13/01/13 appello civile morto e sepolto
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L'appello civile, devastato dalla pratica sistematica dell'art. 168 bis, 5 comma c.p.c. (rinvio d'ufficio della udienza), dalla giurisprudenza che lo ha trasformato da mezzo di gravame a impugnazione mera di vizi o errori del primo giudice e dalla legge n. 134 del 2012 con l'estensione delle ipotesi di inammissibilità e con la conversione del merito in rito (...la ragionevole probabilità di accoglimento...), è morto e sepolto per la entrata in vigore oggi della nuova normativa sul contributo unificato in caso di inammissibilità, improcedibilità e rigetto, si pubblica un contributo con uno spiraglio su alcune speciali ipotesi in cui l'istituto resuscita...

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L’appello civile, ovvero Giano bifronte...

L’appello civile, ovvero Giano bifronte.

di Claudio Cecchella

Sommario: 1. La storicità dell’appello: novum iudicium. 2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio priori istantiae. 3. L’esasperazione della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge. 4. L’epilogo: il merito si converte in rito. 5. Il profilarsi di un appello speciale. Il processo su situazioni indisponibili. 6. Segue. Il motivo di appello nel processo sommario ex art. 702 – bis, c.p.c. 7. Le novità difensive nell’appello del processo sommario ex art. 702 – bis, c.p.c. 8. La espansione delle regole dell’appello speciale. 9. Il rito camerale ibrido come processo a cognizione piena di rito speciale e la disciplina del reclamo-appello.

1. La storicità dell’appello: novum iudicium.

L’appello non è stato concepito nella sua storicità come espressione di un’impugnazione in senso stretto, avente ad oggetto l’atto da impugnare, i suoi errori, i suoi vizi.

E’ stato da sempre strumento di rinnovazione piena del giudizio espresso dal giudice di prime cure, in una piena identità di oggetto, nei limiti dell’effetto devolutivo voluto dall’impugnante il quale è libero di decidere se sottoporre alla rinnovazione del giudizio di secondo grado l’oggetto corrispondente ad alcuni capi della sentenza piuttosto che altri nei quali è risultato soccombente, con un giudizio finale che ha sempre effetto sostitutivo, anche quando la sentenza di appello conferma la sentenza di primo grado.

L’inquadramento dell’istituto, definito dalla dottrina processualistica come espressione di un mezzo di gravame e non di una impugnazione mera , discendeva da indici normativi inequivocabili, costituiti dalla libertà dei motivi di critica, ma anche dagli oneri imposti all’appellante ai fini della loro specificazione, esclusivamente funzionali all’ambito di espressione dell’effetto devolutivo (tenore originario dell’art. 342 c.p.c.). Ad essi si accompagnava la attribuzione alle parti e al giudice degli stessi poteri esercitati nel corso del giudizio di primo grado e rinnovabili senza preclusioni di sorta nel giudizio di secondo grado, con il solo limite – connaturato al principio della domanda – costituito dall’impossibilità di ampliare l’oggetto dell’appello rispetto ai confini del grado che aveva preceduto . Si spiega – in un regime pienamente disponibile dell’oggetto del giudizio, non avendo l’esercizio della nuova domanda nel corso del procedimento di primo grado oltre gli atti introduttivi sub julo rilievo officioso – così il tenore previgente dell’art. 345, 1° comma c.p.c. che sanciva l’inammissibilità rilevabile dal giudice della nuova domanda in appello (formula che, nel generale inasprimento, caratterizza anche l’attuale art. 345 c.p.c.).

Pertanto le parti avrebbero potuto formulare nuove eccezioni e dare svolgimento a nuove iniziative probatorie, con la sola esclusione di nuove domande, e il giudice avrebbe potuto esprimere gli stessi poteri istruttori che lo contraddistinguevano nel giudizio di primo grado, con le note immancabili accentuazioni in relazione al rito del lavoro.

La tecnica di stesura degli atti del giudizio di appello era perciò perfettamente identica alla tecnica che ispira la parti nelle loro attività nel corso del giudizio di primo grado, senza soluzione di continuità nei contenuti e nelle forme, quanto alla formulazione di domande, eccezioni e prove, sia dal lato dell’attore in appello, sia dal lato del convenuto, sia da parte di un terzo interveniente (art. 344 c.p.c.). E’ certamente la particolare apertura del processo di secondo grado all’intervento innovativo di terzi ad evidenziare ancora una volta come il giudizio di appello avesse ad oggetto la fattispecie e il diritto, alla pari del giudizio che lo aveva preceduto.

Su questo impianto originario, di un appello come rinnovazione del giudizio di primo grado sullo stesso oggetto, si è inserita un’inesorabile evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha condotto alla necessità di un nuovo inquadramento sistematico del mezzo di impugnazione in esame.

2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio priori istantiae.

In occasione del primo intervento significativo di riforma del processo civile, dopo la novella del 1950, ovvero la legge n. 533 del 1973, introducente il novellato rito delle controversie di lavoro, attraverso il nuovo articolo 437 c.p.c. il legislatore altera per la prima volta quel disegno.

In coerenza, non necessitata tuttavia , con le caratteristiche del procedimento di primo grado, assoggettato com’è noto ex artt. 416, 418, 419 e 420, ad un rigido regime di preclusioni in coincidenza con gli atti introduttivi, per domande, eccezioni e prove, con scarse riaperture, regolate nell’art. 420 c.p.c., che letteralmente ricordano il solo esercizio della ius poenitendi, soggetto all’autorizzazione del giudice, ai sensi dell’art. 420 c.p.c. (sul quale avrebbe presto dovuto esprimersi un particolare lavorio interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, per aprire il rito del lavoro alle garanzie ), il giudizio di appello si chiude ai nova, esprimendo il divieto di nuove domande, di nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio (e deve ritenersi anche quello decisorio) per la ben diversa funzione integrativa del giudizio di fatto del primo e dispositiva del secondo.

