvedimenti del curatore e del giudice delegato: la disciplina originaria.

Il luogo ove aveva modo di realizzarsi maggiormente il rito camerale era quello delle contestazioni che chiunque, sul modello dell’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), poteva sollevare in ordine alla legittimità e opportunità degli atti del procedimento fallimentare.

Attraverso lo speciale strumento, quindi, qualunque interessato (ivi compreso il curatore, per gli atti da lui non compiuti) poteva lamentare sia la difformità dell’atto rispetto allo schema formale stabilito dalla legge, per gli atti aventi carattere vincolato e dovuto, oppure l’opportunità degli atti compiuti discrezionalmente dall’organo fallimentare.

Contro gli atti di amministrazione del curatore qualunque interessato aveva modo di suscitare una verifica giurisdizionale nelle forme camerali e così contro gli atti – sempre di amministrazione (poiché quelli giurisdizionali avevano ben diversi canali di sindacato giurisdizionale: le opposizioni oppure il reclamo cautelare) – del giudice delegato, ai sensi degli artt. 36 e 26. Secondo l’art. 23, 3° comma, invece, i decreti del tribunale fallimentare non erano suscettibili di ulteriori impugnative, anche solo in forme camerali.

Pertanto alle forme camerali era destinato tutto il contenzioso sugli atti di amministrazione e di liquidazione del patrimonio del fallito, quando erano compiuti dal curatore e dal giudice delegato; mentre era escluso un sindacato ulteriore degli atti del tribunale nella sua formazione collegiale.

L’art. 36 più precisamente ammetteva una generale ricorribilità innanzi al giudice delegato degli atti del curatore, dal fallito come da qualunque altro interessato. Contro la decisione del giudice delegato, resa per decreto, era consentito un ulteriore reclamo entro tre giorni dalla data del decreto medesimo al tribunale. Quest’ultimo decideva con decreto non ulteriormente impugnabile (art. 23, 3° comma), dopo aver sentito il curatore e il reclamante. Null’altro aggiungeva la normativa, abbandonando le forme e le garanzie alla discrezionalità del giudice delegato e in seconda istanza del tribunale.

L’art. 26 ammetteva, salvo disposizione contraria, una generale reclamabilità contro i decreti del giudice delegato innanzi al tribunale ad iniziativa del curatore, del fallito, del comitato dei creditori e di qualunque altro interessato, entro tre giorni dalla data del decreto. Aggiungeva la disposizione che il tribunale decideva in camera di consiglio (2° comma) e che il reclamo non sospendeva gli effetti del decreto impugnato (3° comma).

Si introduceva così, come di consueto per i procedimenti di volontaria giurisdizione, una disciplina processuale praticamente inesistente (cfr. gli artt. 737 ss. c.p.c.), abbandonata alla totale discrezionalità del giudice; una normativa che sottoponeva le garanzie del contraddittorio e della difesa a forme che solo il giudice poteva volta per volta adottare e che soffocava eccessivamente il diritto della parte di impugnare l’atto o il provvedimento, essendo ammesso solo entro tre giorni dalla data del provvedimento, ovvero – al di là della ristrettezza del termine – da un dies a quo che la parte poteva del tutto ignorare. Infine, oltre al reclamo in tribunale, nessun altro sindacato era consentito, come con espressione inequivoca sanciva il 3° comma dell’art. 23.

7. L’intervento della Corte costituzionale.

A seguito della entrata in vigore della Costituzione repubblicana e dell’insieme delle garanzie processuali in essa offerte contro le previsioni contrarie della legge ordinaria, le forme poc’anzi esaminate e corrispondenti al testo originario della legge non potevano sopravvivere ad un sindacato del giudice della legittimità costituzionale delle leggi.

