01/01/07 1° Convegno Jaccheri

Dopo la improvvisa scomparsa dell'Avv. Mario Jaccheri, esperto di diritto di famiglia e massimo promotore di iniziative di studio e approfondimento tra docenti, giudici e avvocati nel foro pisano, la Sezione pisana dell'Osservatorio del diritto di famiglia ha organizzato, con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Pisa, della scuola forense e di specializzazione universitaria per le professioni legali una giornata di studi in memoria dal titolo: La riforma del processo per separazione e divorzio. Tutele sostanziali e processuali.

La tavola rotonda by Claudio Cecchellabis
L'applicazione giurisprudenziale delle tutele processuali by Maria Carla Gatto
L'applicazione giurisprudenziale delle tutele sostanziali by Gloria Servetti
Le tutela processuali by Francesco Paolo Luiso
Le tutele sostanziali by Mauro Paladini
Saluto del Dr. Carlo De Pasquale by Carlo De Pasquale
Saluto dell'Avv. Stefano Borsacchi by Stefano Borsacchi
Ricordo by Claudio Cecchella

Le tutele sostanziali

SOMMARIO: 1. Ricordo dell’avv. Mario Jaccheri ? 2. L’affidamento condiviso e i profili di attuale distinzione rispetto affidamento esclusivo ? 3. – L’assegnazione della casa familiare come “epicentro” della nuova disciplina ? 4. Le nuove cause di estinzione dell’assegnazione e la nozione sostanziale di «casa familiare» – 5. Il mantenimento dei figli minori e di quelli maggiorenni – 6. L’ascolto del minore e la mediazione familiare. – 7. La soluzione delle controversie tra coniugi e i provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni. – 8. Una breve riflessione conclusiva.

1. E’ con particolare emozione e commozione che intervengo in un convegno organizzato dall’Osservatorio del Diritto di Famiglia per commemorare la figura dell’Avv. Mario Jaccheri.

Ritornato a Pisa alla Scuola Superiore «Sant’Anna», avevo avuto diverse occasioni di incontrare l’Avv. Jaccheri e di confrontarmi con lui su questioni giuridiche e, in particolare, di diritto della famiglia. Mi aveva sempre colpito l’approccio direttamente rivolto ad enucleare e risolvere il problema esistenziale, che si celava dietro al dilemma interpretativo e applicativo, che pure l’avv. Jaccheri inquadrava e scioglieva con l’intelligenza e la finezza che gli appartenevano.

Ricordo il convegno organizzato dall’Avv. Jaccheri e della sezione pisana dell’Osservatorio, svoltosi nell’impareggiabile contesto della Tenuta San Rossore il 28 giugno 2003, nel quale, tra le numerose e interessanti relazioni, una era stata dedicata proprio al tema dell’affidamento congiunto dei figli, già in quel momento posto dall’Osservatorio come uno dei principali temi di confronto e dibattito.

Il “taglio” ? che gli odierni organizzatori hanno voluto attribuire a questo incontro ? credo che rispecchi in modo fedele l’impostazione professionale dell’avv. Jaccheri e la prospettiva da lui sempre rivolta alla “tutela” degli interessi coinvolti nella vicenda e, in particolare, dei soggetti deboli (i figli, il coniuge debole, gli ascendenti).

Un grazie, quindi, sentito e devoto all’avv. Mario Jaccheri per quanto nella sua vita ha saputo fare a tutela dei diritti dei soggetti deboli; un grazie all’Osservatorio del Diritto di Famiglia e alla sua sezione pisana, all’amico Claudio Cecchella per il gradito invito, e alla cara Elena Jaccheri, che del padre prosegue, con instancabile impegno, la feconda attività.

2. Il tema che mi è stato affidato è quello delle «tutele sostanziali» nelle recenti riforme della separazione personale e del divorzio e ritengo di interpretare correttamente il proposito degli organizzatori concentrando la mia attenzione sui profili sostanziali della legge n. 54 del 2006, che ha sancito – come è noto – il principio per cui, nella crisi di ogni relazione familiare o parafamiliare che coinvolga il rapporto tra genitori e figli, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno [dei genitori], di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi.

Il c.d. «diritto alla bigenitorialità» era già riconosciuto, invero, in fondamentali testi normativi sovranazionali, quali la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (art. 9, comma 3) e la Carta di Nizza (art. 24, ora art. 84 del Trattato Costituzionale Europeo), nonché nella quasi totalità degli ordinamenti europei.

Si trattava, pertanto, di una scelta normativa per molti versi obbligata che, non a caso, ha ottenuto, all’atto della sua adozione, il consenso di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento, sensibili alle ragioni da tempo fatte valere da una parte dell’opinione pubblica e, in particolare, dalle associazioni di “padri separati”, schierate in prima linea per la rivendicazione di un diritto alla genitorialità sovente compresso da provvedimenti giudiziari di affidamento esclusivo in favore della madre, con limitazioni quantitative e qualitative dei tempi di permanenza con il padre.

La legge, tuttavia, presenta non poche difficoltà interpretative, che si sono rivelate assai presto all’origine di soluzioni giurisprudenziali diverse e, talvolta, stridenti.

In primo luogo, deve escludersi – secondo uno dei pochi aspetti su cui parrebbe convergere la maggioranza degli interpreti – che l’affidamento condiviso implichi la matematica ripartizione tra i genitori dei tempi di permanenza con il figlio; l’affidamento condiviso è compatibile, infatti, con il “collocamento prevalente” della prole presso uno dei genitori, al quale ? al fine di assicurare stabilità dell’habitat domestico e continuità nelle abitudini di vita ? dovrà essere disposta, di regola, altresì l’assegnazione della casa familiare (art. 155 quater c.c.).

Se ciò è vero, peraltro, sussiste il concreto rischio che l’affidamento condiviso si trasformi in una definizione giuridica di modalità di affidamento che, in concreto, potrebbero non differenziarsi significativamente dal precedente affidamento esclusivo con diritto di visita per uno dei genitori. Non può escludersi, quindi, che, alla base della scelta legislativa dell’affidamento condiviso, si possa rintracciare l’intento del legislatore di ripartire secondo proporzioni più egualitarie rispetto al passato la permanenza e la frequentazione di entrambi i genitori.

Il rischio di una differenza beffardamente solo nominalistica rispetto al passato si rivelerebbe ancor più evidente laddove gli interpreti dovessero propendere per la tesi secondo la quale l’esercizio della potestà non si differenzi a seconda della natura condivisa o esclusiva dell’affidamento.

L’art. 155, comma 3, c.c., infatti ? con una previsione che non distingue apparentemente tra affidamento condiviso e affidamento esclusivo ? stabilisce che «La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente».

Secondo una prima tesi, l’art. 155, comma 3, c.c. si applica sia all’affidamento condiviso sia all’affidamento esclusivo: da questo punto di vista, le due forme di affidamento non si differenzierebbero in alcun modo.

Secondo una tesi opposta, invece, nel caso di affidamento esclusivo l’esercizio della potestà spetterebbe al solo genitore affidatario.

Secondo una tesi intermedia, infine, nell’affidamento esclusivo di regola l’esercizio della potestà spetterebbe ad entrambi i genitori, salvo che il giudice, in casi particolari caratterizzati dal rischio di un concreto pregiudizio per il minore, disponga l’esercizio esclusivo della potestà in capo al solo genitore affidatario.

In favore della prima tesi militano, invero, soltanto argomenti letterali o formalistici, quali la collocazione dell’art. 155, comma 3, c.c. – che, nel contesto della norma, parrebbe non distinguere tra le due forme di affidamento – e la presunta mancanza di una nuova previsione che, in luogo dell’abrogato art. 155, comma 3, c.c., disciplini il contenuto e l’esercizio della potestà nell’ipotesi di affidamento esclusivo.

La tesi intermedia, a sua volta, appare in contrasto col dato testuale, che non consente di evincere alcuna “dicotomia” nell’ambito della figura dell’affidamento esclusivo. Inoltre, se il presupposto per escludere il genitore non affidatario dall’esercizio della potestà ? secondo questa ricostruzione ? è costituito dal requisito del “pregiudizio per il minore”, si deve sottolineare che esso finirebbe col coincidere col presupposto richiesto dall’art. 155 bis c.c. perché possa essere disposto l’affidamento esclusivo.

L’argomento letterale appare scarsamente probante, posto che l’art. 155 c.c., pur enunciando l’affidamento esclusivo come alternativa all’affidamento condiviso, è norma generale, rispetto alla quale l’art. 155 bis c.c., espressamente dedicato all’affidamento esclusivo, pone una previsione speciale alla quale l’interprete può legittimamente attribuire un contenuto peculiare sotto il profilo delle regole compatibili con tale modalità di affidamento.

Anche l’argomento dell’abrogazione della norma che disciplinava l’esercizio esclusivo della potestà da parte del solo genitore affidatario si rivela poco significativa, posto che nell’ordinamento è contenuta ancora una norma che descrive tale esercizio. L’art. 6, comma 4, legge n. 898/70 contiene, infatti, una norma quasi perfettamente sovrapponibile al disposto dell’abrogato art. 155, comma 3, né può condividersi l’argomento della presunta abrogazione tacita dell’art. 6, posto che la giurisprudenza applica in modo particolarmente restrittivo i criteri dell’art. 15 disp. prel. c.c.

Deve nettamente preferirsi, pertanto, la tesi secondo cui, nel caso di affidamento esclusivo, l’esercizio della potestà spetta al solo genitore affidatario, come appare del resto comprensibile in considerazione della “eccezionalità” dell’affidamento esclusivo, che l’art. 155 bis prevede per i soli casi di manifesta e grave inidoneità di un genitore sul piano educativo. Sarebbe addirittura paradossale che, nonostante tali eccezionali situazioni, l’esercizio della potestà continui ad essere riconosciuto anche al genitore privato dell’affidamento.

La tesi dell’indifferenza delle modalità di affidamento ai fini dell’esercizio della potestà conduce – unitamente a quella della compatibilità tra affidamento condiviso e collocamento prevalente presso un genitore (con tempi non diversi da quelli dell’affidamento esclusivo) – al progressivo affievolimento delle differenze contenutistiche tra le modalità di affidamento e all’attribuzione alla nuova legge di una vacua valenza declamatoria e gattopardesca.

3. La possibilità – che, come si è detto, è unanimemente riconosciuta dalla dottrina – che all’affidamento condiviso corrisponda il collocamento prevalente presso uno dei genitori, attribuisce un significato davvero “centrale” all’istituto dell’assegnazione della casa coniugale.

Il nuovo art. 155 quater c.c. stabilisce che «Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643».

La norma, pertanto ? nel ribadire implicitamente la necessità di garantire l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico in cui si è svolta la loro esistenza fino alla disgregazione dell’unità della famiglia ? consente di ritenere che, anche nel caso di affidamento condiviso, il giudice ha il potere-dovere di determinare una localizzazione prevalente della vita della prole, a tutela della quale egli provvede ad assegnare la casa familiare al coniuge con il quale i figli debbano intrattenere più stabili e frequenti relazioni.

