12/07/12 Decreto sviluppo
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Le novità introdotte dal decreto sviluppo (D.L. 22/06/2012 n. 83), Il giorno 12 luglio p.v., dalle ore 15.00, presso l'Hotel Golden Tulip Galilei (Pisa- Via Darsena 1) si svolgera' un Convegno sul tema Le novita' introdotte dal decreto sviluppo (D.L. 22/06/2012, n. 83).

Il Convegno sarà coordinato dall'Avv. Prof. Claudio Cecchella ed i temi trattati saranno:

Nuova disciplina delle impugnazioni

Modifiche alla c.d. Legge Pinto

Modifiche in tema di concordato preventivo e accordi di ristrutturazione del debito.

La legge 7 agosto 2012, n. 134 di conversione del d.l. n. 83 del 2012. L'entrata in vigore e' fissata il 12 agosto, trenta giorni dopo si applicano le norme della novella. by Redazione sito
L'appello e il ricorso per cassazione, ppt by Claudio Cecchella
Lo schema dell'intervento sulle modifiche alla legge Pinto by Andrea Mengali
Gli emendamenti alla Camera by On.li Capano, Contento Napoli, Ria
Il parere by Consiglio Superiore della Magistratura
L'intervento del Relatore alla Commissione Giustizia della Camera by Onorevole Capano (PD)
La presa di posizione dei processualisti... by Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile

Il parere

SESTA COMMISSIONE

ORDINE DEL GIORNO EX ART. 45, CO. 3 R.I.

SEDUTA DEL 5 LUGLIO 2012 »“ ORE 12.00

INDICE

" \\l 2 1) Fasc. 92/PP/2012 - Parere sulle disposizioni concernenti

l'amministrazione della giustizia contenute nello schema di decreto legge

recante misure urgenti per la crescita sostenibile (cd. decreto sviluppo).

(relatore Consigliere CORDER)

La Commissione a maggioranza propone al Plenum di adottare la seguente delibera:

«Art 54 del D.L. n. 83 del 22 giugno 2012

1) Le norme di nuova introduzione. Il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83,

recante «Misure urgenti per la crescita del Paese», pubblicato sulla

Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 2012, si pone l’obiettivo di favorire la

crescita, lo sviluppo e la competitivita' dell’intero sistema

produttivo e di realizzare un effettivo rilancio dello sviluppo economico

del Paese, ed a tal fine, prendendo atto che l’inefficienza della giustizia

civile »“ ed in particolare del sistema delle impugnazioni - costituisce uno

dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell’attività economica nel nostro paese,

introduce rilevanti innovazioni della disciplina dei giudizi di appello e di

cassazione nel settore civile, nella disciplina della legge 24 marzo 2001 n. 89,

c.d. «legge Pinto», prevede una rimodulazione degli istituti del concordato

preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

»‹La ratio ispiratrice del provvedimento nel suo insieme risiede, quindi,

nell’adozione di misure normative che, nei diversi settori affrontati,

aggrediscano snodi problematici operativi che hanno dimostrato di costituire un

freno al dispiegarsi efficiente e funzionale dell’iniziativa economica tesa

allo sviluppo del Paese .

»‹Come è noto, il corretto funzionamento di un’economia di mercato non può

prescindere, tra le altre condizioni, dalla presenza di un sistema giudiziario

capace di garantire un’adeguata tutela dei diritti, un’efficace applicazione

dei contratti e una tempestiva risoluzione delle controversie che insorgono tra

privati, e tra questi e lo Stato.

Le disposizioni rilevanti in materia di giustizia, si collocano, pertanto,

nell’ambito di un intervento legislativo molto più ampio ed eterogeneo,

animato da un intento unitario esplicito.

Poiché queste disposizioni incidono «sull'ordinamento giudiziario» e

«sull'amministrazione della giustizia» ed in particolare produrranno

effetti rilevanti sulla organizzazione degli uffici giudiziari il Consiglio

Superiore della Magistratura esprime il proprio parere, in virtù delle

attribuzioni conferitegli dall’art. 10 della legge 195 del 1958.

Il giudizio di secondo grado è inciso in maniera particolarmente significativa,

con la previsione, inedita nel sistema vigente, di un filtro di inammissibilità

nel merito dell’impugnazione proposta. Secondo quanto si legge nella Relazione

governativa di accompagnamento al decreto, con il nuovo articolo 348 bis del

codice di procedura civile, si è tentato di «congegnare un filtro di

inammissibilità incentrato su una prognosi di non ragionevole fondatezza del

gravame, formulata dal medesimo giudice dell’appello in via preliminare alla

trattazione dello stesso.»

Così la novella stabilisce che, oltre ai casi già contemplati dal codice di

dichiarazione di inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello con

sentenza, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente

quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Sostanzialmente

quindi, si crea un sistema di scrematura degli atti di gravame, fondato sulla

probabilità di accoglimento del mezzo, finalizzato a selezionare quelli

meritevoli di essere trattati approfonditamente, cui destinare in via esclusiva

le risorse destinate dall’ordinamento alla correzione delle decisioni di primo

grado; risorse che, nell’attuale situazione delle Corti d’Appello, come si

vedrà in prosieguo, si sono dimostrate drammaticamente inadeguate all’enorme

afflusso di affari, ed incapaci di garantire l’efficienza e la tempestività

della risposta giudiziaria alle istanze dei cittadini.

Da tale meccanismo, secondo il nuovo testo di legge, sono escluse le cause di

cui all’articolo 70, primo comma c.p.c., e cioè quelle in cui è previsto

l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, che si presumono quindi

connotate da un interesse pubblicistico che sconsiglia l’adozione di

limitazioni procedimentali all’accertamento.

La nuova valutazione preliminare di inammissibilità, inoltre, non si applica ai

casi in cui le parti abbiano optato, in primo grado, per il procedimento

sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis del codice di procedura civile,

caratterizzato da una spiccata deformalizzazione istruttoria, bilanciata dalla

maggiore apertura »“ disciplinata all’art. 702 quater c.p.c. »“ del giudizio

di secondo grado ai nuovi mezzi di prova. Tale esclusione, oltre a rispondere ad

una necessità di intima coerenza del sistema, appare dettata anche dalla

finalità, utilmente esplicitata nella relazione di accompagnamento, di

incentivare l’utilizzo dello strumento processuale semplificato in primo

grado, che fino ad ora non pare avere avuto significativa rilevanza statistica

nella pratica processuale.

L’art. 348»“ter disciplina in rito la pronuncia sull’inammissibilità

dell’appello, stabilendo che essa venga adottata all’udienza di cui

all’articolo 350 c.p.c. «con ordinanza succintamente motivata, anche

mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa

e il riferimento a precedenti conformi».

E’ evidente quindi l’intenzione del legislatore di introdurre una modalità

di definizione del contenzioso non meritevole di approfondimento nel merito con

uno strumento processuale sintetico ed essenziale nel contenuto, con motivazione

succinta, che contenga, anche per rinvio, soltanto i riferimenti argomentativi

minimi necessari ad individuare le ragioni della prognosi negativa di

fondatezza. Ciò, naturalmente, allo scopo di marcare la differenza »“ in

funzione di una concreta effettività deflattiva - con il diverso impegno

richiesto dalla struttura motivazionale e dalla funzione decisoria della

sentenza che, per quanto semplificata, al contrario, affronti

approfonditamente l’esame delle questioni di merito oggetto del contendere.

In ogni caso, il provvedimento contiene la decisione sulle spese a norma

dell’articolo 91 c.p.c., e deve riguardare sia l’impugnazione principale

che quella incidentale eventualmente proposta. La dichiarazione di

inammissibilità legittima le parti alla proposizione del ricorso in cassazione

contro la sentenza di primo grado secondo i motivi di legittimità di cui

all’art. 360 c.p.c.. Per rendere esperibile tale rimedio la legge prevede che

i termini per la proposizione di esso decorrano dalla ordinanza di

inammissibilità dell’appello.

Allorché l’ordinanza di inammissibilità si fondi sulle medesime ragioni »“

inerenti alle questioni di fatto - affermate nella sentenza di primo grado, il

ricorso in cassazione non potrà essere proposto per le ragioni di cui al n. 5

dell’art. 360 c.p.c.. Analogo limite è previsto per il ricorso in cassazione

avverso le sentenza di appello che abbiano respinto nel merito l’impugnazione,

utilizzando le medesime ragioni concernenti le questioni di fatto poste a

sostegno della pronuncia gravata.

Si tratta dell’esplicitazione del principio, di obbiettiva ragionevolezza

tecnica ed economia processuale per cui quando una questione sia stata già

risolta, per ciò che concerne la ricostruzione dei fatti sottoposti a giudizio,

in termini conformi in due gradi di giudizio, tale ricostruzione non può più

essere posta in discussione - attraverso la valvola del vizio di motivazione di

cui all’attuale n. 5 dell’art. 360 c.p.c., o per omesso esame di un fatto

decisivo secondo il tenore della norma di nuova introduzione di cui subito si

dirà »“ ed il controllo in cassazione potrà estendersi solo alle questioni di

diritto, secondo la funzione propria del giudizio di legittimità.

L’art. 54 del decreto propone quindi la sostituzione dell’attuale testo del

n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che elenca i motivi di ricorso in cassazione, con

la dizione secondo cui il ricorso è ammissibile «5) per omesso esame circa un

fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le

parti.»