Infatti molto spesso la controversia provocata dall’atto di gestione o di liquidazione del curatore o del giudice delegato, coinvolgeva un vero e proprio diritto soggettivo, il cui accertamento era avviato alle forme del rito proprio della volontaria giurisdizione ovvero di un procedimento nato esclusivamente per l’amministrazione di interessi e non per giudicare controversie sui diritti. La casistica poteva essere la più varia, ma tra le fattispecie prevalenti vi erano quelle nascenti dai piani di riparto ove erano implicati i diritti soggettivi di cui sono portatori i creditori oppure la liquidazione dei compensi al curatore, agli ausiliari e ai difensori, pure essi coinvolgenti diritti nascenti da contratto.

Il giudice costituzionale avvertì subito il contrasto delle regole processuali della legge fallimentare con le garanzie, quando il reclamo aveva ad oggetto diritti soggettivi, e inizialmente con sentenza interpretativa di rigetto (Corte cost. 9 luglio 1963, n. 118) ritenne manifestamente infondata la questione interpretando la norma nel senso di escludere dalle forme camerali le controversie su diritti (che evidentemente dovevano essere avviate alle forme ordinarie, secondo gli intendimenti della Corte).

Fu tuttavia necessario un nuovo intervento – stante l’oscillazione degli orientamenti del giudice di legittimità verso una sopravvivenza del reclamo camerale salvo ammettere una impugnabilità innanzi al giudice di legittimità ex art. 111 Cost. del decreto del tribunale – che avvenne con la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 26, dovuta a Corte cost., 23 marzo 1981, n. 42, in relazione alle controversie in sede di riparto. Fu necessaria infine un ulteriore pronuncia di incostituzionalità, dettata nel caso della controversia sui compensi a qualunque incaricato in sede fallimentare, e ciò avvenne con la sentenza 19 novembre 1985, n. 303, per dare generale valenza al principio.

Dall’insieme delle pronunce ne scaturiva un vuoto normativo, originato dalla incostituzionalità, che poteva essere colmato esclusivamente avviando le controversie su diritti soggettivi colpiti da atti di gestione o liquidazione del curatore o del giudice delegato attraverso le vie ordinarie, ovvero con un processo a cognizione piena di diritto comune. La Corte certamente voleva l’espunzione dall’ordinamento del procedimento camerale.

La Corte ha avuto peraltro occasione di intervenire ulteriormente, in relazione al termine per il reclamo (questa volta si deve ritenere per i reclami in materia di effettiva volontaria giurisdizione ovvero di amministrazione di interessi), sancendo l’incostituzionalità di un termine che muoveva da un dies a quo coincidente con un elemento che non può essere con la dovuta diligenza conosciuto dall’interessato, ovvero la data del decreto da reclamare (cfr. Corte cost., 19 novembre 1985, n. 303, poi ribadito nell’ambito dell’amministrazione controllata, da Corte cost., 24 giugno 1986, n. 156).

Secondo le declaratorie di incostituzionalità seguiva un duplice regime degli atti di gestione e liquidazione del patrimonio del fallito, a seconda che l’atto o il provvedimento avesse o meno ad oggetto un diritto soggettivo. Nel primo caso la controversia avrebbe dovuto avviarsi con le forme ordinarie sul modello delle contestazioni in sede di riparto o dell’opposizione agli atti esecutivi della esecuzione individuale. Solo nel secondo caso nelle forme camerali, poiché ad esse corrispondevano i contenuti della volontaria giurisdizione, con un termine per reclamare tuttavia che muoveva dalla comunicazione del provvedimento o dell’atto.

8. La giurisprudenza di legittimità.

A tale assetto ha tuttavia reagito la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale – pur adattando le forme ad alcune fondamentali garanzie del processo – ha conservato l’unicità delle forme camerali alle controversie aventi ad oggetto atti o provvedimenti di amministrazione e liquidazione del patrimonio, anche se incidenti su diritti soggettivi.

Contro un primo indirizzo che considerava espunto dal sistema il reclamo e ammesso il solo ricorso straordinario ex art. 111 Cost. (con un risultato invero ancora meno garantistico, per avere sottratto l’atto o il provvedimento ad una piena verifica intorno all’accertamento del fatto) si è diffuso, e può dirsi consolidato, l’orientamento che, pur ammettendo in ultima analisi rispetto ai decreti c.d. decisori ovvero aventi ad oggetto diritto soggettivi il ricorso straordinario per motivo di illegittimità, ne consentiva una piena verifica in sede di reclamo per motivi di legittimità e di merito.