In tal senso, si può affermare che la norma sull’abitazione della casa familiare fornisca una chiave interpretativa dello stesso principio generale dell’affidamento condiviso, che non può implicare ? proprio per quelle ragioni di tutela della serenità e stabilità affettiva della prole, che devono orientare la determinazione delle modalità di attuazione del diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (art. 155, comma 1) ? l’incerto e continuo “peregrinare” del figlio tra le rispettive abitazioni dei genitori stessi, ma comporta la determinazione della «residenza» del minore e, pertanto, la necessità di garantire il godimento della casa familiare al genitore che col figlio conviva nella medesima abitazione .

Tuttavia, nello spirito dell’affidamento condiviso, il Giudice, ove la situazione lo consenta, dovrà esercitare ogni forma di persuasione affinché i genitori separati si concedano reciprocamente la presenza all’interno delle rispettive abitazioni, così che il diritto del minore al rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore possa trovare attuazione nel medesimo contesto ambientale ove si svolgeva la vita familiare: a tal fine, le prospettive che la legge possa incentivare un’attenuazione della conflittualità tra coniugi separandi e separati sono affidate soprattutto all’opera che sapranno svolgere i mediatori familiari e alla saggezza dei Giudici nel contatto con le parti e nell’adozione dei provvedimenti . Ciò che, invece, non pare possa affermarsi per effetto della nuova legge è l’eventualità che l’assegnazione sia disposta direttamente in favore della prole, posto che la titolarità del diritto di godimento potrebbe determinare una serie di conflitti con le situazioni personali o reali dei genitori, che complicherebbero, piuttosto che semplificare, le problematiche dell’affidamento e del mantenimento.

Sul piano esegetico-applicativo, si può pronosticare, che il tenore del nuovo art. 155 quater ravviverà i mai sopiti contrasti circa il potere del giudice di disporre l’assegnazione della casa familiare soltanto in presenza di figli e per la tutela del loro interesse a non subire il trauma dell’allontanamento dall’immobile ove si è svolta la loro esistenza fino al momento della separazione tra i genitori, oppure anche come misura patrimoniale integrativa o sostitutiva dell’assegno di mantenimento, previsto dall’art. 156 c.c. in favore del coniuge “debole”.

Sul punto – sotto il vigore dell’abrogato art. 155, comma 4, c.c. e dell’art. 6, comma 6, legge n. 898/70 (come riformato dalla novella del 1987), le Sezioni Unite hanno per ben due volte affermato che la locuzione “spetta di preferenza” doveva essere interpretata in modo che la scelta preferenziale dovesse riferirsi non già al soggetto destinatario dell'assegnazione, ma allo stesso provvedimento di assegnazione, nel senso che « …l'alternativa all'assegnazione in favore del coniuge affidatario della prole (o convivente con figli maggiorenni non autonomi) non consiste nell'assegnare la casa al coniuge che di tale qualifica sia privo, ma nella possibilità di non emettere il provvedimento, pur in presenza della situazione-presupposto, e di lasciare quindi l'immobile nella disponibilità del coniuge proprietario titolare di altro diritto di godimento».

La nuova formula legislativa, che adopera l’avverbio «prioritariamente» non presenta, invero, particolari difformità concettuali rispetto alla precedente locuzione legislativa «di preferenza» e consente all’interprete di attingere all’ampia elaborazione compiuta sul punto dalla giurisprudenza. Può affermarsi, pertanto, che ? così come la formula «di preferenza» è stata in precedenza intesa in chiave descrittiva dell’alternativa tra emanazione e non emanazione del provvedimento di assegnazione della casa familiare ? nello stesso modo deve escludersi che, con la novella del 2006, l’istituto della casa familiare possa essere estensivamente applicato come misura economica alternativa o integrativa dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge debole .

In favore di tale interpretazione depongono ? accanto agli argomenti già espressi del consolidato orientamento della giurisprudenza, che meritano di essere ribaditi anche alla luce della novella legislativa ? alcuni dati sistematici come, anzitutto, il fatto che il legislatore abbia mantenuto intatta la distinzione tra “provvedimenti riguardo ai figli” (rubrica del precedente e dell’attuale art. 155 c.c.) ed “effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi” (rubrica dell’immutato art. 156 c.c.). Non v’è dubbio che le nuove norme degli artt. 155 bis?sexies c.c. facciano tutte riferimento a misure in favore della prole e non si propongano di innovare i profili concernenti i rapporti patrimoniali tra i coniugi: se avesse inteso estendere la funzione dell’assegnazione della casa familiare, il legislatore avrebbe dovuto quanto meno mutare la collocazione della relativa norma, ponendola in posizione seguente all’art. 156 c.c., per evidenziare anche plasticamente la sua biunivoca applicabilità in funzione dell’interesse dei figli o di quello del coniuge debole.

La precedente conclusione pare essere testualmente confermata, altresì, dalla seconda parte dell’art. 155 quater, comma 1, che stabilisce che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.

Il legislatore ha inteso tradurre in previsione normativa la regola già elaborata dalla giurisprudenza , che imponeva, in sede di determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli e del coniuge, di imputare il beneficio economico derivante a quest’ultimo dalla detenzione dell’immobile di proprietà del coniuge obbligato .

L’ultima parte dell’art. 155 quater, comma 1, stabilisce che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643».

Come è noto, le esigenze di tutela del diritto del coniuge assegnatario ? che l’alienazione dell’immobile da parte dell’altro coniuge esclusivo proprietario pregiudicava irrimediabilmente (secondo l’interpretazione che prevalse all’indomani della riforma del diritto della famiglia) ? furono riconosciute dalla legge del 1987, che, nel riformare art. 6 della legge n. 898 del 1970, stabilì che l'assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell'art. 1599 del codice civile. La trascrivibilità del provvedimento fu, poi, prontamente estesa dalla Corte Costituzionale (sent. 27 luglio 1989, n. 454 ) e può considerarsi, oggi, prevista anche per l’assegnazione disposta in favore del genitore in seguito a rottura della convivenza more uxorio, nonostante le non lievi perplessità suscitate dalla recente pronuncia del Giudice delle Leggi .

La decisione legislativa di includere il provvedimento di assegnazione della casa familiare tra gli atti soggetti a trascrizione a norma dell’art. 2643 evidenzia l’intento di attribuire alla trascrizione stessa l’efficacia di opponibilità del diritto ai terzi, sancita dal successivo art. 2644 c.c.

L’applicazione dell’art. 2644 c.c. comporterà, ad esempio, che l’eventuale conflitto tra il coniuge assegnatario e colui che abbia ottenuto dal coniuge proprietario un diverso diritto di godimento dell’immobile (si pensi, ad un contratto di locazione ultranovennale) dovrà essere risolto in base al criterio della priorità della trascrizione (conformemente a quanto previsto dall’art. 1380 c.c.). Allo stesso modo – per proporre un ulteriore esempio – il diritto del coniuge assegnatario, se già trascritto, sarà opponibile nei confronti del creditore della società di durata ultranovennale nella quale il coniuge proprietario abbia conferito il godimento del bene immobile.

E’ importante sottolineare che, in applicazione dell’art. 2644 c.c., la trascrizione del provvedimento rende opponibile il diritto del coniuge assegnatario anche nei confronti di coloro che abbiano acquistato un diritto incompatibile in data anteriore al provvedimento ma che abbiano omesso la trascrizione del loro titolo.

Chiarito, pertanto, che – grazie al richiamo dell’art. 2643 c.c. ? la trascrizione del provvedimento di assegnazione non ha funzione di pubblicità?notizia e rende opponibile il diritto dell’assegnatario nei confronti dei terzi che abbiano trascritto in data successiva titoli attributivi di diritti acquistati anche anteriormente, si deve esaminare l’ulteriore problema della compatibilità tra la previsione dell’art. 155 quater e l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970.

Si impone una premessa: attraverso l’art. 4 della legge n. 54 del 2006 ? che prevede che «le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» ? il legislatore ha inteso certamente estendere l’ambito di tutela degli interessi dei figli rispetto alle previgenti norme in materia di divorzio, nullità e, in certi limiti, di convivenze more uxorio. Di conseguenza, non può essere ritenuta ? per effetto dell’estensione della nuova normativa ? la tacita abrogazione di una norma ? come l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970 ? che, anche in virtù dell’interpretazione e applicazione adottata dalla giurisprudenza, risulti in grado di tutelare meglio l’interesse dei figli.

Orbene, è noto che l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970 è stato interpretato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nel senso che, grazie al richiamo all’art. 1599 c.c., il provvedimento di assegnazione, se trascritto, è opponibile al terzo acquirente senza limiti di tempo (salva la sopravvenuta caducazione dell’interesse dei figli alla detenzione), e, se non trascritto, è comunque opponibile nei limiti di un novennio (art. 1599, comma 3, c.c.).

L’art. 1599 c.c. contiene, dunque, una previsione speciale rispetto all’art. 2643, poiché non regola il conflitto tra il conduttore e qualunque altro titolare di un diritto incompatibile, ma si limita a stabilire le condizioni affinché la locazione sia opponibile al terzo acquirente della cosa locata. Poiché lex posterius specialis non derogat priori generali, deve affermarsi che ? mentre il conflitto tra l’assegnatario e il titolare di altro diritto incompatibile (ad esempio, un conduttore in base a locazione ultranovennale) è risolto dall’art. 2644 c.c. ? l’opponibilità nei confronti del terzo acquirente resta disciplinata, invece, dall’art. 1599 c.c., stante la norma espressamente dettata in materia di divorzio (art. 6, comma 6, legge n. 898/70) e resa applicabile alla separazione personale e alle convivenze more uxorio dalle citate pronunce della Corte Costituzionale.

In definitiva, l’attuale combinato disposto degli artt. 155 quarter e 6, comma 6, legge n. 898/70 consente la seguente ricostruzione delle funzioni e degli effetti della trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare:

1) la trascrizione ha funzione dichiarativa ai sensi dell’art. 2644 c.c. e, di conseguenza, risolve il conflitto con i titolari di diritti incompatibili;

2) l’opponibilità nei confronti del terzo acquirente del bene immobile resta disciplinata dalla norma speciale dell’art. 1599 c.c. e, pertanto, il provvedimento di assegnazione non trascritto consente all’assegnatario il godimento del bene immobile nei soli limiti del novennio, secondo l’interpretazione accolta da Cass., sez. un., 26 luglio 2002 n 11096.

4. L’art. 155 quarter, comma 1, prevede che il diritto all’assegnazione della casa familiare si estingua:

1) se l’assegnatario non abiti la casa familiare;

2) se l’assegnatario cessi di abitare stabilmente nella casa familiare;

3) se l’assegnatario instauri una convivenza more uxorio all’interno della casa oggetto di assegnazione;

4) se, infine, l’assegnatario contragga nuovo matrimonio.

