03/06/11 La Spezia

Organizzato dall'Ordine degli Avvocati della Spezia e dalla Sezione dell'Osservatorio sul diritto di famiglia della Spezia, si e' tenuto un convegno sul tema della comunione dei beni tra i coniugi e le problematiche sostanziali e processuali discendenti dalla sua divisione.

Si pubblica il programma e la relazione sui profili processuali.

Aspetti processuali della divisione nella comunione tra coniugi. by Claudio Cecchella
Il programma by Tiziana Pianadei

Aspetti processuali della divisione nella comunione tra coniugi.

(Prof. Avv. Claudio Cecchella, Università di Pisa)

Sommario: 1. I limiti all’azione di divisione e l’origine processuale della cause di scioglimento. 2. Le cause processuali di scioglimento della comunione familiare. 3. Segue. Il momento in cui si perfezionano. 4. Una soluzione pratica contro la giurisprudenza della Corte di Cassazione. 5. Il problema della efficacia verso terzi. 6. La proponibilità della domanda di divisione nel procedimento per separazione.7. Il fallimento di uno dei coniugi. 8. La cessazione delle cause di scioglimento per situazione di fatto. 9. Il giudizio di divisione.

1. I limiti all’azione di divisione e l’origine processuale della cause di scioglimento.

Anche quando gli istituti processuali hanno modo di essere applicati nell’ambito della comunione legale tra coniugi, le peculiarità della materia familiare hanno modo di piegare le regole di diritto comune, in funzione dei valori e degli interessi tutelati sul piano sostanziale e il processo deve inevitabilmente differenziarsi quanto all’ambito delle azioni e alle loro forme.

In primo luogo, l’azione di divisione, che costituisce ex art. 1111, 1° comma, c.c. l’esercizio di un diritto potestativo, in corrispondenza con la regola generale di disfavore verso la comunione, trova nella comunione tra i coniugi un regime accentuatamente limitativo, a protezione degli interessi sostanziali cui presiede, essendo esercitabile solo in coincidenza di fattispecie di scioglimento tipizzate dal legislatore.

Infatti l’azione di divisione non è libera, ma ammessa esclusivamente nella fattispecie di c.d. scioglimento della comunione legale dettate dall’art. 191, 1° comma, c.c., il quale regola ipotesi tassative, per lo più ritenute non derogabili per atto volontario delle parti, che non assuma i contenuti e le forme della convenzione matrimoniale (integrante appunto un caso di scioglimento). In ultima analisi, la divisione non è il risultato delle cause di scioglimento è – come vedremo - un effetto del provvedimento giurisdizionale di accoglimento dell’azione di divisione: l’art. 191 cit. disciplina semplicemente le fattispecie legali che consentono l’esercizio dell’azione di divisione, poiché sarà solo la successiva divisione giudiziale a provocarne lo scioglimento.

Semplicemente le cause di scioglimento trasformano la comunione legale in comunione ordinaria, riaprendo la prospettiva di applicazione dell’art. 1111, 1° comma, c.c.

Dei casi di scioglimento (dichiarazione di assenza o di morte presunta; annullamento; scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; separazione personale, separazione giudiziale dei beni, mutamento convenzionale del regime, infine fallimento di uno dei coniugi), nella prospettiva particolare della relazione, che è quella processuale, tratteremo soltanto quelli che si generano nel processo, poiché, salvo la convenzione tra coniugi, è assai spesso il processo a provocare i presupposti che abilitano i coniugi all’azione di divisione.

2. Le cause processuali di scioglimento della comunione familiare.

Nell’ambito del processo, le fattispecie che consentono lo scioglimento sono il risultato di alcune sentenze costitutive, con cui si concludono i processi familiari: la sentenza di invalidazione del vincolo matrimoniale, la sentenza di divorzio, la sentenza di separazione (o l’omologa della separazione consensuale), la sentenza di separazione giudiziale dei beni.

Lo scioglimento è poi consentito quando è dichiarato il fallimento di uno dei coniugi, ma questo è tema che merita una trattazione autonoma.