La disposizione contiene per la prima volta l’introduzione del concetto di indispensabilità della prova come discrimine tra le prove ammissibili o non ammissibili in appello, soggetta ad una valutazione discrezionale del collegio. L’attenuazione al divieto di nuovi mezzi di prova aveva una sua precisa giustificazione lavoristica, sulla quale innestare la sua ragione di essere: si voleva consentire al giudice dell’appello gli stessi poteri istruttori consentiti al giudice di primo grado ex art. 421, 2° comma c.p.c. Il disegno non poteva non apparire più coerente, come anche il senso del concetto di “indispensabilità”: rinnovazione del potere discrezionale officioso del giudice nell’iniziativa probatoria in primo grado .

L’appello per la prima volta altera le sue caratteristiche di novum iudicium condotto prescindendo dal precedente giudizio confluito nella sentenza di primo grado, ma costituisce, secondo la formula esplicativa della revisio priori istantiae, il risultato di una rinnovazione di un giudizio sulla base di difese consolidate nel primo grado, rectius negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, quanto a domande, eccezioni e prove, con l’unica salvezza dei poteri di iniziativa officiosa, sia quanto all’eccezione in senso lato (ex art. 112 c.p.c. rilevabile d’ufficio) e sia quanto ai poteri istruttori in senso stretto del giudice.

Quando il legislatore, nella riforma del rito ordinario dovuta alla legge n. 353 del 1990, sulla intensa suggestione di un modello di processo a preclusioni, introduce un sistema di decadenze anche nel procedimento assoggettato al rito comune, ne discende, per automatica (e non meditata) conseguenza, l’adozione di un modello di appello identico a quello del rito lavoro.

Nella dinamica delle continue ondate di interventi di riforma, che incidono sulle regole della trattazione delle difese in senso lato delle parti, attraverso la sequela delle leggi n. 353 del 1990, n. 534 del 1995, n. 80 del 2005 e n. 69 del 2009, le regole dell’appello del lavoro vengono estese all’intero appello di diritto comune nella nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c.

Ne segue l’inammissibilità delle domande nuove e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e il regime di chiusura in ordine ai nuovi mezzi di prova, che la legge n. 69 del 2009 a seguito di un noto orientamento giurisprudenziale, estendeva anche alle prove precostituite, come i documenti .

La riapertura a nuovi mezzi di prova, se ritenuti “indispensabili” dal collegio, pure riprodotto nell’art. 345, 3° comma c.p.c., trasferito nell’ambito del rito ordinario, veniva privato della sua ragionevolezza, giustificabile solo nel rito del lavoro, in funzione della accentuazione dei poteri istruttori del giudice di quel rito .

Sulla indispensabilità si apriva un dibattito in dottrina e in giurisprudenza, con l’affermarsi anche di un’ipotesi dottrinale per così dire liberale che avvicinava molto il concetto di prova indispensabile al concetto di prova rilevante, di fatto riaprendo – sotto l’auspicio di un appello che non perdesse le sue caratteristiche originarie - l’ingresso di nuove prove nel mezzo di gravame .

A tale indirizzo rispondeva un concetto più ristretto di indispensabilità, messo a fuoco in relazione agli esiti del giudizio di primo grado, essendo ammesse le prove che sarebbero state di per sé in grado di consentire la revoca o modifica della decisione di primo grado o di confermare su basi diverse la sentenza di primo grado, dunque un concetto di rilevanza specifico dello strumento impugnatorio .

Sino ad una lettura più rigida che traduceva il concetto di indispensabilità in funzione delle nuove allegazioni consentite in secondo grado: accessori alla domanda maturati dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni di primo grado e dovuti a sopravvenienze; domande fondate su fatti nuovi, domande nascenti dall’intervento volontario di terzi in causa, allegazioni corrispondenti ad eccezioni rilevabili d’ufficio, allegazioni discendenti da una rimessione in termini, secondo la stessa previsione contenuta nel 3° comma dell’articolo 345 c.p.c.

Un dibattito che conduceva a soluzioni radicalmente diverse e che comprovavano nelle estremizzazioni dell’interpretazione la atecnicità della formula, laddove era stata trasportata tout court, senza la ragionevolezza dal ben diverso contesto del rito del lavoro.

Certamente la novellazione dell’art. 345 c.p.c. conduceva anche l’appello comune, nella stessa direzione impressa dalla riforma del processo del lavoro, ad una mera revisio priori istantiae. Con la evidente conseguenza di una speciale tecnica di formazione degli atti introduttivi, i quali potevano esclusivamente riproporre difese in senso lato già formulate nel giudizio di primo grado: l’appellante e l’appellato avrebbero dovuto comunque formulare domande, eccezioni e chiedere prove, secondo i contenuti degli atti del giudizio precedente, con il limite delle difese già formulate in primo grado, salvo i poteri officiosi quanto ad eccezioni e prove e al contraddittorio che ne sarebbe derivato.

La rigidità del modello era poi contraddistinta dal fatto che, ad eccezione delle riaperture consentite dalle sopravvenienze, o dalle eccezioni rilevabili d’ufficio o dalle prove indispensabili, non era consentito alcun mutamento dell’assetto difensivo contraddistinguente il giudizio di primo grado, neppure nel contesto di un esercizio di uno ius poenitendi, inesorabilmente (e inspiegabilmente) esaurito con lo scambio delle memorie di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. quando sarebbe stato molto più utile consentirne l’esercizio in udienza di precisazione delle conclusioni, dopo l’istruttoria, o, meglio ancora, in appello dopo il confronto con la sentenza di primo grado.

Con la introduzione, dovuta alla legge n. 69 del 2009, del procedimento semplificato di cognizione piena ai sensi degli artt. 702 bis e ss. c.p.c., le diverse scelte che hanno ispirato l’appello contro l’ordinanza conclusiva, idonea al giudicato, contenute nell’art. 702 quater c.p.c., che aprivano alla deducibilità di prove nuove semplicemente se rilevanti, non potevano non avere ricadute profonde sull’interpretazione dell’art. 345, 3° comma c.p.c., in quanto la difformità letterali delle due disposizioni non potevano non essere all’origine di regole diverse. L’indispensabilità è perciò concetto irriducibile al concetto di rilevanza, con buona pace delle teorie che avevano assimilato le due nozioni.