Come ricorda la relazione di accompagnamento l’attuale tenore letterale del

motivo, che consente l’impugnazione di legittimità «per omessa

insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e

decisivo per il giudizio», ha costituito la valvola attraverso cui si è

consentita avanti alla Suprema Corte la riproposizione delle questioni di fatto

che, in quanto tali, dovrebbero essere estranee alla sede istituzionalmente

preposta alla nomofilachia. Né l’eliminazione del motivo di cassazione

relativo alla motivazione rischia di provocare un vuoto di tutela, atteso che

l’ipotesi di motivazione inesistente o solo apparente costituirebbe un vizio

di legge sempre censurabile ex art. 111 Cost.

Le ulteriori norme dell’art. 54 attuano il coordinamento del nuovo istituto

con la disciplina del contenzioso lavoristico.

Infine, è definito il regime transitorio stabilendosi che le nuove disposizioni

si applicano ai giudizi di appello introdotti ed alle sentenze pubblicate dal

trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di

conversione.

2) Le ragioni delle modifiche. L’esame dei dati statistici relativi alla

durata dei procedimenti civili in Italia evidenzia come la fase processuale in

cui si accumulano maggiori ritardi nella definizione sia quella di impugnazione.

In base ai dati resi noti dal Ministero della Giustizia (Direzione Generale di

Statistica), nel periodo 1 luglio 2010 »“ 30 giugno 2011 la pendenza

complessiva del contenzioso civile nel sistema processuale italiano è

diminuita, rispetto all’anno precedente (1 luglio 2009 »“ 30 giugno 2010) da

5.561.383 a 5.429.148 procedimenti, con un decremento del 2,4%, in conseguenza

di una rilevante diminuzione delle sopravvenienze passate da 4.780.985 al 30

giugno 2010 a 4.365.561 al 30 giugno 2011 (- 8,7%).

In relazione alla ripartizione tra gli uffici di merito, la pendenza complessiva

nel periodo 2010 »“ 2011 è in aumento nelle Corti d’Appello (444.908 nel

2011 a fronte di 430.503 nel 2010, con un incremento del 3,3%), mentre è

stabile nei tribunali (3.479.367 a fronte di 3.478.745), ed è in forte

diminuzione negli uffici del giudice di pace (1.389.431 a fronte di 1.534.082.

con una flessione di »“ 9,4%).

Nonostante si sia verificata nel 2010 »“ 2011 una lieve flessione delle

iscrizioni di nuovi giudizi in appello (da 171.887 a 162.940) la durata media

dei procedimenti di secondo grado è aumentata da 947 a 1032 giorni (+9%).

Tale ultimo dato dimostra che il giudizio di secondo grado pone una seria

ipoteca negativa sulla possibilità del sistema giudiziario italiano di

conformarsi alle prescrizioni della Corte EDU in relazione ai tempi di

definizione dei processi civili.

Il giudizio di primo grado, pur rimanendo sicuramente non conforme ad un modello

di giustizia tempestiva ed efficace, offre un valore medio in aumento »“ da 456

nel 2010 a 470 giorni nel 2011 »“ ma compatibile con i limiti massimi stabiliti

in sede sopranazionale.

Si deve infine dare atto, quanto alle modalità di definizione che le

impugnazioni in appello di sentenze civili risultano essere accolte in una

percentuale vicina al 30% dei casi

Per quanto riguarda il giudizio di Cassazione, la pendenza complessiva dei

procedimenti civili risulta essere diminuita nel periodo 31 dicembre 2010 »“ 31

dicembre 2011, da 97.653 a 95.594 (-2,14%). Nello stesso periodo si è

verificato un aumento delle sopravvenienze da 30.383 a 30.889 procedimenti, ed

un aumento delle definizioni »“ da 28.963 a 32.948 (+14%) - . E’ aumentata la

produttività media dei magistrati, passandosi da 273 del 2010 a 278 definizioni

per singolo consigliere nel 2011.

Cionondimeno la durata media del procedimento civile in cassazione è aumentata

nel 2011 a 36,7 mesi, contro i 35,4 mesi del 2010.

Anche il giudizio di legittimità non corrisponde alle attese di effettività e

tempestività in sede CEDU.

Con riferimento agli esiti del giudizio, la percentuale di accoglimento

dell’impugnazione in cassazione corrisponde al 35%, essendo per il resto i

ricorsi rigettati, dichiarati inammissibili, improcedibili o estinti.

Non può dirsi che esista un incentivo, in termini di risultato processuale

atteso, per le parti ad impugnare le sentenze di primo grado.

Esistono, come è noto, delle condizioni esterne particolarmente favorevoli alla

promozione del contenzioso ed alla sua protrazione in ogni sede disponibile.

Tra di esse, indubbio incentivo all’impugnazione delle decisioni »“ quali che

siano le possibili aspettative di successo nel merito della lite »“ è

costituito dalla prospettiva di lucro relativa all’indennizzo riconosciuto

dalla legge cd. «Pinto», dipendente dalla violazione del termine ragionevole

di durata del processo.

Il perseguimento di tale guadagno, nelle attuali condizioni del sistema

processuale civile, costituisce esito generalmente prevedibile con rilevante

livello di probabilità, cosicché è un forte stimolo alle parti del processo

anche soccombenti a non desistere dalla lite.

Come è noto, si ingenera spesso un circolo vizioso per cui l’ordinamento non

riesce a garantire una tempestiva definizione neanche del procedimento per

l’indennizzo del danno per irragionevole durata della lite, cosicché sarà

possibile introdurre nuove richieste di indennizzo relative alla sua durata.

Ed effettivamente risulta dai dati che il contenzioso relativo alla cd. «legge

Pinto» è in continuo aumento, essendo i ricorsi alle Corti d’appello, che

decidono in unico grado, pervenuti al numero di 53.138 nel 2011 (erano 44.101

nel 2010), con un incremento annuale del 20,5%.

Quanto alla Corte di Cassazione, il contenzioso relativo alla legge Pinto è una

delle aree di principale impegno, considerato che nel 2011 sono stati definiti

3.709 ricorsi in tale materia, pari all’11,3% del totale della produzione.

Non è possibile quindi nelle attuali condizioni, attribuire alle impugnazioni

alcun «effetto» o «equilibrio» di «separazione», cioè la capacità

di discernere tra i provvedimenti suscettibili di gravame, con tendenziale

limitazione degli appelli o dei ricorsi alla Corte di Cassazione alle sole

sentenze non corrette nel merito.

Premesse le condizioni «esterne» di cui si è detto, è evidente che il

funzionamento del meccanismo delle impugnazioni è in concreto fortemente

determinato dalle regole che ne disciplinano l’accesso, l’oggetto, i

presupposti e l’ampiezza del sindacato ammesso sulle decisioni oggetto di

contestazione.

Il giudizio di secondo grado in appello, nell’attuale sistema normativo

italiano è disciplinato quale nuovo processo con effetto pienamente devolutivo,

cosicché realizza una sostanziale duplicazione del giudizio di primo grado, sia

pure con limiti relativi alla proposizione di domande nuove ed alla richiesta di

nuova attività istruttoria. Pur richiedendo formalmente la legge (art. 342

c.p.c.) la indicazione di specifici motivi di impugnazione, la parte ottiene

comunque un riesame complessivo della questione la cui soluzione in primo grado

non l’abbia soddisfatta.

Dal punto di vista dogmatico, la possibilità di rivedere la prima decisione in

appello in maniera integrale, con la stessa estensione di giudizio contraddice

l’indirizzo che sembra prevalente nella più recente elaborazione dottrinale e

legislativa, teso ad attribuire centralità al ruolo del giudice in primo grado

ed alla immediatezza del contraddittorio tra le parti e con il giudicante, sia

con riferimento al merito che al metodo di conduzione del processo, in cui la

interlocuzione diretta, sia a scopi definitori che decisori, ha un rilievo

preminente.

Del resto, l’organico naturalmente più ridotto delle Corti d’Appello »“ la

pianta organica prevede complessivamente, tra consiglieri, direttivi e

semidirettivi, 1304 posti di magistrato in Corte d’appello, mentre in

Tribunale, come giudici, direttivi e semidirettivi, sono previsti

complessivamente 5063 posti - impedisce di fare fronte in maniera tempestiva

alla revisione delle sentenze emesse in primo grado ed impugnate. Per lo stesso

motivo non possono essere in quella sede investite rilevanti risorse di

interlocuzione con le parti caratteristiche del primo grado.

L’esperienza peraltro dimostra che il giudice di appello »“ che è in linea

di principio normalmente vincolato all’istruttoria del fatto esperita dal

primo giudice »“ nella maggioranza dei casi non si avventura nella

rivalutazione della ricostruzione della fattispecie, indirizzando il proprio

nuovo giudizio piuttosto sulle affermazioni in diritto.

Quanto al giudizio di cassazione, l’art. 360 c.p.c., nell’individuare i

motivi per il ricorso di legittimità, prevede »“ oltre ai vizi di stretta

legittimità - il vizio di «omessa, insufficiente o contraddittoria

motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». Tale

ipotesi finisce per consentire una nuova censura, ed un nuovo giudizio, sul

contenuto della decisione, sia in fatto che in diritto.

3) La valutazione della disciplina introdotta.

a) Il giudizio d’appello.

