13/12/07 Ricordo del Prof. Pera
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La Facoltà giuridica pisana ricorda il 13 dicembre 2007, in Sapienza, il Prof. Giuseppe Pera, intervengono il Prof. Marco Goldoni, Preside della Facoltà, il Prof. Oronzo Mazzotta e i Proff.ri Alessandro Pizzorusso e Umberto Romagnoli. Sull'illustre giuslavorista tante sono state le testimonianze in occasione di incontri e commemorazioni.

Lettera ai processualisti pisani, in ricordo by Claudio Cecchella
Un ricordo by Riccardo Del Punta
Commemorazione in Corte, 2 ottobre 2007 by Marco Papaleoni
Ricordo di Giuseppe Pera (Ridl 2007) by Luigi Montuschi
Intervista a Giuseppe Pera (Ridl 2006,I,107 ss) by Pietro Ichino

Intervista a Giuseppe Pera (Ridl 2006,I,107 ss)

INTERVISTA A GIUSEPPE PERA

a cura di Pietro Ichino (*)

in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2006, I, 107 e ss.

Giuseppe Pera è nato il 9 dicembre 1928 a Lucca, dove ha compiuto gli studi classici per poi laurearsi nel 1952 in giurisprudenza all'Università di Pisa con una tesi di diritto sindacale comparato. Vinto il concorso per l'ingresso in magistratura nel 1955, è stato pretore a Firenze, poi a San Miniato dal 1956 al 1962, quindi giudice del Tribunale di Lucca fino al 1964. Nel frattempo aveva svolto l'incarico d'insegnamento di diritto del lavoro nella Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Pisa per l'anno 1961-'62 e nello stesso anno aveva conseguito la libera docenza. Nel 1964 ha lasciato la magistratura per diventare assistente ordinario presso la cattedra pisana di diritto del lavoro, di cui era allora titolare Luisa RIVA SANSEVERINO. Alla stessa cattedra è stato chiamato all'inizio dell'anno successivo, in seguito al trasferimento della Maestra a Milano. Dal 1966 al 1975 e dal 1979 al 1988 è stato membro del Direttivo e segretario dell'Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale. Dal 1985 è direttore della Rivista italiana di diritto del lavoro.

Parlaci prima di tutto delle tue origini contadine e dell'influenza che esse hanno avuto sul resto della tua vita.

Mio padre sbarcava il lunario con la terra, che possedeva e coltivava lui stesso, e col com-mercio delle bestie. A partire dal 1937, quando avevo undici anni, nei mesi estivi mio padre mi mise al lavoro come stalliere; periodicamente, per alcuni giorni mi toccava anche di lavorare nel campo come falciatore. Ero grande, grosso e robusto; quindi avevo le attitudini necessarie, anche se mio padre, alludendo alla mia pelle delicata, mi chiamava talora "ciccia frolla". Nell'estate del 1944, quando i tedeschi fecero sgombrare quasi tutto il paese, ebbi anche altre incombenze, da sagrestano; tra l'altro fui per diverse settimane campanaro. Da metà mattinata a metà pomeriggio, però, se non ero comandato al lavoro nel campo o altrove, ero libero e solo; passavo questo tempo a leggere tutto quanto mi capitava a tiro nella canonica dello zio prete.

Dicci che cosa leggevi.

Cose seriose, quelle che si trovano nella biblioteca di un prete. Ma mi interessavo voracemente di tutto; in ogni libro cercavo una finestra su di un grande mondo esterno di cui intuivo soltanto l’esistenza. Solo in un secondo tempo mi sono imbattuto in alcuni classici della letteratura infantile: Senza famiglia, Pinocchio e gli altri di Collodi; ma non conobbi i grandi romanzi per ragazzi di Verne e di Salgari; nelle mie letture non sono mai stato veramente un ragazzo. Lessi la Bibbia, nei sette volumi della traduzione di Martini, della metà dell’ottocento. Con l’accesso alla biblioteca governativa di Lucca, alla quale lo zio mi abbonò, sono venuti i grandi classici, che ho letto con passione. Anna Karenina l’ho letto tre volte.

Lo zio prete ha avuto grande importanza nella tua educazione.

Era il fratello di mio padre, parroco di San Cassiano di Controne, dove noi stavamo, da assai prima che io nascessi. Era un uomo profondamente buono, timido e schivo (alle rare cene a cui era invitato non toccava cibo, anche per scarsa dimestichezza con le posate, compensando poi con uno spuntino al ritorno in canonica); ma con forti interessi politici: era nettamente antifascista: scoprii che aveva a suo tempo trescato con il "pipì", il partito popolare; e un po' libero pensatore: nella sua biblioteca trovai le opere di Rosmini e diversi opuscoli modernisti. A differenza di mio padre, che del resto sapeva a stento leggere e scrivere, mio zio seppe capire e apprezzare la mia passione per la lettura e lo studio, e perdonare - o almeno non drammatizzare - certe mie giovanili intemperanze. Si era convinto dell'opportunità di farmi studiare, con l'idea di mandarmi poi alla Cattolica. Spesso ho avuto i brividi pensando a quello che mi poteva capitare se lo zio fosse vissuto più a lungo; invece morì nel 1945, quando io non avevo ancora finito il liceo ed ero appena agli inizi della mia militanza politica; così, data la tirchieria di mio padre, non corsi il pericolo di essere mandato all'ateneo di Gemelli. Anzi, se fosse stato per mio padre non avrei neppure proseguito gli studi dopo le elementari. Era stato proprio per superare la sua opposizione che nell'autunno 1939 mia madre, alleata con lo zio, mi aveva indotto a chiedere di poter andare in seminario; ed era stato per sventare questa scelta che mio padre aveva accettato di mandarmi al ginnasio, nel collegio dei salesiani a Livorno.