L’impostazione di un appello chiuso alle novità difensive, tuttavia, non incideva ancora sull’inquadramento generale dello strumento, costituiva piuttosto una scelta di un rito particolare e, pur avvilendo le attività difensive in appello e il raggiungimento della verità sostanziale certamente più favorita in un pieno ed illimitato svolgimento del contraddittorio e delle difese, non sradicava l’istituto dall’inquadramento di mezzo di gravame, caratterizzato da effetto devolutivo e sostitutivo.

3. L’esasperazione della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge.

In tale contesto normativo viene ad inserirsi una significativa evoluzione giurisprudenziale, assecondata, nella sua estremizzazione, dal più recente intervento legislativo.

La specificazione del motivo di appello, imposto dell’art. 342 c.p.c. nel quadro della illimitatezza degli argomenti di critica, come espressione del principio dispositivo costituiva consacrazione positiva della disponibilità dell’effetto devolutivo riservata all’appellante .

A fronte di una tendenziale identità dell’oggetto del giudizio di secondo grado rispetto all’oggetto del giudizio di primo grado, era lasciata a chi promuoveva l’appello, attore o convenuto, mediante appello incidentale, piena libertà di scelta dei capi di sentenza, corrispondenti ad altrettanti ambiti oggettivi , giudicati in primo grado, sui quali far rinnovare il giudizio nel secondo grado, risultandone provocato il passaggio in giudicato del capo non espressamente impugnato, art. 329, 2° comma c.p.c.

La specificazione del motivo, misura dell’effetto devolutivo lasciata alla disponibilità delle parti, integrava elemento di forma-contenuto dell’atto di appello, a pena di invalidità del mezzo .

Sotto questo particolare profilo il difetto della specificazione, in quanto assimilabile al difetto di uno degli elementi della domanda, schiudeva all’interprete la prospettiva dell’applicazione analogica dell’art. 164 c.p.c. : in difetto della specificazione, il giudice avrebbe potuto concedere un termine alla parte per la rinnovazione dell’atto di appello, purché fossero ancora aperti i termini per l’impugnazione, non essendo il vizio dell’editio actionis sanabile retroattivamente (con un regime ben diverso da quello della inammissibilità che ai sensi dell’art. 358 c.p.c. ne avrebbe escluso la riproponibilità).

Su questo impianto, assecondato dalla giurisprudenza di legittimità, viene ad inserirsi nello scorcio del passaggio tra il primo e il secondo millennio, un mutato orientamento, che costituisce il primo “attacco” mortale al “cuore” della nozione giuridica e positiva dell’appello come mezzo di gravame.

La Corte di cassazione esaspera gli oneri di specificazione del motivo di appello, non più concepito come limite dell’effetto devolutivo, ma espressione della critica alla sentenza, estrinsecazione dell’errore o del vizio lamentato nell’atto conclusivo del giudice di primo grado, sino ad imporre all’appellante l’espressione di un giudizio prognostico difforme rispetto a quello reso in prime cure.

E’ evidente che se il motivo di appello fuoriesce dall’ambito originario, quello della specificazione del capo di sentenza impugnato, e diventa per necessità espressione di una critica alla sentenza di primo grado, attraverso la individuazione dell’errore o del vizio in cui è incorso il giudice, l’oggetto del giudizio di appello tende inesorabilmente a spostarsi dalla fattispecie e dal diritto dedotto in primo grado, al provvedimento del giudice. L’appello prende le sembianze di uno strumento critico, che ha esclusivamente ad oggetto la sentenza sulla quale si appunta inesorabilmente la tensione dell’appellante e del giudice di secondo grado, nella specificazione e verifica dell’errore o del vizio in cui è incorsa.

Ne discende, inesorabilmente secondo l’indicato indirizzo della S.C., un regime di inammissibilità dell’appello privo della specificazione del motivo nella nuova accezione, non più ricondotto ad un vizio di nullità sanabile mediante rinnovazione dell’atto di appello, ma fatto confluire nel ben diverso regime della inammissibilità, che si traduce nella in improponibilità del mezzo e dunque nella definizione in rito del giudizio di appello, con perdita di uno strumento di tutela giurisdizionale.

A tale indirizzo, sulla cui scia si è inserita tutta la giurisprudenza del giudice di legittimità successiva e sino ad oggi, si radicano come estremizzazione di un’evoluzione, le scelte del legislatore, non più mosso da un’ispirazione rigoristica, che esaspera le forme dell’atto introduttivo, ma ad una ben diversa ratio, costituita dalla necessità di invertire il trand dei carichi giudiziari verso la dissuasione d’autorità all’uso degli strumenti di tutela giurisdizionale. E’ il legislatore della contingenza che impone forme alternative alla giurisdizione (esperienza della conciliazione obbligatoria) o crea balzelli e ostacoli formali (incremento dei costi fiscali del processo ed estremo formalismo nell’esercizio dell’azione giurisdizionale), rendendo necessario l’intervento correttivo del giudice della costituzionalità delle leggi.

Mediante la legge 7 agosto 2012 n. 134, conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, si fanno seguire all’art. 348 due nuovi articoli, gli artt. 348 bis e 348 ter, e si impone la novellazione dell’art. 342 c.p.c. .

Il processo di appello si arricchisce così di nuove ipotesi di inammissibilità, nell’evidente disegno di allontanare il merito della tutela, con trappole “mortali” elevate all’iniziativa.

L’art. 342 c.p.c. si allinea in tal modo agli orientamenti del giudice di legittimità con la precisazione positiva che la specificazione del motivo non ha più soltanto la funzione di limitare l’effetto devolutivo (“indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare”, art. 342 n. 1).

All’appellante è imposto l’onere di indicare le circostanze di fatto su cui ha erroneamente giudicato il giudice di primo grado e la loro rilevanza, quanto alle conseguenze giuridiche queste rientrano nelle prerogative del giudice, il quale può trovare ostacolo solo nel giudicato (art. 342 n. 2, c.p.c.). Infine, la necessità del giudizio prognostico: le “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto” (art. 342 n. 1, c.p.c.), su cui deve misurarsi l’appellante.