Per il giudice di legittimità, quindi, il reclamo non era affatto abrogato dalle pronunce di incostituzionalità nelle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, se adattato ad alcune garanzie fondamentali.

La stessa Corte di cassazione, tuttavia, aveva sottoposto il rito camerale regolato in modo così scarno dalla legge fallimentare ad un intensa revisione sul piano interpretativo, estendendo alcuni orientamenti adottati nell’ambito della disciplina generale del rito camerale, quando esso fosse richiamato pure nei procedimenti contenziosi.

- In primo luogo il termine per reclamare, dal ristretto termine di tre giorni dalla data del decreto, è diventato quello ordinario ex art. 739 c.p.c. di dieci giorni, in coerenza con la Corte costituzionale, dalla comunicazione del provvedimento.

- In secondo luogo si è ritenuto necessario garantire il contraddittorio con qualunque controinteressato previamente identificabile, imponendo la notifica del ricorso e del decreto con cui è fissata l’udienza (pertanto quella che era un’eventualità lasciata alla discrezionalità del tribunale nell’art. 23, 2° comma, è diventato un dovere dell’organo giurisdizionale) ed eventualmente disporre, se necessario, sommarie informative, ovvero svolgere un minimo di istruttoria.

- In terzo luogo si è imposta una motivazione al decreto, la cui mancanza implica una nullità lamentabile.

Ne è risultato un rito aderente alle garanzie, pur destinato ad una cognizione esclusivamente sommaria sui fatti e di evidente “creazione” giurisprudenziale.

In relazione, infine, ai decreti ordinatori, ovvero relativi a provvedimenti o a reclami su atti di mera gestione e liquidazione, pertanto non idonei ad incidere su diritti, la disciplina della legge fallimentare deve pianamente applicarsi, e quindi essere il provvedimento o l’atto reclamato entro tre giorni dalla comunicazione del decreto, non seguendo in tal caso un'impugnabilità per motivo di legittimità innanzi alla Corte di cassazione ex art. 111 Cost.

9. Conclusioni sul regime previgente.

La prospettiva aperta dalla Corte di cassazione, non del tutto coerente con il giudice di costituzionalità, almeno nelle sue prime pronunce, lasciava margini a dubbi a seguito della novellazione dell’art. 111 Cost.

Il nuovo disposto infatti introduceva la garanzia del giusto processo precostituito per legge, a cui il rito camerale contenzioso doveva almeno essere confrontato.

Orbene una legislazione così scarna, ove al carattere troppo breve del termine concesso all’interessato per reagire al provvedimento o all’atto dell’organo fallimentare, si univa una mera facoltà di introdurre il contraddittorio e non si precisava la necessità che il provvedimento finale dovesse essere quanto meno motivato, in genere l’aver lasciato alla discrezionalità del giudice la individuazione delle forme processuali e il loro allineamento alle garanzie, non pareva coerente con la precostituzione per legge voluta dall’art. 111, 1° comma Cost.

A tale argomento si aggiungeva quello costituito dalla privazione di un giudizio a cognizione piena sui diritti (ché il rito camerale, per la sua autonomia e necessità, esaurisce integralmente la tutela giurisdizionale), a differenza della diversa esperienza delle controversie sulla legittimità degli atti nel processo esecutivo individuale, che incide particolarmente sui principi del giusto processo.

Era pertanto da pensare all’opportunità, in difetto di una riforma dell’istituto sul piano legislativo, di un nuovo intervento della Corte cost. nella direzione di una definitiva prevalenza dell’indirizzo che l’aveva contraddistinta negli anni ottanta e che il giudice di legittimità aveva disatteso.