Fino a quando hai continuato a fare il contadino a part-time?

Il mio glorioso apprendistato contadino ebbe fine con l'abbandono di San Cassiano, nel set-tembre 1945 (anche se un servizio agricolo mi venne chiesto da mio padre ancora nell'agosto 1946: quest'ultimo incarico consistette nel portare una mucca, a piedi, da Massarosa a Montecarlo:circa trenta chilometri; e le mucche sono di una terribile lentezza). Avevo imparato assai bene, come allora si diceva, "quanto è bassa la terra"; ma anche a governare gli animali, a uccidere e scuoiare i conigli (non imparai mai, invece, a tirare il collo ai polli); mi era anche entrata in testa tutta l'operazione di preparazione per il funerale del maiale: se fossi rimasto ancora qualche anno forse sarei diventato an-che un buon norcino. Ma dalla mia infanzia e giovinezza contadine ho imparato anche tante altre co-se. Innanzitutto a contentarmi di tutto senza fare storie: in oltre trent'anni che sono all'università non mi è mai accaduto di chiedere una sola cosa per la mia stanza; tutto è come il giorno che vi entrai per la prima volta; solo a due cose non posso rinunciare: il sigaro toscano e i libri. Poi ho imparato a lavorare senza orario, come lavorano i contadini. Un collega avvocato mio ex-compagno di liceo mi ha ricordato che, all'epoca, quando mi aveva chiesto quante ore studiassi al giorno, gli avevo risposto: "sempre". Per me la domanda non aveva senso; ho sempre lavorato tutto il giorno, tolte le inevitabili ore del sonno e delle pause, come mio padre, o mia madre, che era impegnata dal primo albeggiare fino a tardi la sera.

Però non e 'è domenica che non ti veda a spasso per le colline della Lucchesia o per le Alpi Apuane.

Sì, ma solo dal 1975. E' stata proprio una svolta nella mia vita; ed è stata determinata da una vicenda che, per questo aspetto, ha cambiato la mia vita. Nel novembre 1974 ricevetti da un illustre giurista, assurto anche a cariche istituzionali di alto livello, una lettera che mi fece molto piacere: di-ceva un gran bene dei miei scritti, esprimendo il desiderio di conoscermi se avessi avuto occasione di andarlo a trovare quando capitavo a Roma. Era come se Benedetto CROCE avesse scritto una lettera laudativa al professore di un liceo di provincia. Risposi, doverosamente ringraziando e aggiungendo che cercavo di andare il meno possibile a Roma, città a me odiosa per il traffico frenetico e il caos; poi, però, dopo qualche settimana il caso volle che dovessi recarmici per un impegno professionale: telefonai quindi al Maestro e venni da lui ricevuto. Per mezz'ora parlammo dei più gravi problemi della crisi della società e dello Stato; dopo di che mi consegnò un pacchetto di pubblicazioni dicen-domi (a me allora purtroppo commissario per un concorso a cattedra): "le consegno i titoli del prof. X, candidato al concorso, nel che è implicita la mia stima". Mi sentii preso per i fondelli; profonda-mente offeso, anche perché costui, non bisognoso di ghirigori data l'autorevolezza, avrebbe potuto scrivermi dicendomi subito quel che gli premeva (io sono abituato a fare così: lettere telegrafiche, stile LONGANESI, dicendo subito brutalmente quanto mi sta a cuore, facendo seguire e non premet-tendo i convenevoli d'uso). Dieci minuti dopo ero per strada e, folgorato come S. Paolo sulla via di Damasco, dissi a me stesso e giurai: "se è così, d'ora innanzi non faccio più il fesso e la domenica vado a giro". Ho mantenuto la promessa. La domenica resto a casa soltanto se piove a dirotto, altri-menti mi sfogo nelle lunghe camminate liberatrici con gli amici. Non c'è importante questione di di-ritto che me ne trattenga.

Chi era il Maestro?

Non faccio nomi, per la pietà che si deve ai morti. Il nome è in altre pagine, che da circa ven-ticinque anni scrivo per mio sfogo e che i miei eredi potranno rendere note a debita distanza dalla mia morte.

Veniamo al tuo impegno politico.