Ad eccezione della prima, le altre cause processuali che abilitano all’azione di divisione non destano problemi di individuazione (sarà problematico come tra poco vedremo il momento in cui l’effetto potrà dirsi prodotto). Infatti il legislatore usa il termine “annullamento”, che per un verso sembra escludere i casi di nullità in senso stretto e per altro sembra limitare, quanto alle nullità, la praticabilità dell’istituto esclusivamente nel caso di matrimonio putativo (ne risulterebbe infatti conservato l’effetto della comunione). Saremo propensi tuttavia ad una lettura estensiva, che ricomprende qualsiasi ipotesi di invalidazione (salvo i casi di radicale inesistenza dove la comunione spirituale e materiale non può dirsi neppure istaurata: es. matrimonio tra persone dello stesso sesso o senza consenso) e che non limiti i casi di nullità al matrimonio putativo, il quale tra l’altro può avere rilevanza per uno solo dei coniugi, ciò che confligge con il regime della comunione che li deve coinvolgere entrambi. Quindi annullamento, da intendersi come invalidazione in genere.

Quanto altre altre cause processuali, non sorgono dubbi interpretativi:

a) il divorzio, quando ovviamente abbia causa in un presupposto diverso da quello della separazione personale dei coniugi (ché lo scioglimento in tal caso discende ancor prima, proprio dalla separazione);

b) la separazione, sia essa dettata da una sentenza (anche parziale) in sede giudiziale o provenga da un separazione consensuale omologata;

c) la separazione giudiziale dei beni, fondata sulla incapacità assoluta o relativa del coniuge o su di una cattiva amministrazione oppure su di una amministrazione che metta in pericolo gli interessi dell’altro coniuge, della comunione o della famiglia o, ancora, sul disordine negli affari o infine sulla mancata contribuzione proporzionale.

3. Segue. Il momento in cui si perfezionano.

Il vero nodo interpretativo, invece, è quello del momento in cui la rimozione del divieto di divisione si produce:

- dalla pronuncia della sentenza di primo grado

- oppure dal suo passaggio in giudicato e, ancora,

- con effetti che retroagiscono al momento della domanda

- oppure ex nunc, che si producono soltanto nel tempo dell’effettivo passaggio in giudicato della sentenza (alla scadenza, a seconda dei casi, del termine lungo o breve per impugnare o del manifestarsi dell’acquiescenza alla sentenza).

Le conseguenze non sono di poco momento:

1. se l’atto di acquisto si perfeziona durante la pendenza del processo e sino allo scadere del termine per la impugnazione della sentenza il bene continua a cadere nella comunione

2. oppure, per introdurre l’azione di divisione, la parte dovrà attendere tre gradi di giudizio.

In ordine a questo delicato problema, ove si consumano – sia consentito sottolinearlo da subito – garanzie di rango costituzionale come la tutela giurisdizionale dei diritti, non potendo la durata del processo andare a detrimento di chi ha ragione e dovendo perciò la sentenza retroagire – anche in relazione ai suoi effetti costitutivi – al momento della proposizione della domanda, continua ad influenzare la giurisprudenza la natura costitutiva del provvedimento giudiziale, che per tradizione origina dal giudicato e con effetti che non retroagiscono, ancora tradizionalmente, alla domanda.

Pur in mancanza di un’espressa previsione di diritto positivo (ché l’art. 282 c.p.c. sembra affidare gli effetti della sentenza al suo primo grado), si può convenire che per gli effetti di grande rilievo della sentenza costitutiva, laddove abilitano al giudice di intervenire nella sfera giuridica di un soggetto, essi non possano essere destinati di massima ad una pronuncia emessa al termine di un grado di giudizio (anche solo per le difficoltà di un ripristino dell’assetto dei diritti precedente nel caso in cui venga riformata nei gradi successivi, anche a tutela dell’affidamento dei terzi), ma non si riesce ad intendere la ragione per la quale effetti destinati al giudicato non possano retroagire alla domanda, ponendo a carico della parte che ha ragione le conseguenze dei tempi necessari al formarsi del giudicato.

Alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, è forse inevitabile un intervento del legislatore.

Certamente non sarà facile applicare, anche se qualche lettura in tale direzione si coglie nella dottrina processualistica, l’art. 282 c.p.c. sull’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, essendo la efficacia esecutiva cosa diversa dalla efficacia costitutiva di un nuovo assetto giuridico e quindi è inevitabile ipotizzare che la causa di scioglimento non possa prodursi prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato l’invalidità del matrimonio, il suo scioglimento, la separazione personale dei coniugi, la separazione giudiziale dei beni.