Con riguardo alla prima ipotesi, si tratta di casi eccezionali, nei quali ? per sopravvenute o imprevedibili ragioni ? l’assegnatario decide di non beneficiare del godimento riconosciutogli. La decisione di non abitare la casa familiare, pur in presenza del provvedimento di assegnazione, può rivelarsi, d’altra parte, pregiudizievole nei confronti dei figli e configurare il presupposto indicato dal nuovo art. 709 ter c.p.c. per la modifica dei provvedimenti e per un ulteriore provvedimento sanzionatorio nei confronti del coniuge assegnatario dell’immobile.

Anche per quel che concerne la cessazione dell’abitazione nella casa familiare, il giudice dovrà verificare le ragioni di tale condotta dell’assegnatario e valutare il comportamento del genitore sotto il medesimo angolo visuale dell’art. 709 ter c.p.c. In luogo dell’unilaterale decisione di non abitare o di cessare la stabile dimora all’interno della casa familiare, il coniuge assegnatario dovrebbe preliminarmente rappresentare al giudice le sue (o della prole) mutate esigenze (si pensi, ad esempio, alla minore presenza del figlio maggiorenne all’interno della casa familiare in seguito alla sua iscrizione in un’università posta in altra città) e richiedere una revoca o una modifica del provvedimento di assegnazione.

Maggiormente problematica si rivela la causa di estinzione costituita dall’instaurazione di una convivenza more uxorio all’interno dell’immobile oggetto di assegnazione. Appare evidente come il legislatore abbia inteso sottolineare la strumentalità dell’assegnazione alla sola realizzazione dell’interesse dei figli al mantenimento del pregresso ambiente domestico e abbia voluto evitare che l’assegnazione dell’immobile rappresenti la realizzazione dell’esigenza abitativa di un soggetto – come il convivente del coniuge assegnatario ? portatore di un interesse affettivo potenzialmente in contrasto con il diritto del figlio «…di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno [dei genitori]».

Per quanto, infatti, l’abitazione della casa sia finalizzata a soddisfare l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, è indubbio che il provvedimento di assegnazione comporti automaticamente, altresì, il soddisfacimento dell’esigenza abitativa del genitore al quale il giudice abbia attribuito il diritto di abitazione. Quest’ultimo, in qualità di titolare esclusivo del diritto personale di abitazione, è l’unico soggetto legittimato ad esercitare la facoltà di concedere alloggio a terzi all’interno dell’immobile. Sul punto, la legge non ha disciplinato analiticamente tutti i possibili limiti di esercizio di tale facoltà, rimettendo, da una parte, alla prudenza dell’assegnatario l’eventuale estensione a terzi del godimento dell’immobile, e lasciando, dall’altra, al giudice il potere di valutare l’ingresso di nuovi soggetti all’interno della casa familiare come circostanza idonea a determinare una revisione del provvedimento di assegnazione (art. 710 c.p.c.).

Non può escludersi, ad esempio, che il genitore assegnatario decida di ospitare all’interno dell’immobile assegnato il proprio genitore, un altro prossimo congiunto, un amico, ecc. Tale decisione determinerebbe il soddisfacimento dell’esigenza abitativa anche del soggetto ospitato, ma la legge continua ad attribuire, in tal caso, la prevalenza all’interesse dei figli al mantenimento dell’ambiente domestico costituito dalla casa familiare, salva una diversa decisione del giudice al quale l’altro genitore dimostri l’esistenza di un pregiudizio a carico dei figli come conseguenza della decisione dell’assegnatario di estendere l’ambito soggettivo dei beneficiari del godimento dell’immobile.

In presenza dell’estensione di siffatto godimento in favore del convivente more uxorio dell’assegnatario, il conflitto tra i diversi interessi dei soggetti coinvolti è risolto dal legislatore, che ha scorto una particolare riprovevolezza nello sfruttamento del godimento della casa familiare per l’instaurazione di una relazione con un soggetto che, di fronte ai figli, rischia di porsi come figura “alternativa” a quella dell’altro genitore.

Non si vuole escludere, ovviamente, che – in seguito alla separazione (e, a fortiori, in seguito al divorzio o all’annullamento del matrimonio) – possano innescarsi nuove dinamiche di relazioni affettive che coinvolgano anche i figli, i quali possono certamente instaurare contatti e vincoli affettivi con i nuovi compagni o coniugi dei genitori: ciò che il legislatore ha unicamente precluso è la circostanza che tali nuove situazioni possano avere come luogo di svolgimento l’immobile già adibito a casa familiare e sul quale l’altro genitore vanti la titolarità di un diritto reale o personale .

Nella nuova causa di estinzione del diritto di abitazione della casa familiare può essere rintracciato, pertanto, un profilo di tutela dell’interesse dei figli ad un equilibrato sviluppo psico-affettivo, nella misura in cui la legge non consente che essi possano assistere ad una sorta di “sostituzione” della figura genitoriale del coniuge non assegnatario proprio all’interno di quel contesto fisico–ambientale in cui si era svolta la loro esistenza fino alla fase della disgregazione della convivenza familiare.

La nuova disposizione individua, pertanto, una nuova nozione di «casa familiare»: non mero luogo fisico ove “collocare” la residenza della prole in seguito alla cessazione della convivenza coniugale, ma ambiente idoneo ad accompagnare, con caratteristiche per quanto possibile simili a quelle precedenti, l’esistenza, lo sviluppo e la crescita dei figli.

Tale complessità di ratio della previsione legislativa consente di risolvere in senso estensivo – in conformità, peraltro, alla lettera della legge – il problema dell’ambito applicativo della causa di estinzione: essa si applicherà, cioè, non solo nel caso in cui il coniuge non assegnatario sia proprietario esclusivo dell’immobile, ma anche nelle ipotesi di comunione (ordinaria o legale) o di titolarità di un diritto personale di godimento .

A fortiori rispetto all’instaurazione di una convivenza more uxorio ? e in coerenza col disposto dell’art. 4, comma 2, legge n. 54 del 2006, che espressamente estende le nuove norme sull’affidamento condiviso ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati ? è causa di estinzione del diritto al godimento della casa familiare il nuovo matrimonio contratto dall’assegnatario.

5. L’art. 155, comma 4, c.c. stabilisce che «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore». Anche su tale disposizione non mancano dubbi e differenze interpretative.

Secondo una prima tesi, il legislatore si sarebbe limitato ad esplicitare quanto già ritenuto e applicato in giurisprudenza sotto il vigore dell’abrogato art. 155 c.c., esplicitando, da un lato, l’obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non già in ragione del 50%, bensì in proporzione al reddito di ciascuno di essi, e, dall’altro, i parametri per la quantificazione dell’eventuale contributo di mantenimento necessario a rendere effettiva l’attuazione del principio di proporzionalità.

Secondo una diversa impostazione, invece, nell’affidamento condiviso il contributo di mantenimento dovrebbe ritenersi un istituto “eccezionale”, che il giudice è chiamato ad applicare soltanto in via di “residualità” rispetto alla regola secondo cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento in via diretta, nei rispettivi tempi di permanenza con sé del minore.

Pronunciandosi incidenter tantum nell’ambito di una controversia in tema di divorzio, la Suprema Corte ha dimostrato di preferire nettamente la prima interpretazione, affermando che l’affidamento condiviso è fondato sull’esclusivo interesse del minore ed attiene alla sua qualità di vita, ma non può comportare necessariamente, in ordine al mantenimento dei figli, un pari obbligo patrimoniale a carico dei genitori, nel senso che dall’affidamento condiviso debba discendere l’obbligo per ciascun coniuge di provvedere in via diretta al mantenimento dei figli. Si tratta di un’impostazione condivisibile, tanto più che la nuova regola di affidamento include espressamente la possibilità di diversi tempi di permanenza del minore presso ciascuno dei genitori, sicché non si comprenderebbe la ragione per cui, proprio contestualmente all’affermazione del “principio di proporzionalità”, il contributo di mantenimento possa diventare istituto “residuale ed eccezionale”.

La legge fa salva soltanto l’ipotesi di accordi «sottoscritti dalle parti», tra i quali deve ritenersi ammissibile anche quello con cui uno dei genitori, nell’ambito della regolazione dei rapporti economici conseguenti alla separazione, assuma integralmente su di sé l’obbligo di mantenimento della prole.

Ove disposto, «l’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice» (art. 155, comma 5, c.c.). Ai fini della determinazione del contributo, le parti possono ricorrere a ogni mezzo di prova e, «ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi» (art. 155, comma 6, c.c.).

A sua volta, l’art. 155 quinquies c.c. prevede che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.

La norma ribadisce il principio sostanziale secondo cui l’obbligo di mantenimento dei figli, previsto dall’art. 147 c.c., non si estingue con la maggiore età, ma perdura fino al conseguimento dell’indipendenza economica o delle condizioni personali o professionali per poterla ottenere (secondo un’interpretazione che – fatta eccezione per talune isolate decisioni di merito – la giurisprudenza assolutamente prevalente aveva già affermato).

A fronte della titolarità sostanziale del diritto al mantenimento, la giurisprudenza aveva riconosciuto, altresì, la legittimazione processuale del figlio maggiorenne ad agire iure proprio in giudizio per ottenere la liquidazione e il pagamento del relativo assegno periodico . Tale legittimazione era considerata, tuttavia, concorrente con la legittimazione, del genitore convivente, il quale, continuando a provvedere direttamente ed integralmente al mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente, era legittimato a domandare – iure proprio e non ex capite filiorum – sia il rimborso di quanto da lui in precedenza anticipato (e dovuto, invece, dall'altro genitore), sia il contributo per il mantenimento futuro del figlio stesso .

Tra la legittimazione del figlio e quella del genitore non sussisteva alcun litisconsorzio necessario; anzi, nell’ipotesi di giudizio instaurato dal genitore convivente, si era ritenuto che, in mancanza dell’intervento del figlio nel giudizio pendente, la sentenza di condanna doveva considerarsi emessa solo in favore del genitore convivente, con la conseguenza che il figlio non aveva titolo per richiedere direttamente il pagamento del contributo al mantenimento al genitore obbligato non convivente.

In presenza, tuttavia, di questa duplice legittimazione ad agire verso il genitore non convivente, si poneva il problema del rapporto tra il diritto del figlio maggiorenne e quello del genitore non convivente, che – secondo la giurisprudenza più recente – doveva essere risolto in base ai principi della solidarietà attiva, applicabili in via analogica.

La nuova legge ha innovato, invece, rispetto ai principi giurisprudenziali di legittimazione concorrente tra genitore convivente e figlio maggiorenne. L’art. 155 quinquies c.c. prevede, infatti, che di regola, salvo una diversa determinazione del giudice, l’assegno sia versato direttamente all’«avente diritto» che certamente, nelle intenzioni del legislatore, è il solo figlio maggiorenne. Affinché il contributo di mantenimento sia versato all’altro genitore occorre, pertanto, un provvedimento del giudice, che potrà essere adottato in sede di regolamentazione dei rapporti economici tra coniugi nella separazione o nel divorzio (o tra conviventi in seguito alla cessazione della relazione more uxorio), o anche successivamente in sede di modifica delle relative condizioni.