Gli artt. 348 bis e ter cpc consentono di dichiarare inammissibile l’appello

sol perché esso abbia una probabilità non ragionevole di essere accolto.

L’approccio interpretativo radicalmente negativo - connesso soprattutto al

timore di un utilizzo assai spregiudicato della formula legislativa della

ragionevole probabilità anche al fine di ridurre il carico dei ruoli - sembra

eccessivo.

Il possibile rischio è semmai quello opposto che la riforma possa avere una

limitata, se non scarsa, applicazione.

Infatti, il carico dell’arretrato già pendente, con cause fissate per la

decisione in talune Corti d’appello già ad oltre cinque anni da oggi, rende

obiettivamente poco plausibile che, in specie, i collegi delle Corti di

appello, peraltro tenuti anche allo smaltimento dell’arretrato per effetto dei

programmi di gestione di cui all’art. 37 d.l. 98/2011, conv. in l. 111/2011,

siano in grado di procedere allo scrutinio richiesto dalla norma. Al riguardo,

deve considerarsi che la norma così redatta mette a disposizione termini assai

ristretti: nei giudizi sottoposti al rito ordinario venti giorni intercorrenti

fra la scadenza del termine di costituzione dell’appellato e l’udienza

fissata in citazione; ovvero, nei giudizi sottoposti al rito laburista, dieci

giorni previsti dall’art. 436 I comma cpc fra il termine di costituzione

dell’appellato e quello dell’udienza. In tali ristretti termini il collegio,

sempre che abbia a disposizione il fascicolo di primo grado, usualmente, invece,

trasmesso dall’ufficio di primo grado con grave ritardo, deve, oltre al lavoro

ordinario, procedere allo studio dei nuovi processi di appello per individuare

quelli che non presentano una ragionevole probabilità di essere accolti,

soltanto per i quali direttamente, quanto unicamente, all’udienza ex art. 350

c.p.c. deve pronunciare l’ordinanza di inammissibilità.

Si reputa allora opportuno suggerire di ipotizzare accorgimenti normativi ed

organizzativi che, in primo luogo, attribuiscano al collegio un tempo ulteriore

per lo scrutinio richiesto e che soprattutto, al contempo, agevolino ed

incentivino l’esame del fascicolo processuale di appello già anteriormente

alla prima udienza, quale necessario presupposto per il raggiungimento dello

scopo prefissato dalla norma.

E’ invero dato notorio che, in considerazione del poderoso carico di lavoro

oggi gravante sulle Corti di appello, alla prima udienza i collegi si limitino

solo a verificare la regolarità della notifica e l’integrità del

contraddittorio, usualmente rinviando all’udienza delle conclusioni ogni più

approfondita valutazione del merito della controversia. Solo nell’ipotesi di

richiesta di inibitoria si procede alla, comunque sommaria, delibazione della

possibile fondatezza dell’interposto gravame. Prova ne è la non eccessiva

applicazione della sanzione prevista nell’art. 283 II co c.p.c. per il caso

in cui l’istanza di sospensiva sia inammissibile o manifestamente infondata

introdotta dall'art. 27 della l. 12 novembre 2011, n. 183.

Donde può sorgere il dubbio che la disposizione nella sua attuale formulazione

possa realisticamente trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui il

collegio, si ribadisce già oberato del carico pregresso, sia investito della

richiesta di inibitoria.

Ed allora i rimedi potrebbero essere quelli della reintroduzione nei giudizi

davanti alla Corte di Appello della figura del consigliere istruttore, al quale

concedere il potere di emettere l’ordinanza di inammissibilità di cui si

discorre, eventualmente poi reclamabile innanzi al collegio, che potrà poi

decidere con ordinanza parimenti succintamente motivata, ricorribile per

cassazione; oppure la previsione di una sezione speciale, a composizione

turnaria, preposta unicamente al vaglio preventivo dei fascicoli sopravvenuti

(semmai con contestuale temporanea esenzione o riduzione del lavoro ordinario),

onde discernere quali fra questi possono essere immediatamente definiti con

l’ordinanza di inammissibilità di cui si discorre.

In altri termini, il rischio da evitare, e che può far tristemente naufragare

il tentativo di riforma, è quello che il giudice prenda una cognizione

adeguatamente approfondita della controversia, in assenza di correlativa istanza

di sospensiva, solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.

Peraltro, sotto altro profilo la compiuta delibazione della sussistenza o meno

della ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello può essere

aiutata ove si preveda espressamente, così rafforzando il disposto dell’art.

342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dell'art. 434 c. p.c.) in un’ottica di

leale collaborazione delle parti alla pronta definizione del giudizio, che

l’atto di appello, al pari dell’eventuale appello incidentale, debba

contenere, a pena di inammissibilità, un vero e proprio progetto alternativo di

sentenza. Sarebbe, in altri termini, auspicabile che il legislatore preveda, al

pari, peraltro, di quanto opera il codice di rito tedesco al § 520 comma terzo,

che la parte, in relazione ai singoli passi della sentenza impugnata non

condivisi, indichi con inequivocabile nettezza i motivi, anche a mezzo di

preciso rinvio a documenti, atti istruttori, allegazioni difensive,

dell’evidenziato dissenso, proponendo essa stessa un ragionato progetto

alternativo di decisione fondato su precise censure rivolte alla sentenza di

primo grado.

E’ indubitabile che, in tal guisa, il collegio, per un verso, vede agevolato

il proprio compito e, per altro verso, può vedere fugato il rischio di un

utilizzo arbitrario del novello rimedio processuale: una delibazione sommaria e

colposamente superficiale è, infatti, ex seimpedita qualora la parte

appellante, in via principale od incidentale, tracci puntualmente la strada su

cui deve incamminarsi il ragionamento del giudice di secondo grado.

Inoltre, mutuando dall’esperienza tedesca, occorrerebbe prevedere una

ridefinizione dei motivi d’appello che dovrebbe essere proposto solo per

violazione di legge ovvero se i fatti di cui occorre tener conto ai fini della

valutazione dell’impugnazione giustificano una diversa decisione.

Tale proposta risente della necessità, imposta dal sopra esposto sostanziale

fallimento dell’attuale sistema delle impugnazioni, di giungere ad una

ricostruzione del giudizio di secondo grado unicamente come revisio prioris

instantiae.

L’attuale stato del giudizio di appello, caratterizzato dall’incapacità del

sistema di dare una risposta giudiziaria in tempi ragionevoli, che, in ultima

analisi, si traduce in una sostanziale denegata giustizia ex se violativa del

disposto di cui all’art. 6 Cedu, impone l’adozione di un appello chiuso,

caratterizzato dall’impossibilità della parte di depositare nuovi documenti,

quantunque essi siano indispensabili alla definizione del giudizio, a meno che

essi non si siano formati successivamente o la parte ne sia entrata in possesso

solo dopo la sentenza di primo grado per ragioni non ad essa imputabili.

Il processo civile non va allora concepito come un work in progress, che si

dipana in più stadi e volto al progressivo accertamento della realtà

materiale, bensì, valorizzando e responsabilizzando il giudizio di primo grado,

anche eventualmente accentuando momenti di controllo endoprocessuali sempre

all’interno di tale grado di giudizio, i giudici dei gradi successivi possono

- e devono essere chiamati a - soltanto delibare il quadro istruttorio

definitivamente maturato allo scadere delle preclusioni di legge, sulla scorta

delle allegazioni difensive una volta e per sempre delineate nel giudizio di

primo grado.

Tale ricostruzione, peraltro, conforme al dato costituzionale, secondo cui i

giudici si distinguono solo per le funzioni svolte, di modo che non può

riconoscersi né alla Corte di Cassazione, né tantomeno alle singole Corti di

Appello nessuna posizione gerarchicamente sovraordinata, consegue, come detto,

all’abbandono definitivo di ogni residua concezione del giudizio di appello

come novum iudicium.

In tale ottica che vede il giudizio di appello non più come step successivo,

come un quasi naturale secondo tempo, aperto ad ulteriori sviluppi, della

partita processuale, ma come mera rivisitazione del giudizio già ottenuto, non

può menar scandalo la previsione che sanzioni il ricorso abusivo al giudizio

impugnatorio, anche mediante una condanna, suppletiva alla statuizione ex art.

91 c.p.c., avente ad oggetto il versamento di un multiplo del contributo

unificato all’erario, come già avviene in altri paesi europei con cultura

giuridica vicina alla nostra.

Del resto una tale forma di sanzione avrebbe anche il significato di compensare

i notevoli esborsi che lo Stato è tenuto a versare alle parti in attuazione

della c.d. legge Pinto, determinati dalle lungaggini dei processi indotte dalla

proliferazione del contenzioso.

Coerente con l’appena menzionata ricostruzione si presenterebbe anche la

possibile opzione, peraltro prevista anche dal codice processuale tedesco al §

514, di rendere non appellabili le sentenze contumaciali. Il che ovviamente

richiederebbe di abbandonare il criterio - ereditato dalla tradizione francese

- della contumacia come ficta contestatio e ad accogliere l’inverso principio,

proprio del processo tedesco ed austriaco, della contumacia come ficta

confessio. Infatti, se una parte manifesta la propria indifferenza per l’esito

del processo non vi è nessuna ragione di costringere l’altra parte a

sostenere un’istruttoria, che costa denaro ed allunga i tempi del processo.