Ma quando il giudicato si è prodotto è difficile pensare che non produca effetti retroattivi sino dal momento della domanda e che la durata del processo debba pregiudicare chi ha ragione e ha diritto di ottenere la divisione del patrimonio comune (sollecitata la Corte cost. 7 luglio 1988, n. 795 non è andata oltre una pronuncia di inammissibilità, vedi l’ordinanza in Foro it., 1989, I, 928).

La contraria costruzione, in modo stereotipato, è ribadita dalla giurisprudenza (ex plurimis, cfr., Cass., 6 ottobre 2005, n. 19447; Cass., 24 luglio 2003, n. 11467, in Foro it., 2003, I, 2966; Cass., 2 settembre 1998, n. 8707, in Vita not., 1998, I, 1605; in senso contrario alcune pronunce di merito App., Roma 4 marzo 1991; Trib. Milano 20 luglio 1995).

Qualche eccezione da parte di alcuni giudici di merito (App., Genova, 1 ottobre 1998; Trib. Genova, 17 luglio 1986, in Dir. Fam., 1988, 256; Trib. Milano, 20 luglio 1989, ivi, 1990, I, 161), che individuano il prodursi dell’effetto già dal momento in cui il presidente con i provvedimenti dell’art. 708 c.p.c. autorizza i coniugi a vivere separati.

Ora vi sono ragioni che attengono alla ratio della disciplina, unita a precisi richiami positivi che fanno propendere, come molti Autori, per una tesi diversa:

a) La ratio della conservazione del regime della comunione legale è quella della persistenza della comunione morale e materiale su cui è fondato il matrimonio: quando i coniugi sono autorizzati a vivere separati (effetto che correttamente la stessa giurisprudenza ricollega al deposito del ricorso per separazione, art. 146, 2° comma, c.c.), non ha veramente significato imporre la conservazione del regime della comunione, facendo produrre la causa di scioglimento solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza, se non quella di sottoporre il coniuge che ne ha diritto al ricatto odioso della dilazione di tutela.

b) Peraltro anche la sacralità dell’efficacia solo ex nunc della sentenza costitutiva è tutta da rimeditare e non sembra avere basi positive, particolarmente quando è introdotto un regime di pubblicità della domanda. Che significato ha infatti tale regime se non quello di far prenotare, dal momento della domanda, gli effetti della sentenza costitutiva, almeno nei confronti di terzi.

Ora è noto come alla luce del regolamento sullo stato civile (d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, art. 69 lett. c, ma anche art. 4, 3° comma, legge n. 898 del 1970) devono essere annotate non solo le sentenze, ma anche le domande introduttive del procedimento divorzile (per cui se l’effetto scaturisce dall’annotazione della sentenza ex art. 10 legge n. 898 del 1970, esso non può non retroagire al momento dell’annotazione della domanda).

L’applicazione dettata in materia di divorzio potrebbe in via analogia essere applicata anche al procedimento di separazione o di invalidazione del vincolo matrimoniale (per il primo l’analogia è superata dal rinvio compiuto dalla legge n. 74 del 1987, art. 23, all’art. 4, pure per le separazioni). Non si dimentichi poi che anche la domanda di scioglimento della comunione tra coniugi, se vi è un immobile nella comunione, è soggetta a trascrizione ex art. 2653, n. 4 c.c. e il riferimento generico allo scioglimento potrebbe far pensare alle domande introduttive dei procedimenti che conducono allo scioglimento, come il divorzio, la separazione, l’invalidità e così via.

d) Esiste, poi, una disposizione nella direzione che andiamo cercando che è costituita dall’art. 193, 4° comma e 5° comma, c.c., che in relazione a quella fattispecie di ulteriore scioglimento che è la separazione giudiziale dei beni stabilisce perentoriamente: “La sentenza che pronuncia la separazione retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda ed ha l’effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione del presente capo, salvi i diritti di terzi” e ancora “La sentenza è annotata a margine dell’atto di matrimonio e sull’originale delle convenzioni matrimoniali” e si è ritenuta pure annotabile la domanda.