Si tratta di stabilire, tuttavia, se – pur in mancanza di una diversa statuizione da parte del giudice – possa comunque ritenersi ammessa, secondo i principi generali, l’azione per il rimborso pro quota degli esborsi effettuati da un genitore in via esclusiva per il mantenimento del figlio maggiorenne. Laddove, invero, il genitore adempiente abbia provveduto per intero al mantenimento del figlio maggiorenne, anche sotto il vigore delle nuove norme non può negarsi la legittimazione a recuperare pro quota gli esborsi effettuati, in applicazione in tal caso dei principi della solidarietà passiva dell’obbligazione, che consente l’azione di regresso.

Sul piano processuale, deve escludersi che, per addivenire alla «diversa determinazione del giudice», occorra la partecipazione al giudizio del figlio maggiorenne, il quale, però, potrebbe intervenire (art. 105 c.p.c.) per opporsi alla richiesta del genitore, oppure agire in futuro per domandare la revoca del provvedimento e pretendere il pagamento diretto.

A questo proposito, è controverso se il figlio maggiorenne debba agire in via ordinaria (come riteneva la giurisprudenza prima dell’entrata in vigore delle nuove norme), oppure se egli possa utilizzare il più agile e celere procedimento in camera di consiglio. Quest’ultima appare certamente la soluzione preferibile, posto che la decisione del giudice sulle modalità di mantenimento del figlio maggiorenne costituisce pur sempre una “modifica delle condizioni di separazione o divorzio” e può incidere anche sulle ridefinizione degli ulteriori aspetti patrimoniali della separazione o del divorzio (mantenimento del coniuge o di altri figli minorenni, assegnazione della casa familiare, ecc.).

6. L’art. 155 sexies c.c. stabilisce che, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti nei riguardi dei figli, il giudice – oltre a poter assumere mezzi di prova – «dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento».

La norma rappresenta la dovuta attuazione delle Convenzioni internazionali, che già da tempo avevano sancito il diritto del minore di essere ascoltato nelle procedure che lo riguardano (Convenzione di New York 28 novembre 1989, ratificata con L. 27 maggio 1991 n. 176; Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con L. 10 marzo 2003 n. 77).Anche la giurisprudenza, peraltro, già prima della legge, aveva fatto ricorso, ove necessario, all’audizione diretta dei figli minori per l’adozione dei più opportuni provvedimenti relativi all’affidamento.

I problemi interpretativi e applicativi, che la nuova previsione pone, sono fondamentalmente due.

A) In primo luogo, è controverso se l’uso del verbo indicativo (il giudice «dispone») alluda alla “obbligatorietà” della audizione, oppure se – essendo l’audizione finalizzata all’interesse del minore – il giudice possa ometterla nel caso in cui risulti la sua superfluità per essere l’interesse del minore già manifestamente garantito dalle altre risultanze processuali e, in particolare, dall’accordo delle parti in ordine alle modalità dell’affidamento. Tenuto conto che l’audizione da parte del giudice comporta pur sempre un turbamento della serenità affettiva del minore, appare preferibile l’interpretazione secondo cui l’audizione debba essere disposta soltanto quando sia funzionale, per la migliore tutela del figlio, alla più approfondita comprensione delle sue relazioni con ciascuno dei genitori (ad esempio, in caso di accesa conflittualità in ordine all’affidamento; quando il minore stesso abbia espresso, direttamente o per il tramite di un genitore, il desiderio del contatto diretto col giudice; in ipotesi di consulenze tecniche, di parte o d’ufficio, che rivelino l’opportunità di un esame diretto del minore da parte del giudice, ecc.).

B) L’altro problema applicativo concerne, invece, le modalità di audizione, e cioè se il giudice debba procedervi direttamente o con l’assistenza di esperti (in particolare, psicologi) e se all’audizione possano assistere i genitori e i loro avvocati.

Dalla constatazione che la personalità del minore, non ancora compiutamente matura, può esprimere valutazioni ed aspirazioni, che costituiscono soltanto il sintomo di un disagio e non già una volontà fondata e consapevole, emerge l’opportunità che, almeno di regola, l’audizione si svolga “in forma assistita”, con la partecipazione di esperti che possano coadiuvare il magistrato sia nella formulazione delle domande, sia nella decifrazione di quei messaggi che il minore talvolta invia, senza piena consapevolezza, in forma allusiva e indiretta. L’audizione del minore richiede, invero, una professionalità speciale, che il magistrato da solo rischia di non possedere e, pertanto, proprio al fine della migliore utilità dell’audizione, sarebbe opportuno che giudice e psicologo concordassero le modalità di audizione in relazione al caso concreto, alle peculiarità delle relazioni tra i genitori e degli obiettivi che il giudice e le parti si prefiggono di ottenere dalla audizione stessa. Deve escludersi, quindi, che l’audizione possa essere “delegata” a terzi alla stregua di una comune CTU, rispetto alla quale il giudice si ponga in posizione lontana ed estranea.

Quanto alla presenza delle parti e dei loro avvocati durante l’audizione, la migliore soluzione non può che essere adottata dal giudice tenuto conto del caso concreto, in attesa che trovino finalmente ingresso, anche nel processo civile, quelle tecniche di registrazione audio e video che, nonostante l’assenza fisica dei difensori, possono consentire l’effettivo esercizio del contraddittorio mediante la diretta conoscenza dei contenuti dell’audizione, senza il filtro della verbalizzazione sintetica da parte del cancelliere.

Con il nuovo art. 155 sexies, comma 2, c.c. – che prevede che, «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli» – il legislatore ha introdotto in questa materia l’istituto della mediazione familiare che, in assenza di una regolamentazione organica (anche sotto il profilo della definizione della figura professionale del mediatore familiare), ha trovato finora occasionali riconoscimenti in singole leggi speciali (ad esempio, nella L. 4 aprile 2001 n. 154 sulle misure di protezione contro gli abusi familiari).

La mediazione familiare è stata configurata dal legislatore come “facoltativa” ed “eventuale”. Pertanto, diversamente dalle proposte contenute in alcuni dei progetti di legge che avevano preceduto l’elaborazione del testo approvato, la mediazione non costituisce un percorso a cui i coniugi si debbano sottoporre prima della instaurazione della causa di separazione o divorzio, né il giudice ha alcun obbligo di indirizzare i coniugi verso la mediazione, al fine di verificare le possibilità di una definizione concordata tra i coniugi del regime di affidamento condiviso della prole.

Il compito del mediatore familiare non si sovrappone né a quello del Presidente del Tribunale, posto che egli non ha lo scopo di far riconciliare i coniugi, né a quello degli avvocati, giacché il suo obiettivo non è neppure quello di adoperarsi per una trasformazione della controversia in procedimento consensuale ovvero per il conseguimento di condizioni concordate di separazione o divorzio; l’obiettivo è, invece, quello della c.d. “gestione” del conflitto familiare, affinché i provvedimenti del giudice e la loro attuazione possa avvenire in una dimensione di dialogo tra i genitori e di effettiva condivisione della genitorialità, che consenta ai figli un passaggio meno doloroso e traumatico dall’unità della famiglia alla sua disgregazione. In questa prospettiva si comprende che la legge preveda che il giudice possa rinviare l’adozione dei provvedimenti ex art. 155 c.c. in attesa dell’esperimento del percorso di mediazione familiare, affinché i coniugi assumano la comune consapevolezza della necessità di subordinare all’interesse dei figli la soluzione dei punti di tensione e animosità reciproche.

Affinché i genitori possano riporre il più elevato grado di fiducia nell’opera del mediatore, deve escludersi che quest’ultimo abbia l’obbligo di relazionare al giudice alla stregua di un consulente tecnico d’ufficio, e ciò per scongiurare che un eventuale “giudizio” che il mediatore possa esprimere sui genitori incida negativamente sulla spontaneità dell’approccio e sull’effettivo disvelamento delle rispettive caratteristiche relazionali nei rapporti reciproci e verso i figli.

Degli eventuali accordi che i coniugi abbiano raggiunto attraverso la mediazione familiare il giudice non potrà che “prendere atto”, ai sensi dell’art. 155, comma 2, c.c.

7. I genitori possono rivolgersi al giudice in presenza di controversie in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento. Il giudice, in seguito al ricorso di un genitore, convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni (art. 709 ter c.p.c., introdotto dall’art. 2, comma 2, legge n. 54/06).

Qualora il contrasto riguardi l’adozione di una decisione di “maggiore interesse” relativa all’istruzione, all’educazione e alla salute dei figli, la legge attribuisce la decisione al giudice (art. 155, comma 3, c.c.), il quale, peraltro, potrebbe anche limitarsi ad attribuire il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, appare il più idoneo a curare l’interesse del figlio (così come prevede l’art. 316 c.c., applicabile in tutte le ipotesi diverse da contrasti che insorgano nella situazioni di crisi familiare disciplinate dalla legge n. 54/06).

Qualora verifichi la consumazione di gravi inadempienze o il compimento di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il giudice – come previsto dal nuovo art. 709 ter, comma 2, c.p.c. – può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

1) ammonire il genitore inadempiente;

2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

Data per scontata la natura prettamente sanzionatoria delle misure previste dai numeri 1 e 4, si discute se il risarcimento dei danni stabilito ai numeri 2 e 3 sia finalizzato al ristoro di un’effettiva lesione del diritto all’intangibilità della relazione tra genitore e figlio (e presupponga, altresì, l’allegazione e la prova del danno), oppure se tale risarcimento, al pari delle altre misure, presenti natura sanzionatoria e sia da considerare alla stregua di una figura di punitive damages, caratteristici degli ordinamenti di common law. Se, invero, il legislatore avesse inteso privilegiare la connotazione sanzionatoria, non si comprenderebbe, tuttavia, la ragione della differenziazione tra il risarcimento «nei confronti del minore» e quello «nei confronti dell’altro genitore», posto che la sanzione si sarebbe dovuta sancire, più plausibilmente, sempre nei rapporti interni ai genitori. L’espressa diversificazione tra “danni del minore” e “danni del genitore” lascia presumere, pertanto, che il legislatore abbia attribuito al soggetto, la cui sfera giuridica sia stata in concreto lesa dal comportamento inadempiente o pregiudizievole, il diritto al risarcimento del danno subito, in perfetta conformità alle regole della responsabilità civile, così come interpretate e applicate dalla più recente giurisprudenza di legittimità .

8. Si può affermare, in conclusione, che il complesso delle nuove norme sull’affidamento condiviso assicuri una tutela sostanziale qualitativamente più elevata nei confronti dei figli, specie in considerazione del riconoscimento del diritto alla “continuità” del rapporto con i genitori pur dopo l’interruzione della convivenza coniugale o more uxorio. Tuttavia, le numerose difficoltà del dato normativo – che si sono precedentemente illustrate – comportano il rischio che l’incertezza della soluzione applicativa determini l’imprevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in definitiva, l’incremento della litigiosità. Nella materia della separazione e del divorzio, laddove gli interessi personali, i sentimenti e gli affetti prevalgono nettamente sugli aspetti economici della lite, avvocati e giudici sono chiamati, pertanto – proprio nello spirito dell’odierno incontro in ricordo del compianto avv. Mario Jaccheri – a non desistere nello sforzo di riflessione comune e di individuazione di prassi comuni e condivise, da preferire sempre, nell’interesse concreto delle parti, alle soluzioni che, pur raffinate sul piano ricostruttivo, si distinguano per originalità e ricercata emancipazione dal dato letterale.