All’uopo spunti interessanti possono essere tratti dal modello tedesco di

processo contumaciale, da recepirsi per così dire cum judicio, in quanto

l’effetto della ficta confessio potrebbe essere ricollegato non già alla mera

mancata costituzione a seguito di regolare notifica dell’atto introduttivo,

ma anche alla mancata presentazione della parte a rispondere

all’interrogatorio formale. In tal senso sarebbe possibile evitare una

gestione strumentale e capziosa della tempistica di introduzione della lite da

parte dell’attore, salvaguardando nei limiti ragionevoli la posizione del

convenuto, la cui ficta confessio »“ si ribadisce »“ potrebbe essere tratta

dalla condotta omissiva perseverata nel corso del processo, finanche dopo la

notifica dell’ordinanza con cui è disposto l’interrogatorio formale.

Il quadro potrebbe trovare poi logica coerenza, laddove si attribuisca, in caso

di procedimento contumaciale, il potere-dovere al giudice di disporre, anche

d’ufficio e sin dalla prima udienza, l’interrogatorio formale del convenuto

contumace ed, indi, in caso di sua mancata presentazione all’udienza

all’uopo fissata per tale incombente processuale, il potere »“dovere sempre

del giudice di decidere la causa oralmente in udienza col modello dell’art.

281 sexies c.p.c., prevedendo espressamente una motivazione assolutamente

concisa, semmai strutturata sul modello francese del cd. attendu.

Sarebbe dunque ingiustificata in relazione alla disciplina, già oggi prevista,

per l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto, prevedere una qualche

forma di impugnazione del provvedimento così redatto, il quale deve cadere

more solito in cosa giudicata.

Giova aggiungere che l’occasione si palesa propizia anche per l’estensione

del modello motivatorio di cui al disposto degli artt. 132, 118 disp. att.

c.p.c., siccome novellato dalla legge 69/2009, anche ai giudizi di appello già

pendenti alla data del 4 luglio 2009. Si tratta, infatti, di razionalizzare la

disciplina della motivazione civile, atteso che attualmente, per effetto

dell’art. 58 della legge 69/09 esiste un doppio binario: le cause pendenti in

primo grado alla data del 4 luglio 2009 sono decise con il nuovo modello

motivatorio, così come i giudizi di appello riguardanti sentenze pronunciate

con riguardo alle cause già pendenti in primo grado alla detta data; viceversa,

in relazione alle cause pendenti in grado di appello alla detta data del 4

luglio 2009, il nuovo modello motivatorio non si applica, rimanendo il vecchio

regime che impone la redazione dello svolgimento del processo e dei motivi di

diritto. E’ palese che si tratti di un discrimine in sé non rispondente a

criteri di logica giuridica, tanto più che l’alleggerimento del percorso

motivatorio consentirebbe di aiutare i giudici del gravame a ridurre

l’arretrato e porrebbe i capi delle Corti di appello in grado di formulare

più agevolmente il programma di gestione dell’arretrato. Ovviamente, la

possibile novità non ridurrebbe i diritti di difesa delle parti né si può

prestare a sospetti di irrazionalità, limitandosi essa solo ad allargare

l’ambito applicativo del già vigente testo dell’art. 132 c.p.c., peraltro

in conformità con il principio tempus regit actum (la data del 4 luglio 2009 è

appunto quella di entrata in vigore della l. 69/09).

Tuttavia, una premessa fondamentale preliminare a qualsiasi intento riformatore

del giudizio di appello richiede che il legislatore individui ed affronti con il

necessario realismo il problema dell’attuale arretrato delle cause civili che

grava presso le Corti d’appello del paese.

E’ noto, infatti, che il più significativo ostacolo ad un rapido esame delle

cause civili in appello dipende dal numero esorbitante delle impugnazioni

proposte rispetto alla capacità di smaltimento delle nostre Corti d’appello.

Ciò determina inevitabilmente le condizioni per fissare le udienze per la

decisione a notevole distanza di tempo dalla data di proposizione dell’atto di

appello, in quanto i ruoli dei collegi risultano gravemente ingolfati.

Una semplice rilevazione statistica consente di verificare che, nonostante la

produttività media delle Corti d’appello risulti già molto elevata ed in

costante crescita, la decisione su un appello civile viene fissata in media dopo

4 o 5 anni.

Ebbene, in presenza di una tale situazione problematica, gli effetti positivi

della prospettata riforma non potrebbero che essere tangibili prima di 10/12

anni, in quanto solo allora potranno verificarsi i benefici di una riduzione

delle sopravvenienze dopo lo smaltimento delle cause giacenti in attesa della

decisione.

Al proposito, quindi, si suggerisce di prendere in considerazione l’adozione

di misure straordinarie e temporanee volte a consentire rapidamente di adeguare

i ruoli delle pendenze alle nuove norme così da rendere possibile agli appelli,

che superino il filtro di ammissibilità, di essere decisi entro due anni senza

incorrere nelle conseguenze della cd. legge Pinto ed offrendo al cittadino una

risposta giudiziaria in tempi ragionevoli.

In tal senso potrebbe essere utile costituire alcune sezioni per lo smaltimento

dell’arretrato civile presso le Corti d’appello per l’assunzione della

decisione delle cause fissate per la sentenza a distanza di tempo, in maniera

tale da assicurare una decisione in tempi anticipati e nel contempo sfoltire i

ruoli dei consiglieri consentendo loro di garantire la pronuncia sui nuovi

appelli a distanza di due anni. Tali sezioni stralcio dovrebbero essere

costituite esclusivamente da magistrati, ordinari o amministrativi, collocati a

riposo prima del raggiungimento del limite d’età. In alternativa, analogo

risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la costituzione dell’ufficio

del giudice presso le Corti d’appello dotato di assistenti dei magistrati

capaci di coadiuvare gli stessi nella redazione delle motivazioni delle sentenze

fissate per la decisione in data superiore al biennio.

Ciò che è necessario sottolineare è che tali misure straordinarie e

contingenti sono assolutamente imprescindibili nell’auspicata direzione di una

tangibile riduzione dei tempi complessivi nella trattazione delle cause civili,

senza determinare un ulteriore aggravio dei carichi di lavoro dei magistrati.

Infine, sarebbe comunque opportuno modificare le piante organiche presso le

Corti d’appello e presso la Corte di cassazione, al fine di adeguare il numero

degli incarichi di presidente di sezione alle reali necessità direttive dei

rispettivi uffici. Ciò potrebbe comportare il recupero di alcune unità che, a

pieno ritmo, possono essere destinate alla redazione delle sentenze e non

soltanto alla direzione dei collegi.

b) Il giudizio di cassazione.

Per quanto concerne la modifica del regime del giudizio per cassazione,

l’intervento riformatore si pone il condivisibile obiettivo di restituire alla

Corte di cassazione la funzione nomofilattica che le è propria, nel quadro di

una corretta ridefinizione della dinamica del processo civile.

La modifica riscrive il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel senso che il vizio della

sentenza denunciabile in cassazione deve consistere nell’ «omesso esame

circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra

le parti» e non più per «omessa, insufficiente o contraddittoria

motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». In tal

modo si intende definire in modo più circoscritto l'ambito del controllo della

Corte di cassazione, in quanto limitato all’eventuale omissione dell’esame

di un fatto decisivo contenuto nella sentenza impugnata. L’esigenza della

radicale modificazione della norma di cui all’art. 360 n.5 c.p.c. nasce, come

è noto, dall’attuale formulazione della disposizione la cui ampiezza è stata

capace di determinare non infrequenti sconfinamenti del giudizio di legittimità

nell'area di quello di fatto.

E’ noto, infatti, che, specie attraverso i canoni dell’insufficienza e

contraddittorietà della motivazione, è risultato agevole investire il giudice

di legittimità di un riesame degli elementi fattuali della controversia

chiedendo una diversa ricostruzione delle circostanze già esaminate in sede di

merito.

Il governo ha quindi ritenuto preferibile rifarsi alla formula già contenuta

nel codice di procedura civile del 1942, prima della riforma del 1950, e poi

indicata dalla cosiddetta "Bozza Brancaccio-Sgroi" curata dalla Corte di

cassazione e dalla Procura generale e trasmessa al CSM nel marzo del 1988. Su

tale formulazione della norma, sostanzialmente contenuta anche nel disegno di

legge governativo del 1987 avente ad oggetto «provvedimenti urgenti per

l’accelerazione dei tempi della giustizia civile», si era sviluppato un

ampio dibattito da parte di molti studiosi del processo civile. In verità in

precedenza la Commissione Liebman, insediata dal Ministro della giustizia per

elaborare le proposte di intervento sul codice di procedura civile, aveva

proposto l’integrale cancellazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. proprio per

marcare ancor più incisivamente i compiti esclusivi della Suprema Corte nel

giudizio di legittimità.

Tuttavia, non si è scelta una strada così radicale, sebbene autorevolmente

sostenuta da più parti, in favore di un controllo di legittimità affidato alla

Corte di cassazione sulla sentenza caratterizzato, in modo chiaro ed inequivoco,

dall'esistenza, nella motivazione censurabile, di un vuoto obiettivo, escludendo

la possibilità per la Corte di sostituire le proprie valutazioni di fatto a

quelle di competenza del giudice del merito.