Ora non è francamente giustificabile, anche sul piano di un principio di ragionevolezza ed eguaglianza, un regime così intensamente diverso per fattispecie identiche, soltanto il regime retroattivo degli effetti della sentenza è in linea poi con i principi costituzionali del diritto di azione ( e dopo la previsione nel cit. art. 193 anche del diritto di eguaglianza e ragionevolezza). Peraltro si è anche sostenuto che una volta che è introdotta un’azione di scioglimento degli effetti del matrimonio oppure di separazione è pure introdotta l’azione di separazione giudiziale dei beni.

Vi sono pertanto ragioni sistematiche, che impongono di comparare la regole processuali con quelle sostanziali, e spunti di diritto positivo, dal regime della annotabilità nei registri di stato civile della domanda e della sentenza, al regime della trascrivibilità della domanda, sino al regime particolare della domanda e della sentenza di separazione giudiziale dei beni contenuta nel 3° e 4° comma dell’art. 193 cit., che devono indurre ad un’interpretazione contrastante da quella espressa dalla giurisprudenza, laddove riconduce l’effetto costitutivo provocato dal giudicato al momento e solo al momento in cui il giudicato si forma.

Qualche problema di identificazione della fattispecie pone pure la separazione consensuale, se identificabile con la sola domanda congiunta oppure con l’ accordo perfezionato innanzi al presidente del tribunale o infine sull’omologazione. In coerenza con la soluzione dettata in sede di separazione giudiziale, saremo come la giurisprudenza (Cass., 7 marzo 1995, n. 2652, Cass. 2 settembre 1998, n. 8707, in Vit. not., 1998, I, 1605; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2844, in Fisco, 2003, 4789) dell’opinione che l’omologa rientri negli elementi costitutivi della fattispecie. Questa costruzione, tuttavia, rischia di inficiare la prassi assai diffusa di una regolamentazione convenzionale della divisione (prima dell’omologa), nello stesso verbale di separazione (da non ammettersi prima che la causa di scioglimento si sia perfezionata).

Ma la soluzione all’apparente difficoltà è presto trovata, come la separazione personale anche gli accordi divisori non possono che prendere effetti solo dopo che il verbale di separazione consensuale è stato omologato e dunque, pur ammettendosi l’accordo di separazione e di divisione, questo produce effetti solo dopo il controllo giudiziale. Residuerebbe solo la difficoltà di ammettere patti traslativi di diritti immobiliari nell’ambito della separazione consensuale, che è tema diverso, e sul quale vi è dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina, ma che esula dall’economia della presente relazione.

4. Una soluzione pratica contro la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Innanzi ad un orientamento così rigido, forse è possibile intravedere una soluzione, che ha la forza di altra giurisprudenza della stessa Corte Suprema.

L’azione di separazione giudiziale dei beni ha pacificamente natura contenziosa e si svolge nelle forme del processo a cognizione piena di rito ordinario ed essa si esercita, con legittimazione del coniuge, innanzi al tribunale competente ai sensi dell’art. 18 c.p.c. (foro generale delle persone fisiche) e quindi nel luogo di residenza del coniuge convenuto (esattamente la stessa competenza del procedimento per separazione e divorzio, dopo la recente pronuncia della Corte cost n. 169 del 2008).

Una relativamente recente pronuncia della Corte di cassazione

(“La separazione giudiziale dei beni "ex" art. 193 c.c. causa di scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi, non è preclusa dalla pendenza del giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi, né dall'avvenuta pronuncia, da parte del presidente del tribunale, dei provvedimenti temporanei ed urgenti di cui all'art. 708 c.p.c.”)

Cass. civ. Sez. I, 10 giugno 2005, n. 12293

ha chiarito che la pendenza del processo di separazione non preclude l’azione, poiché la causa dello scioglimento è autonoma e quindi la parte avrebbe agio (ovviamente in considerazione dei soli presupposti dell’art. 193 c.c.) di introdurre parallelamente una domanda di separazione giudiziale dei beni o addirittura, qualora si ammetta un cumulo in una causa di separazione o divorzio, una domanda formulata nello stesso procedimento.

Peraltro il requisito della mancata contribuzione alla famiglia in proporzione alle proprie sostanze e capacità di lavoro, richiesto per la separazione giudiziale dei beni, è requisito tutt’altro che raro in numerose ipotesi di separazione.