MAURO PALADINI

. Le tutele sostanziali.

(Prof. Avv. Mauro Paladini, Docente della Scuola Superiore S. Anna di Pisa)

SOMMARIO: 1. Ricordo dell’avv. Mario Jaccheri ? 2. L’affidamento condiviso e i profili di attuale distinzione rispetto affidamento esclusivo ? 3. – L’assegnazione della casa familiare come “epicentro” della nuova disciplina ? 4. Le nuove cause di estinzione dell’assegnazione e la nozione sostanziale di «casa familiare» – 5. Il mantenimento dei figli minori e di quelli maggiorenni – 6. L’ascolto del minore e la mediazione familiare. – 7. La soluzione delle controversie tra coniugi e i provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni. – 8. Una breve riflessione conclusiva.

1. E’ con particolare emozione e commozione che intervengo in un convegno organizzato dall’Osservatorio del Diritto di Famiglia per commemorare la figura dell’Avv. Mario Jaccheri.

Ritornato a Pisa alla Scuola Superiore «Sant’Anna», avevo avuto diverse occasioni di incontrare l’Avv. Jaccheri e di confrontarmi con lui su questioni giuridiche e, in particolare, di diritto della famiglia. Mi aveva sempre colpito l’approccio direttamente rivolto ad enucleare e risolvere il problema esistenziale, che si celava dietro al dilemma interpretativo e applicativo, che pure l’avv. Jaccheri inquadrava e scioglieva con l’intelligenza e la finezza che gli appartenevano.

Ricordo il convegno organizzato dall’Avv. Jaccheri e della sezione pisana dell’Osservatorio, svoltosi nell’impareggiabile contesto della Tenuta San Rossore il 28 giugno 2003, nel quale, tra le numerose e interessanti relazioni, una era stata dedicata proprio al tema dell’affidamento congiunto dei figli, già in quel momento posto dall’Osservatorio come uno dei principali temi di confronto e dibattito.

Il “taglio” ? che gli odierni organizzatori hanno voluto attribuire a questo incontro ? credo che rispecchi in modo fedele l’impostazione professionale dell’avv. Jaccheri e la prospettiva da lui sempre rivolta alla “tutela” degli interessi coinvolti nella vicenda e, in particolare, dei soggetti deboli (i figli, il coniuge debole, gli ascendenti).

Un grazie, quindi, sentito e devoto all’avv. Mario Jaccheri per quanto nella sua vita ha saputo fare a tutela dei diritti dei soggetti deboli; un grazie all’Osservatorio del Diritto di Famiglia e alla sua sezione pisana, all’amico Claudio Cecchella per il gradito invito, e alla cara Elena Jaccheri, che del padre prosegue, con instancabile impegno, la feconda attività.

2. Il tema che mi è stato affidato è quello delle «tutele sostanziali» nelle recenti riforme della separazione personale e del divorzio e ritengo di interpretare correttamente il proposito degli organizzatori concentrando la mia attenzione sui profili sostanziali della legge n. 54 del 2006, che ha sancito – come è noto – il principio per cui, nella crisi di ogni relazione familiare o parafamiliare che coinvolga il rapporto tra genitori e figli, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno [dei genitori], di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi.

Il c.d. «diritto alla bigenitorialità» era già riconosciuto, invero, in fondamentali testi normativi sovranazionali, quali la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (art. 9, comma 3) e la Carta di Nizza (art. 24, ora art. 84 del Trattato Costituzionale Europeo), nonché nella quasi totalità degli ordinamenti europei.

Si trattava, pertanto, di una scelta normativa per molti versi obbligata che, non a caso, ha ottenuto, all’atto della sua adozione, il consenso di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento, sensibili alle ragioni da tempo fatte valere da una parte dell’opinione pubblica e, in particolare, dalle associazioni di “padri separati”, schierate in prima linea per la rivendicazione di un diritto alla genitorialità sovente compresso da provvedimenti giudiziari di affidamento esclusivo in favore della madre, con limitazioni quantitative e qualitative dei tempi di permanenza con il padre.

La legge, tuttavia, presenta non poche difficoltà interpretative, che si sono rivelate assai presto all’origine di soluzioni giurisprudenziali diverse e, talvolta, stridenti.

In primo luogo, deve escludersi – secondo uno dei pochi aspetti su cui parrebbe convergere la maggioranza degli interpreti – che l’affidamento condiviso implichi la matematica ripartizione tra i genitori dei tempi di permanenza con il figlio; l’affidamento condiviso è compatibile, infatti, con il “collocamento prevalente” della prole presso uno dei genitori, al quale ? al fine di assicurare stabilità dell’habitat domestico e continuità nelle abitudini di vita ? dovrà essere disposta, di regola, altresì l’assegnazione della casa familiare (art. 155 quater c.c.).

Se ciò è vero, peraltro, sussiste il concreto rischio che l’affidamento condiviso si trasformi in una definizione giuridica di modalità di affidamento che, in concreto, potrebbero non differenziarsi significativamente dal precedente affidamento esclusivo con diritto di visita per uno dei genitori. Non può escludersi, quindi, che, alla base della scelta legislativa dell’affidamento condiviso, si possa rintracciare l’intento del legislatore di ripartire secondo proporzioni più egualitarie rispetto al passato la permanenza e la frequentazione di entrambi i genitori.

Il rischio di una differenza beffardamente solo nominalistica rispetto al passato si rivelerebbe ancor più evidente laddove gli interpreti dovessero propendere per la tesi secondo la quale l’esercizio della potestà non si differenzi a seconda della natura condivisa o esclusiva dell’affidamento.

L’art. 155, comma 3, c.c., infatti ? con una previsione che non distingue apparentemente tra affidamento condiviso e affidamento esclusivo ? stabilisce che «La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente».

Secondo una prima tesi, l’art. 155, comma 3, c.c. si applica sia all’affidamento condiviso sia all’affidamento esclusivo: da questo punto di vista, le due forme di affidamento non si differenzierebbero in alcun modo.

Secondo una tesi opposta, invece, nel caso di affidamento esclusivo l’esercizio della potestà spetterebbe al solo genitore affidatario.

Secondo una tesi intermedia, infine, nell’affidamento esclusivo di regola l’esercizio della potestà spetterebbe ad entrambi i genitori, salvo che il giudice, in casi particolari caratterizzati dal rischio di un concreto pregiudizio per il minore, disponga l’esercizio esclusivo della potestà in capo al solo genitore affidatario.

In favore della prima tesi militano, invero, soltanto argomenti letterali o formalistici, quali la collocazione dell’art. 155, comma 3, c.c. – che, nel contesto della norma, parrebbe non distinguere tra le due forme di affidamento – e la presunta mancanza di una nuova previsione che, in luogo dell’abrogato art. 155, comma 3, c.c., disciplini il contenuto e l’esercizio della potestà nell’ipotesi di affidamento esclusivo.

La tesi intermedia, a sua volta, appare in contrasto col dato testuale, che non consente di evincere alcuna “dicotomia” nell’ambito della figura dell’affidamento esclusivo. Inoltre, se il presupposto per escludere il genitore non affidatario dall’esercizio della potestà ? secondo questa ricostruzione ? è costituito dal requisito del “pregiudizio per il minore”, si deve sottolineare che esso finirebbe col coincidere col presupposto richiesto dall’art. 155 bis c.c. perché possa essere disposto l’affidamento esclusivo.

L’argomento letterale appare scarsamente probante, posto che l’art. 155 c.c., pur enunciando l’affidamento esclusivo come alternativa all’affidamento condiviso, è norma generale, rispetto alla quale l’art. 155 bis c.c., espressamente dedicato all’affidamento esclusivo, pone una previsione speciale alla quale l’interprete può legittimamente attribuire un contenuto peculiare sotto il profilo delle regole compatibili con tale modalità di affidamento.

Anche l’argomento dell’abrogazione della norma che disciplinava l’esercizio esclusivo della potestà da parte del solo genitore affidatario si rivela poco significativa, posto che nell’ordinamento è contenuta ancora una norma che descrive tale esercizio. L’art. 6, comma 4, legge n. 898/70 contiene, infatti, una norma quasi perfettamente sovrapponibile al disposto dell’abrogato art. 155, comma 3, né può condividersi l’argomento della presunta abrogazione tacita dell’art. 6, posto che la giurisprudenza applica in modo particolarmente restrittivo i criteri dell’art. 15 disp. prel. c.c.

Deve nettamente preferirsi, pertanto, la tesi secondo cui, nel caso di affidamento esclusivo, l’esercizio della potestà spetta al solo genitore affidatario, come appare del resto comprensibile in considerazione della “eccezionalità” dell’affidamento esclusivo, che l’art. 155 bis prevede per i soli casi di manifesta e grave inidoneità di un genitore sul piano educativo. Sarebbe addirittura paradossale che, nonostante tali eccezionali situazioni, l’esercizio della potestà continui ad essere riconosciuto anche al genitore privato dell’affidamento.

La tesi dell’indifferenza delle modalità di affidamento ai fini dell’esercizio della potestà conduce – unitamente a quella della compatibilità tra affidamento condiviso e collocamento prevalente presso un genitore (con tempi non diversi da quelli dell’affidamento esclusivo) – al progressivo affievolimento delle differenze contenutistiche tra le modalità di affidamento e all’attribuzione alla nuova legge di una vacua valenza declamatoria e gattopardesca.

3. La possibilità – che, come si è detto, è unanimemente riconosciuta dalla dottrina – che all’affidamento condiviso corrisponda il collocamento prevalente presso uno dei genitori, attribuisce un significato davvero “centrale” all’istituto dell’assegnazione della casa coniugale.

Il nuovo art. 155 quater c.c. stabilisce che «Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643».

La norma, pertanto ? nel ribadire implicitamente la necessità di garantire l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico in cui si è svolta la loro esistenza fino alla disgregazione dell’unità della famiglia ? consente di ritenere che, anche nel caso di affidamento condiviso, il giudice ha il potere-dovere di determinare una localizzazione prevalente della vita della prole, a tutela della quale egli provvede ad assegnare la casa familiare al coniuge con il quale i figli debbano intrattenere più stabili e frequenti relazioni.

In tal senso, si può affermare che la norma sull’abitazione della casa familiare fornisca una chiave interpretativa dello stesso principio generale dell’affidamento condiviso, che non può implicare ? proprio per quelle ragioni di tutela della serenità e stabilità affettiva della prole, che devono orientare la determinazione delle modalità di attuazione del diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (art. 155, comma 1) ? l’incerto e continuo “peregrinare” del figlio tra le rispettive abitazioni dei genitori stessi, ma comporta la determinazione della «residenza» del minore e, pertanto, la necessità di garantire il godimento della casa familiare al genitore che col figlio conviva nella medesima abitazione .