Tale opzione è senz’altro condivisibile laddove si propone come obiettivo

principale il ripristino per la Corte di Cassazione della funzione principale di

riesame dei profili di legittimità della sentenza, senza dover costringere la

Corte ad affrontare la ricostruzione dei fatti e concentrando così

l’attenzione sui profili di diritto coinvolti nella controversia.

In tal modo si intende evitare l'abuso dei ricorsi per cassazione basati sul

vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali,

favorendo la generale funzione nomofilattica della Suprema Corte di cassazione,

per agevolare, nel contempo, il raggiungimento dell’obiettivo di ridurre la

durata complessiva dei processi contenendola nei termini ragionevoli previsti

dall’art. 111 Cost.

Parimenti va accolta con favore la modifica normativa di cui ai commi 4 e 5 del

nuovo art. 348 ter c.p.c. in base alla quale il ricorso per cassazione, avente

ad oggetto una sentenza d’appello che abbia confermato la decisione di primo

grado ovvero quando l’inammissibilità dell’appello sia fondata sulle stesse

ragioni inerenti a questioni di fatto poste a base della decisione impugnata,

può essere proposto per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c. con esclusione

del motivo di cui al n. 5 della stessa norma.

Anche in tale caso la misura intende favorire il consolidamento degli effetti

giuridici suggellati in una doppia pronuncia basata su motivi conformi,

escludendo così la possibilità di rimettere in discussione, anche solo

indirettamente, la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito.

Lo scopo dell’intervento normativo va ancor più nella condivisibile direzione

di affidare alla Corte di cassazione principalmente il ruolo di giudice di

legittimità cui è riconosciuto il sindacato sulla violazione di legge

dall’art. 111 della Costituzione.

4) Gli altri possibili strumenti di intervento.

In sostanza, può dirsi che in tutti gli ordinamenti sono previsti gli strumenti

finalizzati a limitare l’accesso ai gradi di impugnazione, al fine di

selezionare le domande effettivamente meritevoli di considerazione, e quindi

sfoltendo il contenzioso da iniziative strumentali, opportunistiche o comunque

non rispondenti alle esigenze di un sistema di giustizia improntato a

tempestività, effettività ed efficienza. Tra di essi vi è in primo luogo la

preventiva valutazione di ammissibilità della domanda in concreto, secondo un

giudizio di merito che consideri la correttezza della decisione resa nel grado

precedente, valutando la necessità di correzione. Alternativamente può essere

perseguito l’obbiettivo della limitazione a priori, in via generale ed

astratta, delle ragioni per cui essa può essere impugnata, limitandone i casi,

operando quindi sull’oggetto della cognizione nei gradi di giudizio successivi

al primo.

La prima modalità è maggiormente indirizzata al perseguimento della giustizia

della soluzione del caso concreto, e quindi della effettiva soddisfazione del

diritto, nell’interesse delle parti coinvolte.

La seconda corrisponde piuttosto alle esigenze generali dell’ordinamento di

uniformità e prevedibilità delle procedure e delle pronunce, offrendo un

sistema che si preoccupi di riformare le sentenze che, a prescindere dalle

conclusioni raggiunte nel caso concreto, non siano in sintonia con le regole che

dovrebbero governare il metodo e l’applicazione della legge.

A tale ultima istanza è ispirata, nelle originarie intenzioni del legislatore

italiano, il giudizio di Cassazione che, nel riferirsi alla legittimità del

procedimento e della decisione, dovrebbe essere limitato ai vizi relativi allo

svolgimento del processo, ed alla interpretazione del diritto, in sintonia con

il ruolo di nomofiliachia attribuito alla Suprema Corte. Il fallimento di questo

obbiettivo, che ha visto esplodere il contenzioso in Cassazione è originato,

come si è visto, dalla pratica del riesame anche del merito della controversia,

attraverso la valvola del controllo della motivazione.

Nel sistema italiano è stato previsto anche un filtro di ammissibilità del

ricorso per cassazione, che non ha avuto esiti uniformi nelle varie sezioni.

Ed infatti, con la legge n. 69/09 è stato introdotto un procedimento per la

decisione sull’inammissibilità del ricorso per cassazione e per la decisione

in camera di consiglio previsto dall’art. 380 bis c.p.c.

Lo strumento prevede un preventivo esame sui requisiti di ammissibilità dei

ricorsi che viene svolto presso la sesta sezione della cassazione civile la

quale viene distinta in sottosezioni attribuite presso ogni sezione per

l’esame preliminare dei ricorsi e la definizione di quelli da trattare in

camera di consiglio laddove si rinvengano motivi di inammissibilità.

L’analisi dei dati statistici dal 2009 ad oggi dimostra che la sesta sezione

ha esaminato complessivamente 24.431 ricorsi dei quali 12.101 (pari al 49,54%)

sono stati da essa trattenuti ai fini della decisione in camera di consiglio,

mentre 12.330 (pari al 50, 46%) sono stati trasmessi alle sezioni ordinarie ai

fini della trattazione in udienza pubblica.

La disaggregazione del dato dimostra che presso la sottosezione della prima

sezionecivile sono stati destinati alla sesta sezione il 68,95% dei ricorsi

mentre solo il 31,05 % è stato inviato alla udienza pubblica, presso la

sottosezione della seconda sezione il 56,21% è stato trattenuto in sesta

sezione ed il 43,79% inviato all’udienza pubblica, presso la sottosezione

della terza sezione il 55,39% dei ricorsi è stato destinato alla sesta per la

camera di consiglio mentre il 44,61% è stato inviato in udienza pubblica,

presso la sottosezione della sezione lavoro il 34,51% è stato trattenuto in

camera di consiglio per prospettata inammissibilità mentre il 65,49% è stato

inviato in udienza pubblica ed infine presso la sottosezione dellasezione

tributaria il 39,29% è stato trattenuto in sesta mentre il 61,71% è stato

inviato all’udienza pubblica.

I dati così proposti dimostrano che l’efficacia deflattiva dello strumento

non è stata omogenea e ciò dipende in gran parte dalla natura del contenzioso

attribuito alle varie sezioni civili della Corte di cassazione distinto per

materia ed anche dalla capacità che hanno avuto i vari dirigenti delle sezioni

di investire sulla nuova opportunità.

Complessivamente, comunque, si può affermare che, non potendosi pretendere un

ulteriore aggravio dell’impegno dei vari collegi cui è affidato il preventivo

esame di ammissibilità, il meccanismo offre una valida occasione per ridurre la

capacità espansiva del contenzioso civile in cassazione.

Alternativamente è già stata autorevolmente prospettata la diversa soluzione

della delimitazione rigorosa dell’oggetto del giudizio in Appello e

Cassazione.

Si potrebbe così restituire centralità al giudizio di primo grado, con effetto

radicalmente deflativo delle impugnazioni, prevedendo che la sentenza sia

impugnabile in appello solo per motivi specifici, corrispondenti a vizi

tassativi.

Tra di essi, oltre alle violazioni di legge, potrebbe comprendersi la revisione

della motivazione, che comunque consente di correggere anche gli errori

nell’interpretazione e la qualificazione del fatto.

Si dovrebbe, pertanto, modulare la proposizione dei motivi di appello civili

sulla falsariga dei motivi per cassazione, per realizzare un giudizio di natura

impugnatoria così da evitare una nuova integrale valutazione sugli stessi atti

ed indirizzarlo su più precise contestazioni della sentenza, così come accade

nella gran parte dei paesi europei.

Tale sistema, oltre ad avere un immediato effetto deflattivo, sarebbe inoltre

utile a promuovere l’esigenza di stabilità delle decisioni e di uniforme

applicazione del diritto oggettivo e, conseguentemente, di accelerazione e di

prevedibilità della giurisprudenza

L’eventuale giudizio di cassazione andrebbe, quindi, limitato alla sola

denunzia di violazione di legge, conformemente alla previsione dell’art. 111

della Costituzione, sottraendo al sindacato di legittimità il vizio relativo

alla motivazione, così come accade in tutti i più significativi sistemi

europei.

Tale disegno è già stato sostenuto dal CSM nelle risoluzioni del 22 febbraio

2012 e del 17 maggio 2012 in occasione dell’espressione dei pareri

rispettivamente resi sul tribunale delle imprese e sulla riforma del processo

del lavoro, inoltre le linee di un siffatto intervento riformatore sono state

autorevolmente affermate nella Relazione del Primo Presidente della Corte di

Cassazione per l’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2012.

Il sistema potrebbe del resto orientarsi ad introdurre entrambi i metodi di

filtro, prevedendo cioè limitazioni di oggetto della nuova valutazione, nonché

un filtro preliminare di ammissibilità che permetta, con procedura snella e

semplificata, di evitare che le impugnazioni non corrispondenti al modello

legale pervengano alla fase della decisione, più impegnativa proceduralmente.

Il filtro, naturalmente può essere relativo alla mera valutazione

dell’oggetto della contestazione, oppure estendersi anche al giudizio di

merito sulla prognosi di accoglimento, e, quindi, limitarsi a scartare i ricorsi

che non attengano a profili sindacabili della sentenza, oppure riferirsi anche

ai ricorsi che, pur rispettosi dei prescritti criteri di legge, siano ritenuti

manifestamente infondati.