In tal modo la parte interessata potrebbe beneficiare della retroattività degli effetti della sentenza di separazione giudiziale sino alla domanda.

5. Il problema della efficacia verso terzi.

La stessa disposizione dell’art. 193 cit. , che appare la norma tecnicamente più corretta nella prospettiva del processualista, precisa (3° comma) che la retroattività non sembra operare verso i terzi (la norma fa salvi “i diritti di terzi”).

La disposizione deve fare però i conti con il regime della trascrizione della domanda.

L’ultimo comma della stessa disposizione ammette un’annotazione allo stato civile della sentenza di separazione dei beni.

Allora il passo per l’annotazione della domanda è breve e tale indirizzo si rinviene pure in dottrina, con tutte le conseguenze – anche se non debitamente chiarite nella disposizione – di un’opponibilità ai terzi della efficacia retroattiva, in caso di annotazione.

Peraltro quando i beni coinvolti sono immobili, è indiscutibile la trascrizione della sentenza ex artt. 2647 c.c., nonché della domanda, artt. 2653, n. 4 e 2691 c.c.

Il sistema offre così soluzione anche all’efficacia verso i terzi della retroattività degli effetti della sentenza che accerta la causa di scioglimento.

6. La proponibilità della domanda di divisione nel procedimento per separazione.

Recentemente tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l'omologazione di quella consensuale), che rappresenta il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione legale dei beni, non è condizione di procedibilità della domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e di divisione dei beni, ma condizione dell'azione: conseguentemente, la domanda è proponibile nelle more del giudizio di separazione personale, essendo sufficiente che la suddetta condizione sussista al momento della pronuncia, così Cass. 26 febbraio 2010, in Fam e dir, 2010, 1092.

Dalla motivazione si legge:

“Ritenere che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, sicuro presupposto dello scioglimento della comunione, debba precedere la domanda di divisione dei relativi beni, significa evidentemente qualificare tale giudicato come presupposto processuale (o, se si vuole, condizione di procedibilità dell'azione) piuttosto che come condizione dell'azione, accogliendosi questa distinzione, che non trova preciso, esplicito riscontro nel codice di rito, ma viene comunemente seguita da giurisprudenza e dottrina, pressoché unanimi.

Come è noto, i presupposti del processo attengono all'esistenza stessa del processo, nonché alla sua validità e procedibilità, e devono sussistere prima della proposizione della domanda. Se l'esistenza del processo richiede che la domanda sia rivolta ad un Giudice, e debba evidentemente consistere in una richiesta di tutela giurisdizionale, i profili di validità del processo e di proponibilità della domanda attengono al potere-dovere del Giudice adito di pervenire ad una pronuncia di merito. Presupposti processuali sono dunque la giurisdizione, la competenza e la legittimazione processuale, il potere del soggetto che propone la domanda nonché del soggetto nei cui confronti la domanda è proposta, di compiere gli atti processuali.

Le condizioni dell'azione sono i requisiti di fondatezza della domanda, necessari affinché l'azione possa raggiungere la finalità concreta cui essa è diretta (e cioè il Giudice possa eventualmente pronunciare nel senso favorevole all'attore, la mancanza delle condizioni dell'azione non esclude ab origine l'esistenza del processo, ma impedisce che questo si concluda con una pronuncia favorevole all'attore stesso). E' sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronuncia, e non necessariamente a quello della domanda.

Tra le condizioni dell'azione, trovano sicuro riscontro normativo l'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), volto al perseguimento della tutela giurisdizionale, a garanzia dell'interesse sostanziale per cui si propone la domanda: una situazione giuridica soggettiva di vantaggio, il cui riconoscimento viene posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio (al riguardo, Cass. n. 9172 del 2003). L'interesse deve essere concreto (collegato all'esistenza di un pregiudizio reale, e non meramente potenziale, per il diritto azionato), ed attuale, nel senso che dovrà esistere al momento della pronuncia del Giudice.

Parimenti va considerata la legittimazione ad agire e a contraddire (art. 81 c.p.c.), che consiste nella identità tra la persona dell'attore e quella cui la legge conferisce nel caso concreto il potere di agire per quel determinato fine cui tende la domanda proposta, nonché l'identità della persona del convenuto con quella nei cui confronti tale potere di agire è attribuito.