Tuttavia, nello spirito dell’affidamento condiviso, il Giudice, ove la situazione lo consenta, dovrà esercitare ogni forma di persuasione affinché i genitori separati si concedano reciprocamente la presenza all’interno delle rispettive abitazioni, così che il diritto del minore al rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore possa trovare attuazione nel medesimo contesto ambientale ove si svolgeva la vita familiare: a tal fine, le prospettive che la legge possa incentivare un’attenuazione della conflittualità tra coniugi separandi e separati sono affidate soprattutto all’opera che sapranno svolgere i mediatori familiari e alla saggezza dei Giudici nel contatto con le parti e nell’adozione dei provvedimenti . Ciò che, invece, non pare possa affermarsi per effetto della nuova legge è l’eventualità che l’assegnazione sia disposta direttamente in favore della prole, posto che la titolarità del diritto di godimento potrebbe determinare una serie di conflitti con le situazioni personali o reali dei genitori, che complicherebbero, piuttosto che semplificare, le problematiche dell’affidamento e del mantenimento.

Sul piano esegetico-applicativo, si può pronosticare, che il tenore del nuovo art. 155 quater ravviverà i mai sopiti contrasti circa il potere del giudice di disporre l’assegnazione della casa familiare soltanto in presenza di figli e per la tutela del loro interesse a non subire il trauma dell’allontanamento dall’immobile ove si è svolta la loro esistenza fino al momento della separazione tra i genitori, oppure anche come misura patrimoniale integrativa o sostitutiva dell’assegno di mantenimento, previsto dall’art. 156 c.c. in favore del coniuge “debole”.

Sul punto – sotto il vigore dell’abrogato art. 155, comma 4, c.c. e dell’art. 6, comma 6, legge n. 898/70 (come riformato dalla novella del 1987), le Sezioni Unite hanno per ben due volte affermato che la locuzione “spetta di preferenza” doveva essere interpretata in modo che la scelta preferenziale dovesse riferirsi non già al soggetto destinatario dell'assegnazione, ma allo stesso provvedimento di assegnazione, nel senso che « …l'alternativa all'assegnazione in favore del coniuge affidatario della prole (o convivente con figli maggiorenni non autonomi) non consiste nell'assegnare la casa al coniuge che di tale qualifica sia privo, ma nella possibilità di non emettere il provvedimento, pur in presenza della situazione-presupposto, e di lasciare quindi l'immobile nella disponibilità del coniuge proprietario titolare di altro diritto di godimento».

La nuova formula legislativa, che adopera l’avverbio «prioritariamente» non presenta, invero, particolari difformità concettuali rispetto alla precedente locuzione legislativa «di preferenza» e consente all’interprete di attingere all’ampia elaborazione compiuta sul punto dalla giurisprudenza. Può affermarsi, pertanto, che ? così come la formula «di preferenza» è stata in precedenza intesa in chiave descrittiva dell’alternativa tra emanazione e non emanazione del provvedimento di assegnazione della casa familiare ? nello stesso modo deve escludersi che, con la novella del 2006, l’istituto della casa familiare possa essere estensivamente applicato come misura economica alternativa o integrativa dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge debole .

In favore di tale interpretazione depongono ? accanto agli argomenti già espressi del consolidato orientamento della giurisprudenza, che meritano di essere ribaditi anche alla luce della novella legislativa ? alcuni dati sistematici come, anzitutto, il fatto che il legislatore abbia mantenuto intatta la distinzione tra “provvedimenti riguardo ai figli” (rubrica del precedente e dell’attuale art. 155 c.c.) ed “effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi” (rubrica dell’immutato art. 156 c.c.). Non v’è dubbio che le nuove norme degli artt. 155 bis?sexies c.c. facciano tutte riferimento a misure in favore della prole e non si propongano di innovare i profili concernenti i rapporti patrimoniali tra i coniugi: se avesse inteso estendere la funzione dell’assegnazione della casa familiare, il legislatore avrebbe dovuto quanto meno mutare la collocazione della relativa norma, ponendola in posizione seguente all’art. 156 c.c., per evidenziare anche plasticamente la sua biunivoca applicabilità in funzione dell’interesse dei figli o di quello del coniuge debole.

La precedente conclusione pare essere testualmente confermata, altresì, dalla seconda parte dell’art. 155 quater, comma 1, che stabilisce che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.

Il legislatore ha inteso tradurre in previsione normativa la regola già elaborata dalla giurisprudenza , che imponeva, in sede di determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli e del coniuge, di imputare il beneficio economico derivante a quest’ultimo dalla detenzione dell’immobile di proprietà del coniuge obbligato .

L’ultima parte dell’art. 155 quater, comma 1, stabilisce che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643».

Come è noto, le esigenze di tutela del diritto del coniuge assegnatario ? che l’alienazione dell’immobile da parte dell’altro coniuge esclusivo proprietario pregiudicava irrimediabilmente (secondo l’interpretazione che prevalse all’indomani della riforma del diritto della famiglia) ? furono riconosciute dalla legge del 1987, che, nel riformare art. 6 della legge n. 898 del 1970, stabilì che l'assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell'art. 1599 del codice civile. La trascrivibilità del provvedimento fu, poi, prontamente estesa dalla Corte Costituzionale (sent. 27 luglio 1989, n. 454 ) e può considerarsi, oggi, prevista anche per l’assegnazione disposta in favore del genitore in seguito a rottura della convivenza more uxorio, nonostante le non lievi perplessità suscitate dalla recente pronuncia del Giudice delle Leggi .

La decisione legislativa di includere il provvedimento di assegnazione della casa familiare tra gli atti soggetti a trascrizione a norma dell’art. 2643 evidenzia l’intento di attribuire alla trascrizione stessa l’efficacia di opponibilità del diritto ai terzi, sancita dal successivo art. 2644 c.c.

L’applicazione dell’art. 2644 c.c. comporterà, ad esempio, che l’eventuale conflitto tra il coniuge assegnatario e colui che abbia ottenuto dal coniuge proprietario un diverso diritto di godimento dell’immobile (si pensi, ad un contratto di locazione ultranovennale) dovrà essere risolto in base al criterio della priorità della trascrizione (conformemente a quanto previsto dall’art. 1380 c.c.). Allo stesso modo – per proporre un ulteriore esempio – il diritto del coniuge assegnatario, se già trascritto, sarà opponibile nei confronti del creditore della società di durata ultranovennale nella quale il coniuge proprietario abbia conferito il godimento del bene immobile.

E’ importante sottolineare che, in applicazione dell’art. 2644 c.c., la trascrizione del provvedimento rende opponibile il diritto del coniuge assegnatario anche nei confronti di coloro che abbiano acquistato un diritto incompatibile in data anteriore al provvedimento ma che abbiano omesso la trascrizione del loro titolo.

Chiarito, pertanto, che – grazie al richiamo dell’art. 2643 c.c. ? la trascrizione del provvedimento di assegnazione non ha funzione di pubblicità?notizia e rende opponibile il diritto dell’assegnatario nei confronti dei terzi che abbiano trascritto in data successiva titoli attributivi di diritti acquistati anche anteriormente, si deve esaminare l’ulteriore problema della compatibilità tra la previsione dell’art. 155 quater e l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970.

Si impone una premessa: attraverso l’art. 4 della legge n. 54 del 2006 ? che prevede che «le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» ? il legislatore ha inteso certamente estendere l’ambito di tutela degli interessi dei figli rispetto alle previgenti norme in materia di divorzio, nullità e, in certi limiti, di convivenze more uxorio. Di conseguenza, non può essere ritenuta ? per effetto dell’estensione della nuova normativa ? la tacita abrogazione di una norma ? come l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970 ? che, anche in virtù dell’interpretazione e applicazione adottata dalla giurisprudenza, risulti in grado di tutelare meglio l’interesse dei figli.

Orbene, è noto che l’art. 6, comma 6, legge n. 898 del 1970 è stato interpretato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nel senso che, grazie al richiamo all’art. 1599 c.c., il provvedimento di assegnazione, se trascritto, è opponibile al terzo acquirente senza limiti di tempo (salva la sopravvenuta caducazione dell’interesse dei figli alla detenzione), e, se non trascritto, è comunque opponibile nei limiti di un novennio (art. 1599, comma 3, c.c.).

L’art. 1599 c.c. contiene, dunque, una previsione speciale rispetto all’art. 2643, poiché non regola il conflitto tra il conduttore e qualunque altro titolare di un diritto incompatibile, ma si limita a stabilire le condizioni affinché la locazione sia opponibile al terzo acquirente della cosa locata. Poiché lex posterius specialis non derogat priori generali, deve affermarsi che ? mentre il conflitto tra l’assegnatario e il titolare di altro diritto incompatibile (ad esempio, un conduttore in base a locazione ultranovennale) è risolto dall’art. 2644 c.c. ? l’opponibilità nei confronti del terzo acquirente resta disciplinata, invece, dall’art. 1599 c.c., stante la norma espressamente dettata in materia di divorzio (art. 6, comma 6, legge n. 898/70) e resa applicabile alla separazione personale e alle convivenze more uxorio dalle citate pronunce della Corte Costituzionale.

In definitiva, l’attuale combinato disposto degli artt. 155 quarter e 6, comma 6, legge n. 898/70 consente la seguente ricostruzione delle funzioni e degli effetti della trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare:

3) la trascrizione ha funzione dichiarativa ai sensi dell’art. 2644 c.c. e, di conseguenza, risolve il conflitto con i titolari di diritti incompatibili;

4) l’opponibilità nei confronti del terzo acquirente del bene immobile resta disciplinata dalla norma speciale dell’art. 1599 c.c. e, pertanto, il provvedimento di assegnazione non trascritto consente all’assegnatario il godimento del bene immobile nei soli limiti del novennio, secondo l’interpretazione accolta da Cass., sez. un., 26 luglio 2002 n 11096.

4. L’art. 155 quarter, comma 1, prevede che il diritto all’assegnazione della casa familiare si estingua:

5) se l’assegnatario non abiti la casa familiare;

6) se l’assegnatario cessi di abitare stabilmente nella casa familiare;

7) se l’assegnatario instauri una convivenza more uxorio all’interno della casa oggetto di assegnazione;

8) se, infine, l’assegnatario contragga nuovo matrimonio.

Con riguardo alla prima ipotesi, si tratta di casi eccezionali, nei quali ? per sopravvenute o imprevedibili ragioni ? l’assegnatario decide di non beneficiare del godimento riconosciutogli. La decisione di non abitare la casa familiare, pur in presenza del provvedimento di assegnazione, può rivelarsi, d’altra parte, pregiudizievole nei confronti dei figli e configurare il presupposto indicato dal nuovo art. 709 ter c.p.c. per la modifica dei provvedimenti e per un ulteriore provvedimento sanzionatorio nei confronti del coniuge assegnatario dell’immobile.