Art. 55 (Modifiche alla legge Pinto)

L’art. 55 del decreto legge oggetto di conversione interviene sulla legge 24

marzo 2001 n. 89, apportando significative modifiche alla disciplina sostanziale

e processuale, dei procedimenti relativi alle domande di indennizzo per

violazione del termine di durata ragionevole del processo civile e penale »“

cd. legge Pinto.

L’intervento è animato dagli obbiettivi paralleli di razionalizzare il

procedimento giurisdizionale presso la Corte d’Appello e di contenere la spesa

pubblica collegata agli indennizzi che ne derivano .

Le due esigenze sono evidentemente strettamente collegate considerando che, come

si è già rilevato nei paragrafi relativi alla funzionalità delle Corti

d’Appello, la scarsezza delle risorse disponibili e le condizioni di

sovraccarico di contenzioso »“ in parte dipendente proprio dal proliferare

delle domande di accertamento della responsabilità dello Stato per

irragionevole durata dei processi »“ fanno sì che anche i ricorsi ai sensi

della legge n. 89 del 2001 non siano definiti in tempi compatibili con i

principi e le regole contenute nell’art. 6 della Convenzione europea dei

diritti dell’uomo, e finiscano per generare a loro volta ulteriori richieste

di indennizzo per eccessiva durata del procedimento, in una sorta di circolo

vizioso che si autoriproduce potenzialmente senza fine.

Il risultato è, evidentemente, un processo di progressivo e costante drammatico

aggravamento del carico di lavoro delle Corti d’Appello, dei ritardi della

definizione dei procedimenti, e, in ultima analisi, la crescita esponenziale ed

inarrestabile degli oneri di spesa per l’erario che deve fare fronte agli

indennizzi liquidati.

Si è già detto, peraltro, di come, al di là della sua intima disfunzionalità

e del suo autonomo peso finanziario, il sistema di liquidazione a carico dello

Stato dei danni derivanti dal ritardo nella definizione dei procedimenti civili

e penali, ha finito in concreto per costituire un serio incentivo alla

litigiosità in tutti i settori del diritto, atteso che rende conveniente la

proposizione del contenzioso e la resistenza in giudizio in tutti i gradi

possibili, a prescindere dalla fondatezza della specifica pretesa fatta valere,

nella consapevolezza che l’incapacità del sistema giudiziario di produrre

definizioni tempestive, comunque, consentirà alle parti di lucrare un guadagno

patrimoniale.

Sarebbe stato dunque auspicabile un intervento volto in prima battuta alla

degiurisdizionalizzazione della materia, affidata ad una pubblica

amministrazione, e restituita al giudice solo in caso di opposizione al

provvedimento amministrativo, sollevata dal soggetto volta per volta

interessato.

Le norme di nuova introduzione intervengono su entrambi i fronti della

questione, correggendo sia le regole processuali che i presupposti sostanziali

della liquidazione.

Sotto il primo profilo, radicale è l’innovazione ipotizzata: infatti il

procedimento, che continua a svolgersi innanzi alle corti di appello, viene

modellato sulla falsariga del procedimento monitorio: esso è, infatti, reso

monocratico ed a contraddittorio posticipato ed eventuale, a seguito

dell’introduzione facoltativa della fase di opposizione.

La conseguente sostanziale razionalizzazione e semplificazione dell’iter

procedurale si coglie considerando alcuni possibili aspetti della riforma:

innanzitutto, il requisito motivatorio che deve connotare il decreto con cui si

provvede sulla domanda di equa riparazione può anche essere soddisfatto

mediante un rinvio per relationem all’istanza e agli atti posti a corredo

della stessa, al pari di quanto oggi si ritiene per il decreto ingiuntivo. In

altri termini, il giudice che emette il decreto di cui all’art. 3 legge 89/01,

siccome novellato dal decreto legge, accogliendo le ragioni del ricorrente ne

farà propri i motivi, per cui il riferimento a questi »“ portati a conoscenza

del soggetto nei cui confronti la domanda è proposta mediante la notificazione

sia del ricorso sia del pedissequo decreto »“ sarà sufficiente ad integrare

per relationem la motivazione del provvedimento. Quanto precede renderà poi

possibile in un prossimo futuro, anche sulla scorta dell’esperienza maturata

in ordine ai decreti ingiuntivi telematici, informatizzare integralmente la

procedura, assicurando una risposta giudiziaria ancora più immediata.

Condivisibile è l’opzione di rendere l’istanza non più proponibile

allorché la stessa sia stata rigettata, residuando in tal caso quale unico

rimedio l’eventuale opposizione di cui all’art. 5 ter.

Utile al fine di evitare un abusivo ricorso al procedimento di cui alla legge

89/01 è la sanzione processuale prevista dall’art. 5 quater. Essa, però, per

essere realisticamente efficace deve essere formulata in modo da non lasciare

nessuna discrezionalità in merito al giudice. Eventualmente, può altresì

ipotizzarsi una sua ulteriore graduazione, mediante un possibile aumento del

minimo per il caso in cui la sanzione sia emessa a seguito della »“ eventuale

»“ fase di opposizione.

Sotto il profilo sostanziale il legislatore ha proceduto a normare un saldo

approdo giurisprudenziale quanto alla determinazione concreta della ragionevole

durata del giudizio. Al riguardo, infatti, già da tempo la giurisprudenza

nazionale si è uniformata a quella della Cedu, e conseguentemente ha

determinato in tre anni la ragionevole durata del giudizio di primo grado, in

due anni quella del giudizio di appello ed in un anno quella del giudizio di

legittimità. E’ probabile che sia opportuna una migliore specificazione dei

tempi occorrenti per la definizione del procedimento esecutivo e fallimentare, a

volte non dipendenti dall’ufficio giudiziario: come nel caso in cui non si

riesca a procedere alla vendita dopo il primo incanto oppure nell’ipotesi in

cui il procedimento ex art. 612 c.p.c. rimanga fermo per effetto del mancato

rilascio dei titoli abilitativi ad opera dell’ente territoriale ovvero nei

casi di procedure fallimentari complesse cui si intrecciano revocatorie e

giudizi che coinvolgono il fallimento.

Dunque, sarebbe più confacente alla realtà concreta ed alla comune esperienza

giudiziaria prevedere, per il processo esecutivo e fallimentare, in luogo di

un’aprioristica e generale definizione temporale del giudizio, una normativa

dettagliata che determini la durata complessiva delle singole fasi

endoprocedimentali che li caratterizzano.

Preme evidenziare che una lettura combinata della nuova disposizione con

l’art. 81 bisdisp. att. c.p.c., per come recentemente novellato, potrebbe

indurre a ritenere che il calendario del processo che il giudice, sentite le

parti, è tenuto a stilare debba essere contenuto nei termini sopra indicati.

Tale evenienza va sicuramente scongiurata, eventualmente con un intervento

chiarificatore del legislatore in tal senso. Una diversa lettura inevitabilmente

creerebbe problemi di oggettiva praticabilità della fattispecie, soprattutto

negli uffici particolarmente oberati di carichi di lavoro.

Appare in ogni caso condivisibile la scelta di delineare talune ipotesi in cui

non è riconosciuto alcun indennizzo: si tratta di casi in cui vi è stato o un

abuso del processo, ovvero un abuso delle condotte processuali.

Un contributo di chiarezza può però essere atteso in sede di conversione al

fine di affermare o meno la legittimazione dei singoli condomini ad agire per il

risarcimento dei danni per la violazione del termine di ragionevole durata di un

processo di cui sia stato parte un condominio.

Del pari appare necessario meglio puntualizzare la computabilità o meno dei

rinvii chiesti dalle parti per la pendenza di trattative, tanto più nel caso

in cui le trattative siano in parte andate a buon fine.

L’art. 55 modifica integralmente la disciplina della legge 24 marzo 2001, n.

89 in tema di equa riparazione e, sostituendone l’art. 5 con il nuovo 4 comma,

riproduce sostanzialmente la precedente disposizione secondo cui «Il decreto

che accoglie la domanda è altresì comunicato al procuratore generale della

Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di

responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti

pubblici comunque interessati dal procedimento».

Sul punto si osserva che il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione,

titolare dell’azione disciplinare obbligatoria nei confronti dei magistrati,

più volte negli ultimi anni ha evidenziato, anche in occasione

dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il sempre maggior numero di

decreti di condanna per violazione del termine ragionevole del processo che

viene trasmesso al proprio ufficio. Per ciascuno di questi decreti la Procura

Generale è obbligata a svolgere accertamenti preliminari che si concludono con

richieste di archiviazione per l’oggettiva difficoltà di individuare un unico

responsabile della violazione a distanza di tanti anni. Non solo, ma spesso gli

accertamenti evidenziano responsabilità ascrivibili in tesi a magistrati già

cessati dall’appartenenza all’ordine giudiziario per svariate ragioni

(pensionamento, morte, dimissioni) ovvero a magistrati onorari o ancora a

magistrati che per lo stesso periodo sono già stati oggetto di procedimento

disciplinare per gli stessi fatti.

La disciplina del 2001, inoltre, si confrontava con un sistema di

responsabilità disciplinare non tipizzato e facoltativo, mentre »“ come è

noto »“ l’attuale sistema prevede espressamente tra gli illeciti

disciplinari, nell’esercizio delle funzioni, molte fattispecie che assumono

diretta rilevanza sulla violazione del principio della ragionevole durata del

processo: (art. 2 lett. q) reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel

compimento degli atti; (art. 2, lett. dd) la responsabilità dei dirigenti per

omessa denuncia dei fatti di possibile rilevanza disciplinare).