Ne risulta la razionalizzazione positiva degli orientamenti giurisprudenziali dell’ultimo decennio, dove il motivo è espressione: a) dei limiti all’effetto devolutivo, ovvero della dimensione dell’oggetto del giudizio di prime cure su cui deve rinnovarsi il giudizio in appello; b) della critica alla sentenza di primo grado, quanto all’accertamento dei fatti e alle sue conseguenze giuridiche; c) di un giudizio prognostico sull’esito dell’appello, tutti necessitati nella sua specificazione a pena di inammissibilità.

Il legislatore, infine, sanziona inesorabilmente il difetto di specificazione del motivo con la triplice estrinsecazione evidenziata, con l’inammissibilità dell’appello, ovvero ex art. 358 c.p.c., la non riproponibilità del mezzo.

4. L’epilogo: il merito si converte in rito

Ma il legislatore va ben oltre e porta alle estreme conseguenze l’estremizzazione della specificazione del motivo, laddove non più un elemento formale viene ad assurgere a motivo di inammissibilità, ma è la stessa fondatezza nel merito del motivo a costituire, in una valutazione preliminare, motivo di ammissibilità.

E’ la formulazione dell’art. 348-bis c.p.c., 1° comma, laddove estende i casi di inammissibilità anche alla “ragionevole probabilità” di accoglimento dell’appello.

Il modello malamente recuperato è il “filtro” al ricorso innanzi alla Corte di cassazione per i motivi dell’art. 360 c.p.c., ove “la manifesta infondatezza” “ della censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo” (art. 360 – bis, n. 2), c.p.c.) o generalmente la manifesta infondatezza del motivo indicato nel ricorso principale e nel ricorso incidentale (art. 375, , n. 5. c.p.c.), assurgono ad ostacolo rituale alla trattazione nel merito dell’impugnazione.

Non può non apparire evidente la diversità del potere discrezionale concesso al giudice dell’impugnazione nel caso di “manifesta infondatezza”, che costituisce ipotesi evidente di grossolano abuso del processo, rispetto al caso della “ragionevole probabilità”, ponendo l’appellante in balia degli umori del collegio in limine litis, che è l’unico modo per tradurre in concreto il concetto di diritto positivo. Con l’ulteriore perla della insindacabilità di tale giudizio preliminare, in quanto non impugnabile, essendo nell’ipotesi solo ricorribile per cassazione la sentenza di primo grado (ciò che imporrà presto o tardi un interessamento, debitamente sollecitato, della Corte costituzionale).

Il tutto estrinsecato con modalità procedimentali innovate, prevedendosi quanto alla inammissibilità per ragioni “di merito” una decisione in forma di ordinanza in apertura all’udienza di trattazione ex art. 350 c.p.c., ordinanza “succintamente motivata” mediante tecnica di”taglia/incolla” (“rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”). La norma ha dato presto l’occasione alle Corti di appello, che già esercitavano, con modalità che offendevano i limiti comunitari all’esercizio della giurisdizione, i poteri di differimento della udienza di trattazione (ex art. 168 – bis c.p.c.), di procedere a nuovi rinvii, nella necessita di delibare il fondamento in udienza preliminare ad hoc.

Un avvilimento dell’istituto, già colpito dalle prassi dilatorie delle Corti (“ de profundis” dell’istituto ben prima della sua definitiva sepoltura grazie alle scelte del legislatore), che non ha alcuna giustificazione, neppure in una logica deflattiva, per l’immediata prassi della duplicazioni di udienze e di ulteriore dilazione del procedimento, quando già lo stesso legislatore aveva suggerito lo strumento deflattivo, esercitabile sin dalla udienza preliminare sulla istanza inibitoria (artt. 283 e 351 c.p.c.), costituito dalla sentenza a verbale, essendo stata estesa l’applicazione dell’art. 281 – sexies, c.p.c. all’appello dalla legge n. 183 del 2001. Il collegio – qualora fosse almeno nella persona del relatore consapevole dei contenuti del fascicolo – avrebbe potuto invitare le parti all’immediata discussione, o concedere su richiesta un breve differimento della discussione orale, quando fosse apparso evidente la manifesta infondatezza del mezzo. Tutto ciò era già contenuto nella disciplina dell’appello prima della riforma.

Viene quindi introdotto un nuovo motivo di inammissibilità e la questione percorre vie formali diverse, quella della sentenza quando l’inammissibilità coincide con la mancata specificazione del motivo (art. 342 – bis c.p.c.), nei termini voluti dalla giurisprudenza e tradotti in diritto positivo dal legislatore, quella della ordinanza quando è fondata sul merito del motivo (“ragionevole probabilità di accoglimento”). Nel primo caso la sentenza è impugnabile in sede di legittimità e quindi sindacabile, nel secondo caso costituisce un potere insindacabile del giudice d’appello, perdendosi addirittura il controllo di legittimità della pronuncia definitiva su questione di rito.

E’ il colpo finale all’inquadramento generale dell’istituto, che fuoriesce dall’alveo del gravame, con il suo effetto integralmente devolutivo e, quanto alla pronuncia finale sostitutivo, per rompere l’argine e dilagare verso la impugnazione mera, dove la sentenza del giudice di prime cure diventa il vero obiettivo del giudizio del secondo giudice, quando si esaspera, come si è esasperato, il motivo di critica alla sentenza, non solo sul piano formale ma anche di merito, come ragione di ammissibilità del mezzo.

Sul piano della tecnica di impugnazione, l’appellante deve misurarsi con uno strumento che ha poco in comune con i mezzi di primo grado (come quando la difesa debba essere riproposta e non semplicemente oggetto di impugnazione, secondo il tenore dell’art. 346 c.p.c.), dovendosi misurare con la sentenza di primo grado e la sua parte motiva, al fine di individuarne non solo l’ambito di effettiva devoluzione al secondo giudice, ma la critica e le conseguenze in termini di esito del giudizio di appello, con un serio impianto argomentativo sui fatti e le regole applicabili, al fine di oltrepassare la trappola del previo vaglio di ragionevole probabilità di accoglimento.