E, ancora, l'esistenza del diritto, la necessità che la fattispecie dedotta in giudizio si trovi oggettivamente a coincidere con una fattispecie prevista e tutelata da una disposizione normativa. L'art. 191 c.c. prevede le cause di scioglimento della comunione e, tra essi, la separazione personale (giudiziale o consensuale).

Giurisprudenza costante di questa Corte afferma che lo scioglimento si perfeziona con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l'omologa di quella consensuale) (per tutte, Cass. n. 8643 del 1992; n. 2944 del 2001). Nel passaggio in giudicato (o nell'omologa) si individua dunque il momento in cui sorge l'interesse ad agire, concreto ed attuale, volto scioglimento della comunione e alla divisione, ma esso può anche riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad ottenere tale scioglimento e la conseguente divisione.

Per quanto si è osservato, tali elementi non possono che qualificarsi come condizioni dell'azione, e non già come presupposti processuali. In particolare il passaggio in giudicato (o l'omologa), come elemento decisivo della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale, comporta che tale vicenda debba ritenersi compiutamente realizzata, con la conseguenza che l'eventuale carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perché sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto azionato, e non può precludere la pronuncia di merito:

ciò che sempre accade ove, nelle more del giudizio, si realizzi uno dei requisiti, prima carente o inesistente, previsto dalla legge per l'accoglimento di una domanda giudiziale. Del resto la regola per cui la sopravvenienza in corso di causa di un fatto costitutivo del diritto rimuove ogni ostacolo alla decisione del merito della domanda, e il più generale principio circa la necessità di esistenza delle condizioni di accoglimento della domanda al momento della decisione, appaiono espressione dell'ancor più generale principio di economia processuale. L'accoglimento del primo motivo è assorbente ed esime dall'analisi degli altri motivi”.

Alla luce di questa fondamentale pronuncia, dovuta al relatore Dr. Massimo Dogliotti, è consentito anche nel giudizio di separazione formulare ab initio (quanto meno entro le memorie dell’art. 709 c.p.c.), la domanda di divisione, ancorché la sentenza di separazione non sia stata emessa e quindi non sia ancora passata in giudicato. Sarà necessario, con l’ausilio di una sentenza parziale sulla separazione a cui la parte che ha interesse dovrà ricorrere con istanza immediata, già all’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. davanti al giudice istruttore, ottenere preliminarmente la sentenza di separazione, favorendone il passaggio in giudicato (che sarà raggiunto assai speso per acquiescenza, laddove entrambe le parti abbiano formulato domanda di separazione), in modo da giungere alla pronuncia finale, anche sulla divisione, quando la condizione dell’azione ovvero la fattispecie di scioglimento si è perfezionata.

Qualora vi fosse un atteggiamento dilatorio di una delle parti, che impugna la sentenza parziale di separazione, per impedire che passi in giudicato in tempo utile per la pronuncia di divisione, il giudice avrà agio di applicare l’art. 337, 2° comma, c.p.c. e quindi sospendere il giudizio in attesa che si formi autorità di giudicato sulla sentenza di separazione (non essendone pregiudicate i capi di sentenza riguardanti i profili personali o gli altri profili patrimoniali, già dettati con i provvedimenti interinali del presidente o dello stesso giudice istruttore in sede di modifica e revoca).

7. Il fallimento di uno dei coniugi.

L’art. 191 c.c., contempla tra le ipotesi che consentono la divisione anche il fallimento: la ragione è da ricercare nelle esigenze della liquidazione concorsuale, che non possono incontrare i limiti discendenti dalla comunione patrimoniale tra coniugi. In concreto l’ufficio fallimentare deve potere disporre senza dilazione dei beni che spettano al coniuge fallito all’esito di un giudizio di divisione.

Per questa ragione saremo propensi a negare un’estensione dell’istituto (e non solo per la ritenuta tassatività delle ipotesi) quando la procedura concorsuale non faccia prevalere una ragione liquidatoria, del tipo di quella espressa nel fallimento.