In conclusione può, quindi, affermarsi che la comunicazione del decreto

costituisce una inutile reiterazione di notizie di possibile rilevanza

disciplinare ovvero spesso si rivela come denuncia non circostanziata e priva di

rilevanza disciplinare (art. 16, 5 co. bis).

Si propone, pertanto, che la comunicazione di cui al 4 comma dell’art. 5 della

legge n. 89/2001, così come modificato dal provvedimento legislativo in esame,

venga limitata solo alla Procura Generale della Corte dei Conti ovvero ai

titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici diversi dai

magistrati.

Art. 56. Modifiche alla Scuola della magistratura.

L’art. 56 del D.L. 83 2012 introduce alcune innovazioni al decreto legislativo

30 gennaio 2006, n. 26, e successive modificazioni, concernente l’istituzione

della Scuola superiore della Magistratura.

In particolare sostituisce all’articolo 1 il comma 5, che, a seguito delle

modifiche apportate dall’art. 3 della legge 30 luglio 2077 n. 111, prevedeva

l’individuazione di tre sedi operative della scuola, di cui una destinata alle

riunioni del comitato direttivo preposto alle attività di direzione e

coordinamento delle sedi.

Il nuovo testo della norma stabilisce che «Con decreto del Ministro della

giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono

individuate fino a un massimo di tre sedi della Scuola. Con il medesimo decreto

è individuata la sede della Scuola in cui si riunisce il Comitato direttivo».

L’innovazione, al di là della sede effettivamente scelta, deve essere

salutata con favore in quanto corrispondente agli auspici più volte formulati

dal Consiglio Superiore, tesi al perseguimento di un obbiettivo di maggiore

semplificazione, economicità e coerenza del funzionamento dell’istituzione

creata con la riforma del 2006.

Essa consente infatti che le sedi in cui si svolgeranno le attività di

formazione siano ridotte di numero, evitando i rilevantissimi costi, materiali

ed in termini di risorse umane, necessari per garantire la operatività di tre

diversi presidi territoriali.

E ciò tanto più ove si consideri il senso della funzione attribuito

all’ente.

La formazione professionale, iniziale e continuativa periodica, della

magistratura togata ed onoraria costituisce fondamentale patrimonio culturale,

di cui il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’ambito delle sue

attribuzioni di governo autonomo, si è fino ad ora fatto carico in via

esclusiva con il massimo impegno, consapevole dell’estremo rilievo che la

competenza e la qualità professionale dei magistrati riveste sotto il profilo

dell’attuazione dei principi costituzionali di autonomia ed indipendenza della

giurisdizione, nonché, in ultima analisi, della legittimazione stessa di cui

ciascun magistrato deve godere nell’ordinamento democratico.

La previsione di tre diverse sedi di esercizio della scuola, oltre ai rilevanti

costi organizzativi di cui si è accennato, ha introdotto il rischio di

frammentazione, su base geografica, di un settore di attività che per sua

intima natura deve essere unitario ed omogeneo, responsabile delle aspettative

di verifica e promozione della professionalità di tutti i magistrati allo

stesso modo, non potendosi ammettere elaborazioni separate, né distinzioni, dal

punto di vista della adeguatezza professionale, su base territoriale.

Allo stesso modo non può sottacersi il rischio che si creino, attraverso la

limitazione territoriale del confronto e del dibattito interno alla

magistratura, soluzioni interpretative autonome e separate, che finiscano per

differenziare, su base geografica, le forme e lo stesso contenuto della

risposta giurisdizionale offerta ai cittadini.

La concentrazione di tutte le attività in un’unica sede, che il Ministero

della Giustizia ha la possibilità di determinare, rappresenta quindi una

novità, permettendo di sviluppare un percorso formativo coerente ed unitario

rivolto in termini coincidenti a tutti i magistrati. Essa garantisce peraltro,

con la creazione di occasioni di confronto ed interlocuzione tra coloro che

esercitano l’attività giurisdizionale in tutte le sedi del Paese,

un’opportunità di confronto ed omogeneizzazione delle pratiche.

Merita, quindi, condivisione una modifica che rimetta una valutazione conclusiva

sul numero delle sedi solo dopo una prima fase di attuazione del nuovo modello

di formazione.

L’art. 56 prosegue incidendo sull’art. 6 del medesimo testo di legge di

istituzione della Scuola della Magistratura, che disciplina la nomina dei

componenti del Comitato direttivo.

Il testo fino ad ora in vigore del comma 2 prevedeva che i magistrati ancora in

servizio nominati al Comitato direttivo «sono collocati fuori dal ruolo

organico della magistratura per tutta la durata dell’incarico» .

Tale previsione discendeva dall’intensità dell’impegno quantitativo e

qualitativo richiesto dall’incarico descritto all’art. 2 del medesimo

decreto legislativo, che attribuisce al comitato direttivo il compito di

adottare e modificare lo statuto ed i regolamenti interni della scuola, di

tenere l’albo dei docenti, di adottare e modificare il programma annuale

dell’attività didattica, di approvare una relazione annuale, di nominare i

docenti di ciascuna singola sessione formativa e ammettere i partecipanti, di

vigilare sul corretto andamento dell’istituzione, di approvare il bilancio di

previsione ed il bilancio consultivo.

Ora, come si evince dalla sommaria elencazione che precede, si tratta di

incombenze amministrative di grande articolazione e complessità operativa, che

presuppongono un’attenzione ininterrotta all’elaborazione didattica.

La determinazione di radicale incompatibilità dell’esercizio di funzioni

giudiziarie con la nomina a componente del comitato direttivo della scuola è

messa in discussione dal nuovo intervento legislativo che aggiunge al comma 2

dell’articolo 6 citato sopra, in fine, le seguenti parole «ovvero, a loro

richiesta, possono usufruire di un esonero parziale dall’attività

giurisdizionale nella misura determinata dal Consiglio superiore della

magistratura» .

Si introduce, così la possibilità che il magistrato componente del Comitato

direttivo continui ad esercitare le proprie funzioni giurisdizionali, in tutto o

in parte, e si stabilisce che ciò possa accadere a sua richiesta.

La disposizione rischia di frustrare l’obiettivo di perseguire la massima

funzionalità quantitativa e qualitativa nell’assolvimento dei delicati ed

impegnativi compiti affidati alla scuola della magistratura nonché

l’efficienza dell’ufficio giudiziario nel quale l’assolvimento delle

funzioni di giustizia sia significativamente condizionato dal diverso impegno

didattico.

Di contro, non può sottacersi che la scelta si pone in sintonia con

l’esigenza di assicurare che i magistrati siano destinati principalmente allo

svolgimento delle funzioni giurisdizionali.

Al di là del giudizio sull’opportunità della nuova soluzione normativa in

sé, desta perplessità il meccanismo procedimentale cui il legislatore affida

la concreta attuazione dell’esonero solo parziale.

In particolare appare distonica rispetto al sistema la scelta di far dipendere

l’eventualità di esonerare solo parzialmente i magistrati nominati al

Comitato direttivo dalla loro richiesta.

Tale disposizione, infatti, finisce per affidare al singolo interessato la

decisione in ordine alla integralità della sottrazione alle funzioni

giudiziarie, residuando al CSM solo la quantificazione dell’esonero parziale,

se richiesto. Cosicché, se il magistrato nulla chiede, avrà diritto

all’esonero totale per legge.

Ciò appare in primo luogo irragionevole nella sostanza: è evidente che, in

tutti i settori, la decisione di sottrarre un magistrato ai propri compiti

istituzionali per assegnarlo a funzioni diverse dipende da una valutazione

effettuata in via generale ed astratta dalla legge o dalla normativa secondaria

consiliare, oppure dall’organo di governo autonomo nel caso concreto, sulla

base dell’impegno che le diverse funzioni prevedibilmente richiedano.

La valutazione di bilanciamento tra le esigenze delle diverse sfere di possibile

impegno del magistrato dovrebbe essere affidato all’organo di governo del

settore, sulla base della considerazione degli interessi pubblici in concreto

rilevanti.

D’altra parte, sotto il profilo formale, tale soluzione normativa può

suscitare qualche perplessità rispetto alle prerogative costituzionali del

Consiglio Superiore della Magistratura.

Da ultimo, la previsione sembra porsi in contrasto con la norma dell’art. 9,

d.lg. n. 26/2006 che prevede: «Salva l’attività di studio e di ricerca,

l’ufficio di componente del comitato direttivo è incompatibile con qualsiasi

carica pubblica elettiva o attività di componente di organi di controllo di

enti pubblici e privati».

Art. 33 (revisione della legge fallimentare).

Il decreto in commento interviene sulla legge n. 267/1942 (legge fallimentare),

apportando alcune significative modifiche all’istituto del concordato

preventivo e dell’accordo sulla ristrutturazione dei crediti, nell’ottica di

migliorare l'efficienza dei procedimenti di composizione delle crisi d'impresa.

Sul modello del «Chapter 11» della legge fallimentare americanaè previsto

che il debitore possa accedere alle protezioni previste della legge fallimentare

sulla base della mera presentazione della domanda di concordato preventivo,

riservandosi di presentare la proposta, il piano e ladocumentazione relativi

alla richiesta entro un termine che viene deciso dal giudice, compreso fra 60 e

120 giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, per un massimo di

altri 60 giorni (art. 161 comma 6 del nuovo testo della legge fallimentare).