5. Il profilarsi di un appello speciale. Il processo su situazioni indisponibili.

Se questa è la disciplina dell’appello di diritto comune, dopo l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa, di cui si sono cercato di tracciate le linee essenziali, non si può non evidenziare, e l’interprete come l’operatore ne dovrà trarre tutte le conseguenze, l’esistenza di un diverso regime, per così dire “speciale”, applicabile all’appello avverso alcuni provvedimenti decisori, il quale tiene ben saldo l’istituto ai suoi primordi.

E’ lo stesso legislatore del 2012 a tracciare la via alla ricostruzione sistematica.

Il merito del motivo come questione di ammissibilità dell’appello non è applicabile ai processi su diritti indisponibili, nei quali interviene obbligatoriamente il p.m. e negli appelli su ordinanza decisoria nel rito semplificato dell’art. 702 – bis, ai sensi dell’art. 702 – quater, c.p.c.

Nel primo caso evidentemente il legislatore non ripone a ragione troppe aspettative nella iniziativa del p.m., preferendo un processo scevro da ostacoli al dispiegarsi della tutela dei diritti e che perciò goda della piena prerogativa di una rinnovazione senza limiti o filtri discendenti dal motivo di appello di un giudizio di secondo grado. La previsione invero appare superflua, poiché è da tempo nota, ancorché lacunosa sul piano legislativo, la impossibilità di un processo dispositivo ad offrire piena tutela a situazioni indisponibili, con la necessità sul piano interpretativo di un ripensamento intorno all’iniziativa, alle preclusioni e ai rimedi. Tutta l’esperienza delle controversie di famiglia offre un terreno di elezione per misurare il processualista sulle caratteristiche del processo su situazioni indisponibili (ma vedi infra par. 8).

L’appello, normalmente ispirato alle forme del reclamo camerale (contro i decreti del Tribunale per i minorenni, contro le sentenze di separazione e divorzio) è dunque aperto a tutte le possibile novità sul piano del thema decidendum e del thema probandum, e non si presta al previo vaglio della ragionevole probabilità. Peraltro assoggettato alle scarne forme imposte dall’art. 739 c.p.c., non impone tutto il rigore dettato dall’art. 342 alla specificazione del motivo.

6. Il motivo di appello nel processo sommario ex art. 702 – bis, c.p.c.

Nel secondo caso si apre la prospettiva a cui è rivolta la presente analisi.

E’ noto come il procedimento regolato negli artt. 702 – bis e ss., dovuto alla legge n. 69 del 2009, nonostante la denominazione di procedimento sommario di cognizione e la sua collocazione topografica nel libro IV, dopo i procedimenti cautelari, sia tutt’altro che un processo sommario di cognizione .

Con il procedimento in esame il legislatore, in relazione a controversie con questioni di fatto semplificate, perché non necessitanti di un’istruttoria complessa, ha consentito nelle materie devolute al rito monocratico in tribunale una tutela in forme semplificate, nella quale il giudice, che si convince della opportunità di seguire il rito prescelto dall’attore e quindi non lo converta in rito comune (art. 702 – ter, 2° comma c.p.c.), esauriti gli atti di istruzione essenziali senza formalità particolari salvo la garanzia del contradditorio, offre la tutela finale, idonea al giudicato, con ordinanza (art. 702 – ter, 5° comma c.p.c., sulla idoneità al giudicato, art. 702 - quater c.p.c.).

La natura del procedimento, come modalità alternative alla introduzione e conclusione del giudizio a cognizione piena di rito ordinario, nonostante il nomen, è ricavabile da numerosi indici normativi, come l’applicazione di preclusioni irriducibili all’esperienza della cognizione sommaria cautelare o latu sensu anticipatoria, le analogia profonde di forma – contenuto degli atti introduttivi assimilati alla citazione e la comparsa di risposta regolati dagli artt. 164 e 166, 167 c.p.c., la convertibilità nel rito ordinario senza soluzione di continuità e a partire dalla udienza dell’art. 183 c.p.c., con la conservazione delle decadenze già maturate in coincidenza con gli atti introduttivi, i rimedi alla decisione in forma di ordinanza, coincidente appunto con l’appello.

Ma la particolarità, evidentemente per le forme che contraddistinguono il nuovo rito e particolarmente l’atto conclusivo in cui è contenuto il giudizio, è offerta dalla disciplina dell’appello, difforme dalla disciplina comune.

E’ stato possibile già cogliere, nell’esame dell’art. 348 – bis, c.p.c. come il motivo di inammissibilità costituito dalla non ragionevole probabilità di accoglimento non si applica e la ragione è da cercarsi nella semplificazione della ordinanza con cui si conclude il giudizio, che rende inevitabilmente meno severa la formulazione del motivo specifico di gravame e di conseguenza mantiene su basi più salde la natura di gravame dell’appello.

La semplificazione delle forme del giudizio finale reagisce inevitabilmente anche sul formalismo della specificazione del motivo, ai sensi del precedente art. 342 c.p.c., poiché la parte non deve misurarsi con una motivazione che sorregge una sentenza, ma con una motivazione che accompagna un’ordinanza. Quindi pur applicandosi il rigore della citata disposizione esso in concreto non può che imporsi meno severamente .

L’appello si trasforma in tal modo nel vero e proprio primo grado, essendosi il giudizio sino a quel momento condotto in forme semplificate e accelerate, nel quale può dispiegarsi secondo le regole comuni il vero e proprio judicium, con il pieno dispiegarsi del diritto alla prova della parte secondo il giusto processo.

Ne risulta meno onerosa la specificazione del motivo, semplice misura dell’effetto devolutivo, come si trattasse di una domanda introduttiva di un giudizio ove la parte può svolgere nella loro pienezza i suoi mezzi difensivi, funzionali all’adempimento dell’onere della prova, quale compensazione della intesa deroga alle regole sulla prova e sulla sua assunzione del processo semplificato che aveva preceduto.

7. Le novità difensive nell’appello del processo sommario ex art. 702 – bis, c.p.c.

L’appello speciale, quindi, si atteggia diversamente anche in relazione alle novità difensive proposte in appello, pur nella inopportuna e forse incostituzionale evoluzione normativa, dalla legge n. 69 del 2009 alla legge n. 134 del 2012.