Anche per quel che concerne la cessazione dell’abitazione nella casa familiare, il giudice dovrà verificare le ragioni di tale condotta dell’assegnatario e valutare il comportamento del genitore sotto il medesimo angolo visuale dell’art. 709 ter c.p.c. In luogo dell’unilaterale decisione di non abitare o di cessare la stabile dimora all’interno della casa familiare, il coniuge assegnatario dovrebbe preliminarmente rappresentare al giudice le sue (o della prole) mutate esigenze (si pensi, ad esempio, alla minore presenza del figlio maggiorenne all’interno della casa familiare in seguito alla sua iscrizione in un’università posta in altra città) e richiedere una revoca o una modifica del provvedimento di assegnazione.

Maggiormente problematica si rivela la causa di estinzione costituita dall’instaurazione di una convivenza more uxorio all’interno dell’immobile oggetto di assegnazione. Appare evidente come il legislatore abbia inteso sottolineare la strumentalità dell’assegnazione alla sola realizzazione dell’interesse dei figli al mantenimento del pregresso ambiente domestico e abbia voluto evitare che l’assegnazione dell’immobile rappresenti la realizzazione dell’esigenza abitativa di un soggetto – come il convivente del coniuge assegnatario ? portatore di un interesse affettivo potenzialmente in contrasto con il diritto del figlio «…di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno [dei genitori]».

Per quanto, infatti, l’abitazione della casa sia finalizzata a soddisfare l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, è indubbio che il provvedimento di assegnazione comporti automaticamente, altresì, il soddisfacimento dell’esigenza abitativa del genitore al quale il giudice abbia attribuito il diritto di abitazione. Quest’ultimo, in qualità di titolare esclusivo del diritto personale di abitazione, è l’unico soggetto legittimato ad esercitare la facoltà di concedere alloggio a terzi all’interno dell’immobile. Sul punto, la legge non ha disciplinato analiticamente tutti i possibili limiti di esercizio di tale facoltà, rimettendo, da una parte, alla prudenza dell’assegnatario l’eventuale estensione a terzi del godimento dell’immobile, e lasciando, dall’altra, al giudice il potere di valutare l’ingresso di nuovi soggetti all’interno della casa familiare come circostanza idonea a determinare una revisione del provvedimento di assegnazione (art. 710 c.p.c.).

Non può escludersi, ad esempio, che il genitore assegnatario decida di ospitare all’interno dell’immobile assegnato il proprio genitore, un altro prossimo congiunto, un amico, ecc. Tale decisione determinerebbe il soddisfacimento dell’esigenza abitativa anche del soggetto ospitato, ma la legge continua ad attribuire, in tal caso, la prevalenza all’interesse dei figli al mantenimento dell’ambiente domestico costituito dalla casa familiare, salva una diversa decisione del giudice al quale l’altro genitore dimostri l’esistenza di un pregiudizio a carico dei figli come conseguenza della decisione dell’assegnatario di estendere l’ambito soggettivo dei beneficiari del godimento dell’immobile.

In presenza dell’estensione di siffatto godimento in favore del convivente more uxorio dell’assegnatario, il conflitto tra i diversi interessi dei soggetti coinvolti è risolto dal legislatore, che ha scorto una particolare riprovevolezza nello sfruttamento del godimento della casa familiare per l’instaurazione di una relazione con un soggetto che, di fronte ai figli, rischia di porsi come figura “alternativa” a quella dell’altro genitore.

Non si vuole escludere, ovviamente, che – in seguito alla separazione (e, a fortiori, in seguito al divorzio o all’annullamento del matrimonio) – possano innescarsi nuove dinamiche di relazioni affettive che coinvolgano anche i figli, i quali possono certamente instaurare contatti e vincoli affettivi con i nuovi compagni o coniugi dei genitori: ciò che il legislatore ha unicamente precluso è la circostanza che tali nuove situazioni possano avere come luogo di svolgimento l’immobile già adibito a casa familiare e sul quale l’altro genitore vanti la titolarità di un diritto reale o personale .

Nella nuova causa di estinzione del diritto di abitazione della casa familiare può essere rintracciato, pertanto, un profilo di tutela dell’interesse dei figli ad un equilibrato sviluppo psico-affettivo, nella misura in cui la legge non consente che essi possano assistere ad una sorta di “sostituzione” della figura genitoriale del coniuge non assegnatario proprio all’interno di quel contesto fisico–ambientale in cui si era svolta la loro esistenza fino alla fase della disgregazione della convivenza familiare.

La nuova disposizione individua, pertanto, una nuova nozione di «casa familiare»: non mero luogo fisico ove “collocare” la residenza della prole in seguito alla cessazione della convivenza coniugale, ma ambiente idoneo ad accompagnare, con caratteristiche per quanto possibile simili a quelle precedenti, l’esistenza, lo sviluppo e la crescita dei figli.

Tale complessità di ratio della previsione legislativa consente di risolvere in senso estensivo – in conformità, peraltro, alla lettera della legge – il problema dell’ambito applicativo della causa di estinzione: essa si applicherà, cioè, non solo nel caso in cui il coniuge non assegnatario sia proprietario esclusivo dell’immobile, ma anche nelle ipotesi di comunione (ordinaria o legale) o di titolarità di un diritto personale di godimento .

A fortiori rispetto all’instaurazione di una convivenza more uxorio ? e in coerenza col disposto dell’art. 4, comma 2, legge n. 54 del 2006, che espressamente estende le nuove norme sull’affidamento condiviso ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati ? è causa di estinzione del diritto al godimento della casa familiare il nuovo matrimonio contratto dall’assegnatario.

5. L’art. 155, comma 4, c.c. stabilisce che «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore». Anche su tale disposizione non mancano dubbi e differenze interpretative.

Secondo una prima tesi, il legislatore si sarebbe limitato ad esplicitare quanto già ritenuto e applicato in giurisprudenza sotto il vigore dell’abrogato art. 155 c.c., esplicitando, da un lato, l’obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli non già in ragione del 50%, bensì in proporzione al reddito di ciascuno di essi, e, dall’altro, i parametri per la quantificazione dell’eventuale contributo di mantenimento necessario a rendere effettiva l’attuazione del principio di proporzionalità.

Secondo una diversa impostazione, invece, nell’affidamento condiviso il contributo di mantenimento dovrebbe ritenersi un istituto “eccezionale”, che il giudice è chiamato ad applicare soltanto in via di “residualità” rispetto alla regola secondo cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento in via diretta, nei rispettivi tempi di permanenza con sé del minore.

Pronunciandosi incidenter tantum nell’ambito di una controversia in tema di divorzio, la Suprema Corte ha dimostrato di preferire nettamente la prima interpretazione, affermando che l’affidamento condiviso è fondato sull’esclusivo interesse del minore ed attiene alla sua qualità di vita, ma non può comportare necessariamente, in ordine al mantenimento dei figli, un pari obbligo patrimoniale a carico dei genitori, nel senso che dall’affidamento condiviso debba discendere l’obbligo per ciascun coniuge di provvedere in via diretta al mantenimento dei figli. Si tratta di un’impostazione condivisibile, tanto più che la nuova regola di affidamento include espressamente la possibilità di diversi tempi di permanenza del minore presso ciascuno dei genitori, sicché non si comprenderebbe la ragione per cui, proprio contestualmente all’affermazione del “principio di proporzionalità”, il contributo di mantenimento possa diventare istituto “residuale ed eccezionale”.

La legge fa salva soltanto l’ipotesi di accordi «sottoscritti dalle parti», tra i quali deve ritenersi ammissibile anche quello con cui uno dei genitori, nell’ambito della regolazione dei rapporti economici conseguenti alla separazione, assuma integralmente su di sé l’obbligo di mantenimento della prole.

Ove disposto, «l’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice» (art. 155, comma 5, c.c.). Ai fini della determinazione del contributo, le parti possono ricorrere a ogni mezzo di prova e, «ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi» (art. 155, comma 6, c.c.).

A sua volta, l’art. 155 quinquies c.c. prevede che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.

La norma ribadisce il principio sostanziale secondo cui l’obbligo di mantenimento dei figli, previsto dall’art. 147 c.c., non si estingue con la maggiore età, ma perdura fino al conseguimento dell’indipendenza economica o delle condizioni personali o professionali per poterla ottenere (secondo un’interpretazione che – fatta eccezione per talune isolate decisioni di merito – la giurisprudenza assolutamente prevalente aveva già affermato).

A fronte della titolarità sostanziale del diritto al mantenimento, la giurisprudenza aveva riconosciuto, altresì, la legittimazione processuale del figlio maggiorenne ad agire iure proprio in giudizio per ottenere la liquidazione e il pagamento del relativo assegno periodico . Tale legittimazione era considerata, tuttavia, concorrente con la legittimazione, del genitore convivente, il quale, continuando a provvedere direttamente ed integralmente al mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente, era legittimato a domandare – iure proprio e non ex capite filiorum – sia il rimborso di quanto da lui in precedenza anticipato (e dovuto, invece, dall'altro genitore), sia il contributo per il mantenimento futuro del figlio stesso .

Tra la legittimazione del figlio e quella del genitore non sussisteva alcun litisconsorzio necessario; anzi, nell’ipotesi di giudizio instaurato dal genitore convivente, si era ritenuto che, in mancanza dell’intervento del figlio nel giudizio pendente, la sentenza di condanna doveva considerarsi emessa solo in favore del genitore convivente, con la conseguenza che il figlio non aveva titolo per richiedere direttamente il pagamento del contributo al mantenimento al genitore obbligato non convivente.

In presenza, tuttavia, di questa duplice legittimazione ad agire verso il genitore non convivente, si poneva il problema del rapporto tra il diritto del figlio maggiorenne e quello del genitore non convivente, che – secondo la giurisprudenza più recente – doveva essere risolto in base ai principi della solidarietà attiva, applicabili in via analogica.

La nuova legge ha innovato, invece, rispetto ai principi giurisprudenziali di legittimazione concorrente tra genitore convivente e figlio maggiorenne. L’art. 155 quinquies c.c. prevede, infatti, che di regola, salvo una diversa determinazione del giudice, l’assegno sia versato direttamente all’«avente diritto» che certamente, nelle intenzioni del legislatore, è il solo figlio maggiorenne. Affinché il contributo di mantenimento sia versato all’altro genitore occorre, pertanto, un provvedimento del giudice, che potrà essere adottato in sede di regolamentazione dei rapporti economici tra coniugi nella separazione o nel divorzio (o tra conviventi in seguito alla cessazione della relazione more uxorio), o anche successivamente in sede di modifica delle relative condizioni.

Si tratta di stabilire, tuttavia, se – pur in mancanza di una diversa statuizione da parte del giudice – possa comunque ritenersi ammessa, secondo i principi generali, l’azione per il rimborso pro quota degli esborsi effettuati da un genitore in via esclusiva per il mantenimento del figlio maggiorenne. Laddove, invero, il genitore adempiente abbia provveduto per intero al mantenimento del figlio maggiorenne, anche sotto il vigore delle nuove norme non può negarsi la legittimazione a recuperare pro quota gli esborsi effettuati, in applicazione in tal caso dei principi della solidarietà passiva dell’obbligazione, che consente l’azione di regresso.