Analoga possibilità è prevista per l’omologazione di un accordo

diristrutturazione dei debiti, stipulato con i creditori rappresentanti almeno

il sessanta per cento dei crediti (art. 182 bis).

A seguito del deposito del ricorso, l’imprenditore può compiere gli atti

diordinaria amministrazione, mentre per gli atti urgenti di straordinaria

amministrazione è richiesta autorizzazione del tribunale, il quale può

assumere sommarie informazioni.

Non sono soggetti all’azione revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie

legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso per l’ammissione al

concordato (art. 67 comma 3 lettera e del nuovo testo della legge fallimentare);

pertanto anche gli atti successivi al mero deposito del ricorso di ammissione (e

non più soltanto quelli compiuti in esecuzione del concordato preventivo)

vengono sottratti all’azione revocatoria. Inoltre, a seguito della

pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il

decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo, i

creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità,

iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore e

leipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni che precedono la pubblicazione del

ricorso sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato.

Già da questa sommaria descrizione dell’intervento normativo emerge

l’intento del legislatore di realizzare una anticipazione dei tipici effetti

conseguenti all’attivazione delle procedure concorsuali, ossia l’inibizione

delle azioni esecutive e cautelari, nell’ottica di favorire la continuazione

dell’attività commerciali di imprese in stato di crisi e come tali aventi

accesso alla procedura di concordato preventivo ovvero alla stipula di accordi

di ristrutturazione. Come si legge nella relazione di accompagnamento,

«l’opzione di fondo che orienta l'intervento è quella di incentivare

l'impresa a denunciare per tempo la propria situazione di crisi, piuttosto che

quella di assoggettarla a misure di controllo esterno che la rilevino»; si

tratta di una impostazione senz’altro condivisibile nell’attuale congiuntura

economica, che però assume come riferimento delle esperienze ordinamentali

molto diverse dalla nostra e degli strumenti tecnici non del tutto coerenti

rispetto all’ispirazione della riforma.

Un giudizio ampiamente positivo, ad esempio, merita la nuova disciplina

dell’attestazione di veridicità dei dati aziendali e della fattibilità,

uniformata ed estesa aipiani attestati di risanamento del debito (nuovo testo

dell’art. 67 terzo comma l. fall.): da una parte si richiede l’attestazione

di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità anche per i piani di

risanamento (mentre prima si richiedeva una dichiarazione di mera

«ragionevolezza») e si rende omogenea l’attività dell’attestatore nelle

tre ipotesi dei piani attestati, del concordato preventivo e degli accordi di

ristrutturazione, eliminando incertezze applicative e interpretative della

vecchia disciplina; dall’altra vengono precisati i requisiti di indipendenza

del professionista in maniera stringente, sia mediante la definizione del

concetto di «indipendenza», sia mediante la previsione di sanzioni penali

piuttosto severe per il nuovo delitto di «falso in attestazioni e

relazioni», previsto dal nuovo art. 236 bis della legge fallimentare, con le

aggravanti del danno per i creditori e dell’ingiusto profitto per sé od

altri.

La novella va apprezzata perché contribuisce ad assicurare una maggiore

trasparenza nelle operazioni in esame ed un miglior controllo da parte del

giudice.

Più in generale, fermo restando un giudizio complessivamente positivo sulla

nuova disciplina, possono essere svolte alcune considerazioni sugli aspetti più

problematici posti dalla novella, allo scopo di indicare alcuni possibili

correttivi.

Deve infatti considerarsi che, a fronte dell’ampliamento della tutela

preconcorsuale del debitore, si pone una corrispondente restrizione dei poteri

di tutela del credito dei singoli creditori, per cui il punto di equilibrio del

rapporto non può che essere dato dalla massimizzazione della razionalità della

decisione sul governo della crisi di impresa.

Mentre le singole iniziative dei creditori volte alla tutela di ciascuna

posizione isolatamente considerata introducono inevitabilmente un coefficiente

di irrazionalità nella gestione della crisi di impresa, un equilibrato governo

della decisione richiede un coordinamento delle iniziative dei creditori;

tuttavia qualora l’inibizione della iniziativa scoordinata dei creditori non

si dovesse accompagnare ad un razionale coordinamento, si avrebbe come risultato

un depotenziamento ingiustificato della tutela del credito.

Per queste ragioni sarebbe opportuno che la decisione sull’attivazione

dell’ombrello protettivo e sull’estensione di detta protezione fosse assunta

dal giudice in maniera discrezionale, previa valutazione delle variabili del

caso concreto; l’attuale formulazione dell’art. 161 comma 6 della legge

fallimentare, invece, prevede un vero e proprio automatismo, che non consente un

vaglio adeguato da parte del giudice, da calibrare sul singolo caso concreto e

rende quindi sostanzialmente rimessa alla scelta del debitore l’operatività

della protezione.

Altra criticità della normativa, rispetto alla condivisibile finalità sopra

descritta, è quella di non operare alcuna distinzione tra concordati di natura

liquidatoria e concordati cd. in continuità, essendo evidente che nella prima

ipotesi l’automatico sacrificio delle ragioni creditorie appare decisamente

meno giustificato; sarebbe perciò opportuno limitare la protezione alle sole

iniziative concordatarie finalizzate alla prosecuzione dell’attività di

impresa; inoltre sarebbe utile fissare alcuni essenziali criteri di

ammissibilità della istanza (quali almeno l’impostazione generale del piano e

la sua finalità liquidatoria o meno).

In mancanza di tali aggiustamenti della disciplina, si rischia un uso

strumentale - a soli fini dilatori - della nuova fattispecie da parte di imprese

già ampiamente insolventi e destinate a non più operare sul mercato; in altri

termini occorre evitare un irragionevole e ingiustificato incremento del ricorso

all’istituto del concordato preventivo, anche per le gravi ricadute che

potrebbero determinarsi sul piano organizzativo in seno agli uffici giudiziari,

con particolare riguardo al coordinamento di tale disciplina con quella delle

procedure prefallimentari già pendenti (di fatto congelabili per una durata

prorogabile addirittura per un semestre).

Tra le novità introdotte dal decreto in esame deve segnalarsi l’art. 182

quinquies, che detta disposizioni comuni ai concordati preventivi e agli accordi

di ristrutturazione del debito in tema di finanziamenti: secondo la nuova

disposizione della legge fallimentare, l’imprenditore può chiedere al

Tribunale (contestualmente al deposito della domanda di concordato o di omologa

ex art. 182 bis, primo o sesto comma) di essere autorizzato a «contrarre

finanziamenti»(anche «individuati soltanto per tipologia ed entità, e non

ancora oggetto di trattative»), che, se erogati, sono dichiarati

prededucibili. Tale autorizzazione può intervenire se il professionista

designato dal debitore, verificato «il complessivo fabbisogno finanziario

dell’impresa sino all’omologazione», attesta che tali finanziamenti sono

«funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori».

Sul punto deve osservarsi che indubbiamente l’intervento autorizzatorio del

giudice rappresenta un importante momento di garanzia dei creditori, rispetto

alla possibilità di nuovi crediti prededucibili derivanti dalla concessione del

finanziamento; va però anche evidenziato che la disciplina non detta dei

criteri che forniscano condizioni e limiti sufficientemente specifici (anche con

riferimento al finanziatore) ai fini di un adeguato esercizio del potere

autorizzativo, per cui il tribunale rischia di essere chiamato a compiere degli

apprezzamenti che attengono alla sfera squisitamente finanziaria.

Per concludere deve segnalarsi una incongruenza riguardante la durata massima

stabilita per le procedure fallimentari, fissata indicando lo stesso termine

complessivo previsto per i giudizi civili (sei anni), senza tener conto della

circostanza che in molti casi il fallimento costituisce origine ed occasione di

giudizi civili, i quali impediscono la sua definizione, sicchè non ha senso

indicare lo stesso termine per la procedura concorsuale e per i processi da essa

derivati, che dovrebbero invece rappresentare delle cause di sospensione del

termine di conclusione della prima.

Il Consiglio è ben consapevole della situazione emergenziale in cui il Paese si

trova a vivere ed in cui le più alte istituzioni si trovano ad operare.

In queste condizioni il Consiglio, nel prendere atto che il Governo e per esso

il Ministro della Giustizia prospetta nel provvedimento legislativo

significative e rilevanti modifiche che incidono sulla disciplina del processo

civile su punti nevralgici e rilevanti, non può omettere di rilevare che si

tratta dell’ennesimo tentativo di porre rimedio a problemi «cronici» del

sistema processuale italiano. »

Osserva, altresì, che l’efficienza del giudizio civile ed il rispetto del

principio della ragionevole durata del processo è obiettivo che, in primo

luogo, pretende la stessa magistratura e che il Consiglio, nel profondo rispetto

dei ruoli, chiede che la ricostruzione del giudizio civile nei suoi aspetti

incidenti sull’organizzazione degli uffici e sulla concreta attività dei

Dirigenti e dei singoli magistrati venga posta in discussione con un preventivo

coinvolgimento del Consiglio Superiore.

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia ai sensi

Dell’art. 10 legge 24 marzo 1958 n. 195.»