Quindi il concordato non conduce alla stessa regola, salvo – si è ritenuto prima della riforma fallimentare - il caso del concordato con cessione dei beni, dove l’effetto traslativo di diritti può collidere con il regime della comunione. Ma si deve dire che alla luce del nuovo art. 161 l. fall., dovuto alle riforme del 2006 (d. lgs. n. 5 del 2006) e del 2007 (d. lgs. n. 169 del 2007), l’ampiezza dei contenuti del concordato, non più limitato alla ipotesi del c.d. concordato con garanzia destinato ad una dilazione e falcidia, ove normalmente il patrimonio si conserva, oppure al concordato con cessione dei beni, destinato invece inevitabilmente alla liquidazione, si pongono tutta una serie di nuove soluzioni negoziali della crisi dell’imprenditore.

Ora il verificarsi della causa di scioglimento dipenderà dal carattere o meno liquidatorio della soluzione concordataria, la cui ragione è fatta prevalere dalla legge su quella che ispira la comunione patrimoniale tra coniugi.

La peculiarità del fallimento poi sta nella sua efficacia immediata, sin dal momento in cui la sentenza è depositata in cancelleria (ugualmente il decreto di omologa del concordato). Dunque in deroga alle altre ipotesi ove la causa di scioglimento si produce solo con il giudicato della sentenza che la conosce, nell’ambito concorsuale – ancora come effetto di favore – la causa si realizza semplicemente quando è accertata in primo grado e quindi la sentenza è depositata in cancelleria (cfr. Cass. 18 maggio 1976, n. 3047, in Giust. Civ. 1976, I, 1557).

La sentenza fallimentare non sembra porre problemi di pubblicità, ai fini dell’opponibilità ai terzi, poiché la iscrizione nel registro delle imprese offre quella efficacia verso terzi che rende opponibile anche l’effetto di scioglimento della comunione tra coniugi, come regolano in modo inequivocabile oggi gli artt. 16 e 17 l. fall. Non sembra quindi giustificato il tentativo della dottrina civilistica di costruire – ai fini della opponibilità ai terzi- un regime di annotazione della sentenza che dichiara il fallimento di uno dei coniugi.

Con l’abrogazione dell’art. 70 l. fall., ovvero dell’istituto ivi regolato della presunzione muciana, peraltro fortemente ridimensionato da un’interpretazione abrogratrice della giurisprudenza che aveva sottolineato l’incompatibilità giuridica della presunzione con la comunione patrimoniale tra coniugi (discendendone una sostanziale abrogazione dell’istituto se uno dei coniugi aveva l’avventura di cadere in una vicenda fallimentare), l’opponibilità della comunione al fallimento non incontra limiti e l’effetto ex lege dell’appartenenza alla comunione di tutti i beni acquistati da uno dei coniugi durante il matrimonio non incontra neppure la limitazione dell’azione revocatoria, che può colpire soltanto effetti che hanno il loro fondamento su atti volontari intervenuti tra coniugi (novellato art. 69 l. fall.).

Qualche problema interpretativo pongono la revoca che fa seguito all’esito favorevole del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento e la chiusura del fallimento, che fa seguito all’esaurimento dei suoi obiettivi all’impossibilità di raggiungerli. In questi casi viene meno la ratio dello scioglimento e la scelta originaria dei coniugi nella continuità del matrimonio non può non avere reviviscenza, ciò potrà avvenire solo con effetti ex nunc (revoca e chiusura sono soggetti alla pubblicità della sentenza dichiaratrice, agli effetti della opponibilità verso i terzi).

8. La cessazione delle cause di scioglimento per situazione di fatto.

Nel caso di revoca o chiusura, il venir meno della causa di scioglimento è dovuta ad un provvedimento giurisdizionale, che offre certezza all’evento, ed è soggetto – per l’opponibilità ai terzi – ad un regime di pubblicità.

Qualche problema interpretativo pone il caso in cui il venir meno della causa di scioglimento discenda non dall’accertamento costitutivo di un provvedimento giurisdizionale soggetto a regime di pubblicità, bensì da un semplice fatto della realtà materiale, come la riconciliazione dei coniugi che fa cessare gli effetti della separazione, com’è noto senza che vi sia necessità di un suo accertamento giudiziale (art. 157 c.c.).