10. La riforma delle impugnative degli atti degli organi fallimentari.

Dislocati nelle consuete disposizioni degli artt. 26 e 36, la riforma ridisciplina i reclami avverso gli atti degli organi fallimentari, che costituiscono il veicolo processuale dei vizi, per violazione di legge o anche solo di inopportunità, cui possono essere affetti gli atti, con una regolamentazione assai innovativa sotto vari aspetti.

a) Anzitutto nella previsione di un reclamo avverso anche gli atti del tribunale innanzi alla Corte di appello, che quindi non costituiscono più l'atto finale della gerarchia (art. 26, 1° comma); mentre la disposizione non si pronuncia sull'ulteriore ricorribilità in Cassazione, che tuttavia secondo la giurisprudenza pregressa deve ammettersi in relazione alle controversie sui diritti (i compensi agli ausiliari o al curatore; i riparti del ricavato ai creditori) e che anche oggi deve riconoscersi in tali tipi di fattispecie ai sensi dell'art. 111, 7° comma, Cost. e nella nuova estensione a tutti i motivi di cassazione ex art. 360 u.c. cpc, dopo la novella dovuta alla d. lgs. n. 40 del 2006. Non è soggetto invece a gravame la pronuncia del tribunale sul reclamo degli atti del giudice delegato (art. 36, 2° comma).

b) In secondo luogo, si introduce una diversificazione di forme significative tra il ricorso avverso gli atti degli organi giurisdizionali - art. 26 - rispetto al reclamo avverso gli atti degli altri organi - art. 36 -. Nel primo caso è introdotta una regolamentazione particolareggiata delle forme, rivisitata anche dalla riforma del 2007, non più abbandonata alla discrezionalità del giudice che trasforma sensibilmente il rito camerale sino a renderlo più conforme ad un rito a cognizione piena speciale, per i contenuti della domanda, le forme introduttive e le garanzie di tempo e forma per lo svolgimento delle difese delle parti, lo svolgimento di un'istruttoria. Nel secondo caso si resta invece nel solco del rito camerale, con la mancanza di disciplina e l'abbandono delle forme alla discrezionalità del giudice, con il solo limite del contraddittorio (art. 36, 2° comma). La soluzione, comprensibile sul piano della celerità, pone un discrimine difficilmente condivisibile - sul quale avrebbe ben potuto intervenire la novella del 2007 - sul piano dell'opportunità (con l'ulteriore specializzazione di forme processuali), ma anche su quello della costituzionalità, anche alla luce dell'art. 3 Cost.

c) Viene meglio regolamentato il termine introduttivo (di 10 giorni nel primo caso; di 8 giorni nel secondo) poiché esso muove dalla conoscenza dell'atto e non più dal suo compimento, cfr. art. 26, 3° comma, e art. 36, 2° comma. I termini non sono soggetti a sospensione feriale (art. 36 - bis). Per il caso di reclamo avverso gli atti degli organi giurisdizionali, è poi introdotto il termine lungo di novanta giorni per evidenti esigenze di certezza, art. 26, 4° comma. In tal ambito esiste una regolamentazione articolata, per i soggetti interessati identificabili (il curatore, il fallito, il comitato dei creditori, i promotori o destinatari dell'atto) il termine decorre dalla comunicazione o notificazione (a cui la legge assimila le comunicazioni per via elettronica - fax o posta elettronica - del curatore in osservanza delle regole in materia di documentazione amministrativa). Per gli altri interessati, dal perfezionamento delle forme di pubblicità disposte dal giudice (in questo ambito il legislatore lascia invero troppo alla discrezionalità del giudicante l'identificazione del dies a quo, facendo sospettare la previsione di incostituzionalità).

e) Si ammette una reclamabilità non solo delle attività, ma anche delle omissioni, del curatore e del comitato all'art. 36. In tal caso il dies a quo matura dalla diffida ad adempiere previamente notificata e dal termine in essa fissato all'adempimento (art. 36, 1° comma) e l'eventuale provvedimento in sede di reclamo impone al curatore una doverosa ottemperanza o una sostituzione del comitato da parte del giudice delegato a cui viene attribuita una funzione vicaria (art. 36, u.c.). La previsione non è ripetuta nel reclamo avverso gli atti degli organi giurisdizionali (art. 26, 1° comma, che anzi regola un reclamo avverso i decreti).