Invero l’art. 669 – quater disciplina solo il profilo della prova nuova, nulla dicendo in ordine alle nuove domande e allegazioni. Il carattere speciale della disciplina rende inevitabile il regime preclusivo dell’art. 345, 1° e 2° comma, c.p.c., il quale si espande laddove non è regolato da legge speciale.

Infatti la norma nel suo tenore originario svelava una liberalizzazione d’altri tempi, ammettendo prove nuove purché rilevanti, ovvero tutti i mezzi di prova che avessero ad oggetto fatti principali, costitutivi o che rilevassero come eccezione, o anche soltanto fatti secondari da cui risalire al fatto principale attraverso prova critica presuntiva. In tal modo reagiva sulla stessa interpretazione che alcuni interpreti volevano offrire all’art. 345 c.p.c., il quale usava la ben diversa nozione di mezzi “indispensabili” al discrezionale potere del giudice.

La disposizione era parsa corretta tecnicamente ai primi interpreti, e non solo sul piano dell’opportunità, poiché la semplificazione delle forme non doveva andare a detrimento delle forme del processo a cognizione piena, che avevano agio di dispiegarsi senza limiti in sede di appello, il quale ancor più assumeva i caratteri del vero e proprio procedimento di primo grado e dunque di mezzo con il quale era pienamente espresso secondo le regole comuni il giudizio di primo grado.

Alla parte doveva essere offerta l’occasione, almeno in un grado del processo, di un pieno dispiegarsi del diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa.

La norma tuttavia appariva tecnicamente molto discutibile ponendo sullo stesso piano il regime di libertà della prova, purché rilevante, con la rimessione in termine per decadenza incolpevole, nonostante si trattasse di regimi irriducibili e non postulabili contemporaneamente. All’impasse letterale si doveva reagire facendo prevalere la regola più liberale .

Su questo impianto normativo si inserisce il legislatore del 2012 che anziché conservare la norma e il suo senso profondo, si lascia trascinare nella modifica apportata all’art. 345 c.p.c. seppur conservando la diversità, ma attenuando la totale liberalità della originaria previsione. La prova nuova rilevante diventa la prova nuova indispensabile secondo la valutazione del collegio nell’art. 669 – quater c.p.c., la prova indispensabile è espulsa dall’art. 345 c.p.c., ove il divieto diventa assoluto, salvo la remissione in termini.

Ma la prova nuova in linea con il concetto di indispensabile, rispetto a quello originario di rilevante, impegna oltre modo l’interprete.

Una lettura restrittiva, alla pari di quella che contraddistingueva il concetto quando era inserito nella disciplina dell’appello comune, limitando l’indispensabilità alla prova dell’allegazione nuova consentita in appello (fatti sopravvenuti, eccezioni rilevabili d’ufficio, fatti costitutivi di domande formulate da terzi ex art. 344 c.p.c. ed esercizio del contraddittorio rispetto a tali novità), rischia di porre la norma sulla china della incostituzionalità . Nella sommarietà e semplificazione dell’istruttoria è contratto in modo inaccettabile il diritto alla prova della parte, come estrinsecazione del diritto di difesa, ed irrimediabile in appello, per le angustie della sua espressione anche in quel grado.

Peraltro vi è anche da aggiungere che pure se estromessa ogni novità in relazione alla prova nel rito comune, non è veramente pensabile che una nuova prova non possa avversi in relazione a legittime acquisizioni di fatti sopravvenuti o meno in appello, se tali fatti posso essere dedotti per a prima volta in sede di gravame dovranno essere necessariamente soggette a prova.

Si rischierebbe così di parificare i regimi, che invece – almeno nella lettera delle disposizioni – sono diversificati.

La lettura è perciò necessariamente liberale.

Calato nel diverso contesto del processo sommario, la indispensabilità dovrà misurarsi al contrario intorno al mancato svolgimento in primo grado del diritto alla prova, dovuto alla semplificazione delle forme, quando il giudice di appello dovesse contrariamente a quello di prime cure, ritenere necessaria ovvero indispensabile una istruttoria vera e propria secondo le regole comuni.

Si recuperebbe così la libertà del giudice di appello, debitamente stimolato dalle istanze di parte, di dare svolgimento a quella istruttoria che era stata negata in primo grado, come una sorta di conversione tardiva, perché effettuata in appello, al rito comune.

La diversità rispetto al recente passato è costituita soltanto dalla motivazione a cui è soggetto l’esercizio del potere discrezionale del giudice di appello di consentire l’ingresso alla prova nuova: mentre nella formulazione meno recente la priva rilevante poteva essere versata o raccolta senza limiti di sorta, ora costituisce l’esercizio di un’autorizzazione del giudice, di un potere discrezionale in occasione del quale la indispensabilità deve essere motivata.

Questa è l’unica interpretazione della norma che sembra in linea con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, nella sua espressione di diritto alla prova .

8. La espansione delle regole dell’appello speciale

Il fenomeno di un appello disciplinato da regole speciali, potrebbe in via interpretativa avere un’espansione ben oltre il caso della ordinanza conclusiva del processo semplificato, ogni qualvolta il giudizio si concluda in forme semplificate coinvolgendo le regole applicabili al giudizio finale, particolarmente in relazione alla motivazione.

E’ evidente che ogni qual volta il giudizio finale si esprima in forme assimilabili a quelle delle ordinanza, con la semplificazione della sua espressione formale, particolarmente in relazione alla motivazione, il suo gravame si esprimerà con corrispondenti minori oneri di specificazione dell’appellante, in linea con la minore specificazione della motivazione da parte del giudice.

L’ipotesi è ad esempio quella della ordinanza a chiusura della istruttoria , giudizio a cognizione piena (“nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova”, art 186 – quater, 1° comma, c.p.c.), cui può seguire una sentenza solo se il soccombente la richiede con ricorso notificato all’altra parte entro trenta giorni dalla pronuncia in udienza o dalla sua comunicazione (4° comma della disposizione), in mancanza “acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto della istanza”. Quindi è appellabile.

La semplificazione delle forme non potrà non avere come conseguenza una semplificazione delle forme dell’appello, la “succinta motivazione” della ordinanza corrisponde un minore onere di specificazione della motivazione e una inevitabile minore severità nel vaglio della “ragionevole probabilità”.