In tal caso la questione non ha modo di rilevare in relazione ai coniugi, poiché non è dubitabile che dall’evento si ricostituisce la comunione per essi (con effetti ex nunc Cass. 12 novembre 1998, n. 11418, in Dir. Fam., 1999, 589), bensì in relazione ai terzi, per l’incertezza del verificarsi della fattispecie (che solo il coniuge conosce per condotte e atti per lui inequivoci) e della sua conoscenza.

Non resta che ricercare un regime di pubblicità di un atto certo, che sia opponibile al terzo. Soccorre l’art. 69 lett f) del dpr n. 396 del 2000, disposizioni dell’ordinamento dello stato civile, il quale ammette all’annotazione negli atti di matrimonio “delle dichiarazioni con i quali i coniugi separati manifestino la loro riconciliazione”. Solo se la dichiarazione è annotata gli effetti della riconciliazione saranno opponibili.

9. Il giudizio di divisione.

Se l’azione di divisione è soggetta a limitazioni, non potendo essere esercitata se non in presenza di alcune fattispecie accertate processualmente con sentenza di natura costitutiva, risulta ugualmente modificato lo svolgimento del processo e i possibili contenuti della tutela.

La divisione, dopo che si è verificata la causa di scioglimento può perfezionarsi anche sul piano convenzionale, senza dovere soggiacere alle forme della convenzione matrimoniale ex art. 162 c.p.c. Ai fini dell’eventuale trascrizione è sufficiente che l’accordo divisorio sia contenuto in un verbale di separazione consensuale e che questo sia omologato.

Si è detto, tuttavia, che la divisione consensuale non possa derogare alla parità di ripartizione dell’attivo, argomentando sui limiti di contenuto consentito alle convenzioni matrimoniali e particolarmente sulla pareticità delle quote. Questo indirizzo è criticabile, poiché i limiti imposti all’autonomia valgono sin tanto che la comunione sia in essere, una volta che si sciolga, al verificarsi di uno dei casi di cui all’art. 191 c.c., l’autonomia riprende vigore e per il carattere disponibile della materia i coniugi possono perfezionare liberamente patti divisori finanche rinunciare ai diritti che discendono dalla divisione.

Se al contrario i coniugi non raggiungono un accordo, si rende inevitabile un’azione che avvia un processo divisorio, ai sensi degli artt. 784 e ss. c.p.c.

Ammessa una sentenza parziale di separazione, la domanda di divisione può essere formulata, condizionatamente all’accoglimento della domanda di separazione, anche in questa sede, come si è avuto modo di constatare (par. 6).

La divisione, pur conseguente ad uno dei casi di scioglimento può essere oggetto di una dilazione per volontà delle parti, sino a dieci anni e salvo gravi circostanze da accertarsi giudizialmente che giustifichino la divisione, art. 1111, 2° e 3° comma, c.c. Qualora la divisione possa pregiudicare gli interessi dei comproprietari la dilazione potrà essere stabilita dal giudice per un lasso massimo di cinque anni (art. 1111, 1° comma, c.c.); ugualmente se possa pregiudicare il patrimonio (art. 717 c.c.): queste disposizioni hanno tanto più necessità di essere applicate nell’ambito della comunione familiare dove uno dei coniugi potrebbe essere pregiudicato da un’immediata divisione.

Le modalità di divisione sono quelle comuni:

a) anzitutto la divisione in natura (art. 718 e 1114 c.c.), salvo conguaglio in denaro (art. 728 c.c.);

b) in difetto l’assegnazione dei beni al coniuge che ne abbia chiesto l’attribuzione (ma in caso di richiesta di entrambi non è ipotizzabile la scelta a favore del quotista che è titolare della quota maggiore, poiché i coniugi hanno quota eguale, art. 720 c.c.);

c) come ultima soluzione, l’incanto (artt. 720 e 721 c.c.).

Come detta l’art.1116 c.c., nell’ambito della comunione ordinaria, si rinvia al regime della divisione della comunione ereditaria art. 713 ss. c.c.

Non avranno applicazione le disposizioni che presuppongono la volontà del testatore, che nel mostro ambito manca per definizione: dilazione della divisione (art. 713 c.c.), norme dettate per la divisione oppure divisione fatta dallo stesso testatore (artt. 733 e 734 c.c.).

Ugualmente quelle che discendono dalla qualità di erede, come la prelazione ex art. 732 c.c.