f) E' ammesso infine solo un controllo di legalità avverso gli atti degli organi amministrativi (curatore e comitato, art. 36, 1° comma) e non più di opportunità, il che rafforza maggiormente le prerogative degli organi di gestione. Il limite non è ripetuto invece in relazione al reclamo contro gli atti degli organi giurisdizionali, cfr. l'art. 26. Si tratta di una diversificazione, come quella delle forme (cfr. supra sub b), poco opportuna e di difficile tenuta costituzionale per la sua irrazionalità, anche alla luce del diverso ambito della opposizione agli atti nella esecuzione individuale (art. 617 c.p.c.) o della impugnativa verso gli atti degli organi giurisdizionali. La soluzione è poi poco in linea con l'ampiezza del controllo innanzi alla S.C. in sede di ricorso straordinario, consentito anche per il vizio di motivazione (art. 360, 4° comma, c.p.c., novella dal d. lgs. n. 40 del 2006) e quindi per motivi di opportunità, anche se proveniente dalla impugnativa di atti di gestione degli organi amministrativi della procedura fallimentare che incidono su diritti soggettivi.

11. I riti degli artt. 26 e 36.

L'irrazionalità del sistema, con la sua frammentazione dei riti, impone di includere i reclami contro gli atti degli organi giurisdizionali nell'ambito dei riti camerali ibridi che aprono uno svolgimento analogo in concreto ad un processo a cognizione piena con rito speciale, mentre i reclami contro gli atti degli organi amministrativi seguono forme camerali pure, secondo lo scheletrico modello codicistico (artt. 737 ss. c.p.c.).

Muovendo dall'art. 36, l'interprete si imbatte nella consueta formulazione del processo in camera di consiglio: "il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio". La stessa regolamentazione in secondo grado: "contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale... il tribunale decide entro trenta giorni, sentito il curatore e il reclamante, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, con decreto motivato non soggetto a gravame", art. 36, 1° e 2° comma.

Il legislatore si preoccupa del solo contraddittorio, abbandonandone comunque le forme alla discrezionalità del giudicante, con una soluzione di difficile tenuta costituzionale alla luce del principio di riserva di legge e salva la consueta opera creativa del giudice di legittimità in adeguamento ai principi della Costituzione.

Naturalmente la previsione di un divieto di gravame ulteriore a seguito del decreto in seconde cure deve fare i conti con l'art. 111, 7° comma, Cost., sul ricorso straordinario per violazione di legge.

Al contrario l'art. 26, si contraddistingue per forme camerali ibride:

- si introduce mediante ricorso e la costituzione del convenuto si perfeziona con memoria da depositarsi cinque giorni prima dell'udienza (6° e 10° comma), senza imporre un regime di preclusioni - almeno nell'ultimo intervento del 2007, ché la prima riforma lo imponeva al ricorrente dimenticandosi simmetricamente di imporlo anche al resistente - (salvo poi contraddirsi nel contemplare una generale disponibilità d'ufficio della prova);

- il ricorso (6° comma), che non sospende gli effetti dell'atto impugnato (5° comma), è disciplinato con precise prescrizioni di forma-contenuto (autorità e procedimento fallimentare; parti, causa petendi e petitum, prove e documenti), la cui inosservanza è sanzionata ai sensi dell'art. 164 c.p.c.;

- la fase introduttiva è poi completata dalle iniziative dell'ufficio e del ricorrente (il decreto presidenziale, entro cinque giorni, che fissa l'udienza da tenersi entro quaranta giorni; la notifica di copia del ricorso e del decreto entro cinque giorni dalla comunicazione di quest'ultimo con un termine a difesa di quindi giorni per il resistente), 7°, 8°, 9° comma;

- l'intervento volontario è assoggettato ai limiti di tempo e di forma della costituzione del convenuto (11° comma);

- nell'udienza il giudice dispone (e assume) la prova (la novella del 2007 ha significativamente sostituito la dizione di "informazioni" con quello di "prove"), anche per iniziativa officiosa, 12° comma;

- la pronuncia per decreto entro trenta giorni (13° comma).