La stessa considerazione, nonostante il richiamo alle forme della sentenza, deve essere compiuta in relazione all’ipotesi della decisione a seguito di discussione orale, ex art. 281- sexies, c.p.c., la quale al di là del richiamo formale è sostanzialmente un’ordinanza resa al termine della udienza a verbale, sorretta da “una concisa motivazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Ne consegue una minore specificazione degli oneri a carico della parte.

In questi casi le peculiarità formali del giudizio finale influenzano gli oneri di specificazione della motivazione imposti all’appellante, ma non derogano ai limiti imposti alle nuove difese, ai sensi dell’art. 345 c.p.c.

7. Il rito camerale ibrido come processo a cognizione piena di rito speciale e la disciplina del reclamo-appello.

La espansione delle forme camerali dal contesto della volontaria giurisdizione, al cui servizio sono state introdotte nel codice di rito, verso la giurisdizione contenziosa, ha imposto alla tutela giurisdizionale dei diritti le scarne regole degli artt. 737 e ss. c.p.c., costringendo la giurisprudenza ad un’intensa opera di adattamento del rito alle garanzie della difesa, del contraddittorio, della motivazione e del controllo di legittimità, costituzionalmente imposte, onde evitarne sicura declaratoria di incostituzionalità, denunciata da parte della dottrina .

Ne è sorto un rito con regole dettate dalla casistica, che stavano strette alle forme alle quali erano costrette. Ma quando il legislatore nei tempi più recenti, ancora suggestionato dallo stesso progetto, ma questa volta consapevole dell’elaborazione giurisprudenziale, ha disciplinato un rito camerale, tale solo nel nomen, con caratteri e forme che celano nella sostanza un vero e proprio processo a cognizione piena, regolato da un rito speciale, il regime speciale dell’appello è emerso senza mezzi termini o equivoci anche sul piano positivo.

Il riferimento va ai quei riti camerali contenziosi fallimentari ove le regole sulla forma-contenuto degli atti introduttivi, l’adozione di preclusioni stringenti in limine litis, le forme di instaurazione del contraddittorio particolarmente regolate, l’adottabilità di una tutela cautelare anche incidentale, lo svolgimento di un’istruttoria ampia preceduta da un giudizio di ammissibilità e rilevanza della prova e, all’esito del giudizio, la prospettiva di percorrere un gravame nel senso pieno del termine, non consentono più un inquadramento sistematico nei termini nominalistici adottati dal legislatore e impongono un inevitabile richiamo alle forme ordinarie della cognizione piena .

Il fenomeno è meno evidente nelle controversie di famiglia, dove pure ha grande rilievo l’espansione del rito, perché in questo contesto il rinvio agli artt. 737 ss. c.p.c. è pieno e l’elaborazione è prevalentemente giurisprudenziale.

Ad esempio nel recente episodio normativo sulla filiazione naturale, la legge. n 219 del 2012, con la novellazione dell’art. 38 disp. att. c.p.c., ha preferito il richiamo tout court alle disposizioni degli artt. 737 ss. c.p.c. (“in quanto compatibili”), piuttosto che una nuova disciplina ad hoc del rito camerale contenzioso. Ugualmente nel caso dell’appello (peraltro disciplinato solo in relazione alla sentenza non definitiva sulla separazione, art. 709- bis c.p.c. e nell’art. 4, 15° comma della legge n. 898 del 1970, sul divorzio ) oppure del rito della modifica ex art. 710 c.p.c. (o art. 9 legge n. 898, cit.), si richiamano genericamente le forme del rito in camera di consiglio.

E’ noto come il procedimento in camera di consiglio, pur nella parsimonia di norme, non possa essere colmato puramente e semplicemente mediante il richiamo a norme che regolano il processo ordinario o sommario di cognizione, trattandosi di rito autosufficiente irriducibile a regole applicabili ad altri riti, salvo che esso non deroghi o non si presti al rispetto delle garanzie costituzionali del giusto processo . Diversa è l’ipotesi per il caso del rito camerale ibrido, come vedremo, interamente riformato e assimilato gioco forza ad un processo ordinario a cognizione piena, ove non esiste problema di lacuna o richiamo analogico.

Ne consegue in sede di reclamo avverso le sentenze di separazione o divorzio oppure il decreto del tribunale per i minorenni la inapplicabilità delle disposizioni dell’appello comune, ma esclusivamente delle regole dell’art. 739 c.p.c.

La materia colma di situazioni indisponibili, giustifica sotto questo particolare profilo l’impossibilità di imporre limiti formali all’impugnativa o preclusioni alla allegazione e prova di fatti , ma a tale risultato si può giungere anche semplicemente attraverso l’applicazione dell’art. 739 c.p.c., che manca di ogni riferimento espresso a norme come quelle contenute negli artt. 342, 345 e 348-bis c.p.c., e la sua specificità rispetto all’appello di diritto comune .

Al di là dei limiti dell’effetto devolutivo disponibile esclusivamente per la parte, non hanno ragione di essere applicati i rigori sulla enunciazione dell’errore o del vizio in cui può essere incorso il giudice di primo grado, come non si estendono i limiti preclusivi ai nova.

Ma il fenomeno assume evidenze più nitide quando il legislatore, come nella esperienza del diritto fallimentare, non si limita a recepire la disciplina comune del rito camerali, ma la disciplina ex novo introducendo modelli che nulla hanno più a che vedere invero con la camera di consiglio, di cui richiamano “nostalgicamente” il nome, ma che costituiscono veri e propri processi a cognizione piena.

Per quanto il legislatore usi il termine reclamo, per consentire l’appello avverso i provvedimenti di prime cure, non è alla lacunosa disciplina dell’art. 739 c.p.c. che fa si richiamo, ma ad un procedimento di gravame integralmente regolato ex novo.

Basti muovere dall’art. 18 della legge fallimentare

Il reclamo fallimentare è diverso dall’appello comune, in ordine all’onere della motivazione dell’impugnazione e al divieto di nuove difese in senso lato, dovute all’ultimo episodio legislativo n. 134 del 2012, in considerazione delle previsioni contenute nell’art. 18, 8 e 10 comma, l. fall., ove è più accentuato l’effetto devolutivo, nella tendenziale coincidenza dell’oggetto dell’appello con l’oggetto del primo grado e liberalizzata l’iniziativa delle parti nell’allegazione dei fatti e nelle deduzioni istruttorie.