Sul piano processuale, deve escludersi che, per addivenire alla «diversa determinazione del giudice», occorra la partecipazione al giudizio del figlio maggiorenne, il quale, però, potrebbe intervenire (art. 105 c.p.c.) per opporsi alla richiesta del genitore, oppure agire in futuro per domandare la revoca del provvedimento e pretendere il pagamento diretto.

A questo proposito, è controverso se il figlio maggiorenne debba agire in via ordinaria (come riteneva la giurisprudenza prima dell’entrata in vigore delle nuove norme), oppure se egli possa utilizzare il più agile e celere procedimento in camera di consiglio. Quest’ultima appare certamente la soluzione preferibile, posto che la decisione del giudice sulle modalità di mantenimento del figlio maggiorenne costituisce pur sempre una “modifica delle condizioni di separazione o divorzio” e può incidere anche sulle ridefinizione degli ulteriori aspetti patrimoniali della separazione o del divorzio (mantenimento del coniuge o di altri figli minorenni, assegnazione della casa familiare, ecc.).

6. L’art. 155 sexies c.c. stabilisce che, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti nei riguardi dei figli, il giudice – oltre a poter assumere mezzi di prova – «dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento».

La norma rappresenta la dovuta attuazione delle Convenzioni internazionali, che già da tempo avevano sancito il diritto del minore di essere ascoltato nelle procedure che lo riguardano (Convenzione di New York 28 novembre 1989, ratificata con L. 27 maggio 1991 n. 176; Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con L. 10 marzo 2003 n. 77).Anche la giurisprudenza, peraltro, già prima della legge, aveva fatto ricorso, ove necessario, all’audizione diretta dei figli minori per l’adozione dei più opportuni provvedimenti relativi all’affidamento.

I problemi interpretativi e applicativi, che la nuova previsione pone, sono fondamentalmente due.

A) In primo luogo, è controverso se l’uso del verbo indicativo (il giudice «dispone») alluda alla “obbligatorietà” della audizione, oppure se – essendo l’audizione finalizzata all’interesse del minore – il giudice possa ometterla nel caso in cui risulti la sua superfluità per essere l’interesse del minore già manifestamente garantito dalle altre risultanze processuali e, in particolare, dall’accordo delle parti in ordine alle modalità dell’affidamento. Tenuto conto che l’audizione da parte del giudice comporta pur sempre un turbamento della serenità affettiva del minore, appare preferibile l’interpretazione secondo cui l’audizione debba essere disposta soltanto quando sia funzionale, per la migliore tutela del figlio, alla più approfondita comprensione delle sue relazioni con ciascuno dei genitori (ad esempio, in caso di accesa conflittualità in ordine all’affidamento; quando il minore stesso abbia espresso, direttamente o per il tramite di un genitore, il desiderio del contatto diretto col giudice; in ipotesi di consulenze tecniche, di parte o d’ufficio, che rivelino l’opportunità di un esame diretto del minore da parte del giudice, ecc.).

B) L’altro problema applicativo concerne, invece, le modalità di audizione, e cioè se il giudice debba procedervi direttamente o con l’assistenza di esperti (in particolare, psicologi) e se all’audizione possano assistere i genitori e i loro avvocati.

Dalla constatazione che la personalità del minore, non ancora compiutamente matura, può esprimere valutazioni ed aspirazioni, che costituiscono soltanto il sintomo di un disagio e non già una volontà fondata e consapevole, emerge l’opportunità che, almeno di regola, l’audizione si svolga “in forma assistita”, con la partecipazione di esperti che possano coadiuvare il magistrato sia nella formulazione delle domande, sia nella decifrazione di quei messaggi che il minore talvolta invia, senza piena consapevolezza, in forma allusiva e indiretta. L’audizione del minore richiede, invero, una professionalità speciale, che il magistrato da solo rischia di non possedere e, pertanto, proprio al fine della migliore utilità dell’audizione, sarebbe opportuno che giudice e psicologo concordassero le modalità di audizione in relazione al caso concreto, alle peculiarità delle relazioni tra i genitori e degli obiettivi che il giudice e le parti si prefiggono di ottenere dalla audizione stessa. Deve escludersi, quindi, che l’audizione possa essere “delegata” a terzi alla stregua di una comune CTU, rispetto alla quale il giudice si ponga in posizione lontana ed estranea.

Quanto alla presenza delle parti e dei loro avvocati durante l’audizione, la migliore soluzione non può che essere adottata dal giudice tenuto conto del caso concreto, in attesa che trovino finalmente ingresso, anche nel processo civile, quelle tecniche di registrazione audio e video che, nonostante l’assenza fisica dei difensori, possono consentire l’effettivo esercizio del contraddittorio mediante la diretta conoscenza dei contenuti dell’audizione, senza il filtro della verbalizzazione sintetica da parte del cancelliere.

Con il nuovo art. 155 sexies, comma 2, c.c. – che prevede che, «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli» – il legislatore ha introdotto in questa materia l’istituto della mediazione familiare che, in assenza di una regolamentazione organica (anche sotto il profilo della definizione della figura professionale del mediatore familiare), ha trovato finora occasionali riconoscimenti in singole leggi speciali (ad esempio, nella L. 4 aprile 2001 n. 154 sulle misure di protezione contro gli abusi familiari).

La mediazione familiare è stata configurata dal legislatore come “facoltativa” ed “eventuale”. Pertanto, diversamente dalle proposte contenute in alcuni dei progetti di legge che avevano preceduto l’elaborazione del testo approvato, la mediazione non costituisce un percorso a cui i coniugi si debbano sottoporre prima della instaurazione della causa di separazione o divorzio, né il giudice ha alcun obbligo di indirizzare i coniugi verso la mediazione, al fine di verificare le possibilità di una definizione concordata tra i coniugi del regime di affidamento condiviso della prole.

Il compito del mediatore familiare non si sovrappone né a quello del Presidente del Tribunale, posto che egli non ha lo scopo di far riconciliare i coniugi, né a quello degli avvocati, giacché il suo obiettivo non è neppure quello di adoperarsi per una trasformazione della controversia in procedimento consensuale ovvero per il conseguimento di condizioni concordate di separazione o divorzio; l’obiettivo è, invece, quello della c.d. “gestione” del conflitto familiare, affinché i provvedimenti del giudice e la loro attuazione possa avvenire in una dimensione di dialogo tra i genitori e di effettiva condivisione della genitorialità, che consenta ai figli un passaggio meno doloroso e traumatico dall’unità della famiglia alla sua disgregazione. In questa prospettiva si comprende che la legge preveda che il giudice possa rinviare l’adozione dei provvedimenti ex art. 155 c.c. in attesa dell’esperimento del percorso di mediazione familiare, affinché i coniugi assumano la comune consapevolezza della necessità di subordinare all’interesse dei figli la soluzione dei punti di tensione e animosità reciproche.

Affinché i genitori possano riporre il più elevato grado di fiducia nell’opera del mediatore, deve escludersi che quest’ultimo abbia l’obbligo di relazionare al giudice alla stregua di un consulente tecnico d’ufficio, e ciò per scongiurare che un eventuale “giudizio” che il mediatore possa esprimere sui genitori incida negativamente sulla spontaneità dell’approccio e sull’effettivo disvelamento delle rispettive caratteristiche relazionali nei rapporti reciproci e verso i figli.

Degli eventuali accordi che i coniugi abbiano raggiunto attraverso la mediazione familiare il giudice non potrà che “prendere atto”, ai sensi dell’art. 155, comma 2, c.c.

7. I genitori possono rivolgersi al giudice in presenza di controversie in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento. Il giudice, in seguito al ricorso di un genitore, convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni (art. 709 ter c.p.c., introdotto dall’art. 2, comma 2, legge n. 54/06).

Qualora il contrasto riguardi l’adozione di una decisione di “maggiore interesse” relativa all’istruzione, all’educazione e alla salute dei figli, la legge attribuisce la decisione al giudice (art. 155, comma 3, c.c.), il quale, peraltro, potrebbe anche limitarsi ad attribuire il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, appare il più idoneo a curare l’interesse del figlio (così come prevede l’art. 316 c.c., applicabile in tutte le ipotesi diverse da contrasti che insorgano nella situazioni di crisi familiare disciplinate dalla legge n. 54/06).

Qualora verifichi la consumazione di gravi inadempienze o il compimento di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il giudice – come previsto dal nuovo art. 709 ter, comma 2, c.p.c. – può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

1) ammonire il genitore inadempiente;

2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

Data per scontata la natura prettamente sanzionatoria delle misure previste dai numeri 1 e 4, si discute se il risarcimento dei danni stabilito ai numeri 2 e 3 sia finalizzato al ristoro di un’effettiva lesione del diritto all’intangibilità della relazione tra genitore e figlio (e presupponga, altresì, l’allegazione e la prova del danno), oppure se tale risarcimento, al pari delle altre misure, presenti natura sanzionatoria e sia da considerare alla stregua di una figura di punitive damages, caratteristici degli ordinamenti di common law. Se, invero, il legislatore avesse inteso privilegiare la connotazione sanzionatoria, non si comprenderebbe, tuttavia, la ragione della differenziazione tra il risarcimento «nei confronti del minore» e quello «nei confronti dell’altro genitore», posto che la sanzione si sarebbe dovuta sancire, più plausibilmente, sempre nei rapporti interni ai genitori. L’espressa diversificazione tra “danni del minore” e “danni del genitore” lascia presumere, pertanto, che il legislatore abbia attribuito al soggetto, la cui sfera giuridica sia stata in concreto lesa dal comportamento inadempiente o pregiudizievole, il diritto al risarcimento del danno subito, in perfetta conformità alle regole della responsabilità civile, così come interpretate e applicate dalla più recente giurisprudenza di legittimità .

8. Si può affermare, in conclusione, che il complesso delle nuove norme sull’affidamento condiviso assicuri una tutela sostanziale qualitativamente più elevata nei confronti dei figli, specie in considerazione del riconoscimento del diritto alla “continuità” del rapporto con i genitori pur dopo l’interruzione della convivenza coniugale o more uxorio. Tuttavia, le numerose difficoltà del dato normativo – che si sono precedentemente illustrate – comportano il rischio che l’incertezza della soluzione applicativa determini l’imprevedibilità delle decisioni giudiziarie e, in definitiva, l’incremento della litigiosità. Nella materia della separazione e del divorzio, laddove gli interessi personali, i sentimenti e gli affetti prevalgono nettamente sugli aspetti economici della lite, avvocati e giudici sono chiamati, pertanto – proprio nello spirito dell’odierno incontro in ricordo del compianto avv. Mario Jaccheri – a non desistere nello sforzo di riflessione comune e di individuazione di prassi comuni e condivise, da preferire sempre, nell’interesse concreto delle parti, alle soluzioni che, pur raffinate sul piano ricostruttivo, si distinguano per originalità e ricercata emancipazione dal dato letterale.

MAURO PALADINI