E' necessario evidenziare, a riprova dell'attenzione prestata dal legislatore nella regolamentazione dei procedimenti camerali ibridi alle garanzie costituzionali, il divieto per incompatibilità del giudice delegato di far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti (art. 25, 2° comma), tema di grande delicatezza sul quale si rinvia alla trattazione più approfondita del par. 5.1.

12 Gli ulteriori riti camerali puri.

La legge fallimentare propone ulteriori procedimenti camerali, in relazione alla impugnazione di atti presupposti o conseguenti alla liquidazione.

a) Il procedimento con il quale è dichiarata la insussistenza dell'attivo che impedisce lo svolgimento dei procedimenti di accertamento dei crediti, art. 102, regolato in modo specifico attraverso un iter bifasico, sempre ispirato al camerale puro.

Su istanza del curatore, almeno venti giorni prima della adunanza (ma anche durante la sua pendenza o dopo il suo esaurimento, 2° comma) in una prima fase priva di indicazioni formali che si conclude con un decreto motivato e in una seconda a seguito di reclamo alla corte di appello, da introdurre entro quindici giorni dalla comunicazione del decreto di prime cure, da concludere anch'esso con una pronuncia con forma di decreto.

b) Il procedimento per la ripartizione del ricavato, regolato dall'art. 110, ove al terzo comma erano nella prima riforma richiamate le forme più garantistiche dell'art. 26 e, dopo l'intervento del 2007, si rinvia invece a quelle meno garantistiche dell'art. 36, con l'unico elemento differenziale costituito dal termine per il reclamo di quindici giorni dalla data di ricezione della comunicazione del curatore di avvenuto deposito del progetto di ripartizione in cancelleria (2° comma). Il reclamo provoca l'accantonamento delle somme la cui distribuzione è contestata e il decreto che decide su di esso ne dispone la destinazione (4° comma).

c) Il procedimento relativo al rendiconto del curatore, art. 116, ove è preferita ancora una volta una regolamentazione ad hoc. Il giudice delegato ordina il deposito del conto in cancelleria e fissa l'udienza, che viene comunicata dal curatore al fallito e ai creditori ammessi al passivo o che hanno introdotto opposizione o che sono titolari di situazione prededucibile, nella quale qualunque interessato può formulare le sue osservazioni. In mancanza il conto viene approvato con decreto; se osservazioni sono manifestate, ogni decisione è presa dal collegio (e si deve intendere nel silenzio ancora con decreto reclamabile ex art. 26, 1° comma).

d) Il procedimento relativo alla chiusura (art. 119), ancora con una regolamentazione parzialmente ad hoc. Un procedimento camerale puro in prima istanza, ove il tribunale decide su domanda del curatore, del debitore e dell'ufficio, senza formalità alcuna con decreto (neppure indispensabile sarebbe il contraddittorio, poiché il fallito e il comitato dei creditori vengono sentiti soltanto quando la chiusura si fonda sull'insufficienza di attivo a soddisfare i creditori, n. 4 dell'art. 118). Il procedimento camerale ibrido regolato nell'art. 26 viene invece richiamato in sede di reclamo avverso i decreti del tribunale, di chiusura o di rigetto, a cui è fatto seguire un ulteriore ricorso innanzi alla Corte di cassazione entro trenta giorni dalla comunicazione o notificazione per la parte, il fallito e il comitato dei creditori, dal compimento delle formalità di pubblicità di cui all'art. 17, per ogni altro interessato.