Cionondimeno, sulla base della forma-contenuto del ricorso per reclamo (art. 18, 2 comma, l. fall.), oltre all’indicazione dell’autorità e delle parti, è necessaria “3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni”, ovvero resta la necessità di una specificazione dei motivi. Il carattere impugnatorio del reclamo non esclude infatti il filtro all’effetto devolutivo che discende dal motivo di impugnazione, il quale offre la misura della devoluzione, in funzione dei capi di sentenza e/o decreto effettivamente impugnati .

Se dunque la specificità della motivazione si rende necessaria per la validità del reclamo, per il principio generale per cui è necessario indicare la causa petendi e il petitum della domanda, che in un giudizio di impugnazione coincidono con il capo di sentenza di cui si intende ottenere la riforma o l’annullamento, non è estensibile al reclamo fallimentare il rigore che discende oggi dalla specificazione del motivo ex art. 342 c.p.c., e dalla sua fondatezza ad un apprezzamento preliminare di ragionevole probabilità di accoglimento ex art. 348-bis, c.p.c, norme entrambe dovute alla legge n. 134 del 2012 . Infatti la esposizione di fatti e elementi di diritto, con le relative conclusioni fa pensare piuttosto ai requisiti di una domanda in primo grado, piuttosto che hai requisiti formali dell’appello di diritto comune.

Pertanto non sarà necessaria, oltre all’espressa indicazione delle parti del provvedimento appellato, la tassativa espressione a pena di inammissibilità in capi separati delle censure e dei vizi che si intendono fare valere, con l’indicazione dei contenuti sostitutivi richiesti al giudice del reclamo oppure, addirittura, un’espressione analitica e diffusa del motivo, tale da indurre il giudice dell’appello ad un giudizio prognostico di ragionevole probabilità di accoglimento.

Ne consegue che il reclamo dovrà contenere più semplicemente l’indicazione dei capi della sentenza e del decreto effettivamente impugnati e la riproposizione delle difese misconosciute dal giudice di appello e di cui si chiede l’accoglimento nel giudizio riformatore reso in sede di reclamo.

Nel caso di violazione di tale canone, non deve discenderne la diretta ed immediata inammissibilità dell’impugnazione, poiché in difetto di una previsione espressa di un tale tipo di sanzione è preferibile ricorrere all’art. 164 c.p.c., che consente al giudice d’appello di ordinare l’integrazione dell’atto carente della parte in un termine perentorio fissato .

Laddove non esista un vero e proprio capo di sentenza o decreto impugnabili, per mancanza di soccombenza vera e propria, in quanto risulti assorbita la domanda o eccezione, il reclamante dovrà, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., limitarsi alla riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte, ma neanche rigettate, non potendosi supplire mediante poteri officiosi, che possono esprimersi sul piano dell’iniziativa istruttoria, ma non certo in relazione all’allegazione dei fatti .

L’ampiezza di previsione, priva dei limiti di cui all’art. 345, 2 e 3 comma, c.p.c., alle allegazioni e deduzioni istruttorie che si ricava dall’art. 18, 8° comma, l. fall., fa ritenere l’insussistenza di preclusioni che impediscono alle parti di introdurre difese nuove, siano esse eccezioni riservate o mezzi istruttori.

La ragione è da rintracciarsi nella peculiarità della materia, i cui effetti discendono da una fattispecie che si vuole accertata giudizialmente, a prescindere dall’iniziativa delle parti, con un’accentuazione dei poteri istruttori del giudice esercitabile in ogni momento (art. 18, 11 comma, l. fall.), che male si giustifica con il divieto dei nova all’iniziativa delle parti .

Quindi sia il reclamante che il resistente non incontreranno il limite delle nuove deduzioni in fatto e di un’iniziativa istruttoria diversa da quella svolta in primo grado, con la possibilità di difese innovative soltanto se provocate dalla esigenza di contraddire all’intervento di un terzo interessato e/o dalle iniziative dell’ufficio oppure soltanto dalla incolpevole decadenza in cui sono incorse ai sensi dell’art. 153 c.p.c. Sia il reclamante che il resistente avranno agio di introdurre nuovi fatti e nuove prove, senza limiti particolari .

Neppure il limite della indispensabilità, già contenuto nella formula dell’art. 345, 3° comma, c.p.c. limita l’iniziativa della parte sotto il profilo probatorio, non solo per il carattere nebuloso del concetto, quanto per la totale liberalizzazione delle iniziative consentite alle parti.

La unificazione di opposizione, impugnazione e revocazione dello stato passivo in un unico rito disciplinato dalle stesse regole (artt. 98 e ss. l. fall.), differisce solo per aspetti secondari alla disciplina del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento .

Non può non essere più eloquente la disciplina dei contenuti del ricorso (art. 99, 2° comma): “3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione e le relative conclusioni”, che riproduce la dizione del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento, ma soprattutto: “4) a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti”, ove deve essere colta la totale liberalizzazione all’ingresso di nuove difese. La posizione del convenuto è regolata nello stesso modo: “una memoria difensiva contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti” (6° comma).

Si badi bene, se la diversità di regime dell’appello, rectius reclamo, contro la sentenza che dichiara il fallimento può essere astrattamente giustificata dal rilievo di interessi non solo di natura privatistica o particolare, questa ratio non può estendersi ai gravami regolati nell’ambito dell’accertamento del passivo, dove i crediti o i diritti reali dedotti sono situazioni private e individuali, deducibili in un processo pienamente dispositivo.

Naturalmente a fronte di eccezioni e prove nuove, all’udienza “il giudice.. provvede all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori” .

La disciplina è identica in tutti i gravami regolati, apparentemente nelle forme camerali, all’interno della legge fallimentare, ad esempio i reclami avverso i decreti del tribunale, art. 26, 7° e 10° comma, dove sono richiamate disposizioni dello stesso tipo .