La riapertura, art. 121, è invece pienamente modellata sull'art. 15 (per implicito) e 18 (espressamente richiamato), ovvero sulle forme del procedimento per la dichiarazione di fallimento.

e) Il procedimento per la esdebitazione (art.143), volto cioè ad estinguere con provvedimento costitutivo i crediti nella parte rimasta inadempiuta alla chiusura del fallimento. La regolamentazione è quella consueta: una prima fase senza formalità di sorta che si chiude con un decreto; una seconda fase, a seguito di reclamo di qualunque interessato, con rinvio pieno all'art. 26.

f) Il procedimento di revoca del curatore, anch'esso in una prima fase privo di forme legislativamente determinate (se si esclude il contraddittorio con il curatore e l'audizione del comitato dei creditori) e in una seconda fase, a seguito di reclamo, retto dalle forme dell'art. 26, cfr. l'art. 37.

g) Il procedimento di ripartizione, a seguito della chiusura del fallimento, quando i creditori concorrenti allo scadere di cinque anni dal deposito delle somme rimaste inesitate per irreperibilità o disinteresse dei creditori aventi diritto, ne chiedono il riparto: esso avviene per decreto del giudice delegato che provvede senza formalità non essenziale al contraddittorio (art. 117, 5° comma).

Come è possibile evidenziare dalla breve rassegna, le soluzioni sono irrazionalmente diversificate sulla base di criteri che appiono oggi all'interprete i più casuali: in alcuni casi si richiamano le forme dell'art. 36, in altri quelle più garantistiche dell'art 26, in altri si preferisce una prima fase del tutto priva di forme legislativamente determinate per poi godere, in una seconda, delle forme del procedimento di cui all'art. 26, infine da ultimo si propone una regolamentazione ad hoc priva di rispondenza con altre esperienze.

13. I riti camerali dei giudizi che derivano dal fallimento ex art. 24 e la loro abrogazione con la riforma del 2007.

Nella rivoluzione copernicana, che ha contraddistinto la riforma, una scelta iniqua del primo intervento con il d. lgs. n. 5 del 2006, era costituita dall'adozione del rito camerale, attraverso mero rinvio alle disposizioni codicistiche, di tutti i giudizi che derivano dal fallimento, secondo il dettato dell'art. 24, 2° comma.

Per buona sorte dell'interprete e dell'operatore, il 2° comma, è stato abrogato dalla novella del 2007.

L'art. 24, nel regime previgente destinato ad introdurre una regola sulla competenza (attraendo al foro fallimentare tutte le controversie che si originano dalla speciale disciplina fallimentare, con esclusione delle sole reali immobiliari, oggi anch'esse invece destinate all'effetto attrattivo), dopo la prima riforma del 2006 ne ha introdotta una pure relativa al rito, poiché affidava tali controversie alle forme del rito camerale nella scarnissima disciplina del codice di rito.

Forse è il caso di riflettere, per intendere esattamente la portata della disposizione, che a tali forme era assoggettato ad esempio il processo che origina dall'esercizio dell'azione revocatoria o dall'azione di responsabilità verso gli amministratori di società. Questo rito era poi destinato ad imporsi anche sulle esigenze del processo cumulato, essendo destinato comunque a prevalere, in deroga espressa all'art. 40, 3° comma c.p.c.

L'adozione del modello camerale "puro" per cause che non sono strettamente fallimentari, in relazione alle quali soltanto era consentito un intervento di riforma in base alla legge delega n. 80 del 2005, lascia lo spazio ad un'incostituzionalità per eccesso di delega tutt'altro che infondato, senza poi dire della violazione dell'art. 111 Cost, con le sue prescrizioni sulla riserva di legge nella disciplina del processo e sul giusto processo.

Oltre alle difficoltà sistematiche evidenziate, peraltro, per l'autonomia che contraddistingue il processo camerale, che non si colloca come alternativo a forme diverse, ordinarie o sommarie, anche cautelari di tutela giurisdizionale, ne discendeva addirittura la preclusione ad una assicurazione cautelare dell'azione, ciò che per ulteriore argomento fondava un ulteriore motivo di incostituzionalità per violazione dell'art. 24 Cost. (si pensi alla assicurazione cautelare dell'azione revocatoria o dell'azione di responsabilità dell'amministratore di società commerciale).