Fin da piccolo avevo nel sangue l'avversione all'autoritarismo imperante. In verità, tutti at-torno a me erano contro il regime e i pochi autentici fascisti erano bene individuati; i lucchesi sono irrimediabilmente borghesi, individualisti, tesi esclusivamente al loro particulare; cittadini già per secoli di una libera repubblica che non conosceva il servizio militare obbligatorio, erano istintivamente contro lo Stato e le sue imposizioni. Dunque, per un verso sentivo viva l'aspirazione a vivere in un ambiente in cui nessuno avesse ragione in partenza. Per altro verso, però, negli anni della guerra sen-tivo il motivo della nazione in armi e non digerivo il disfattismo diffuso. Così, nell'inverno del 1942 i miei mi colsero che stavo scrivendo, su carta protocollo, un lungo memoriale al duce per prospet-targli la necessità di cambiare registro e instaurare un regime diverso. Cercarono di farmi desistere. Confesso, a mia grande vergogna, che mi feci corrompere in cambio di cinque lire: una somma allora notevole. Poi, la fuga del re dopo l'8 settembre valse a farmi definitivamente repubblicano. Nel-l'autunno 1944, a Lucca mi avvicinai con interesse alla vicenda politica: con il magro peculio com-pravo giornali e opuscoli (ne conservo uno che raccoglieva i programmi dei 25 partiti formalmente costituiti), presi a frequentare combriccole diverse per sapere qualche cosa di più e ad andare a sentire chiunque parlasse (nel primo periodo al chiuso, per la proibizione alleata di comizi pubblici).

Ti sentivi già "di sinistra "?

Era ineluttabile che andassi a sinistra: reagivo all'aridità, alla grettezza spaventosa del mondo in cui ero nato e vissuto fino ad allora: il mondo dell'interesse personale nudo e crudo, in cui si contendeva all'altro anche una lira, dove per una spanna di terreno, per il minimo sconfinamento, si litigava a morte. Il mio animo era portato, soprattutto, a un sentimento che ancora, in altro contesto, conservo (non ci sono mai rotture radicali nella vita): quello del disprezzo del denaro come simbolo della lotta senza quartiere di tutti contro tutti. Aridità e grettezza me le ritrovo oggi, a piene mani, nella stagione del benessere generale; è mutata la stratificazione sociale, i beni della vita a disposizio-ne sono cresciuti, ma si litiga ora come allora; nella predisposizione degli animi, in definitiva, niente è cambiato e forse niente mai cambierà (anche per questo non sono più socialista). Alla mia scelta so-cialista di allora contribuì poi anche la miscredenza religiosa e la conseguente collocazione anticleri-cale: avevo di fronte la Chiesa lugubre e misogina di quel tempo, con il suo oscurantismo culturale, le interminabili preghiere ripetitive del rosario, il lutto protratto per i suffragi. C'era un partito che tentava la sintesi di tutti i valori apprezzabili di Giustizia e Libertà; così, all'inizio dell'estate del 1945, presi la tessera del Partito d'Azione nascondendo la cosa ai miei. Fui un militante acceso, tanto da farmi notare subito nell'ambiente, specie studentesco. Il P.d'A. fu, nel complesso, un aggregato babelico di persone politicamente nulle; se avessero avuto un minimo di buon senso sarebbero con-fluite subito nel partito socialista, che aveva una tradizione saldamente radicata nel popolo e che ri-chiamava, quindi, milioni di persone e di voti. Con le nostre magnifiche liste, in gran parte coincidenti con l'annuario universitario di dieci anni dopo, mandammo a stento alla Costituente sette deputati, solo perché allora la legge elettorale consentiva l'utilizzazione dei nostri trecentomila voti sparsi su tutto il territorio nazionale. Dopo la fase della disgregazione del P.d'A., nel 1946, nell'autunno del 1947 confluii con i suoi resti nel partito di NENNI e poco dopo divenni segretario del Fronte popolare.

Giusto in tempo per la grande sconfitta.

La sconfitta del 18 aprile 1948 fu insieme provvidenziale e cocente; provvidenziale perché evitò ai cittadini di questo paese il più ignobile regime politico dell'età contemporanea, quello di cui abbiamo assistito in questi anni all'inglorioso disfacimento nei Paesi dell'est europeo; cocente, perché era largamente diffusa nella base popolare la convinzione della vittoria contro la destra. Ma la mia crisi non ebbe inizio allora, bensì qualche tempo dopo, in conseguenza della scomunica di TITO da parte del Cominform: non riuscivo a convincermi che il regime yugoslavo, definito fino a poco prima come la democrazia popolare più avanzata, fosse d'improvviso diventato un regime di traditori. All'incirca in quell'epoca, nel 1950, incominciai a lavorare alla tesi di laurea (una panoramica mera-mente descrittiva della situazione sindacale e del diritto sindacale in diversi Paesi e in diverse stagio-ni); dovendo scrivere un capitolo anche sulla situazione sovietica, lessi molto su quella storia e su quell'esperienza; e giunsi alla conclusione della dittatura sul proletariato. Mi stavo liberando pian piano dalla "chiesa". Ma fu un periodo spirituale terribile: delle atroci sofferenze interiori e delle spinte contraddittorie che provavo ora sorrido; oggi, ripetendosi vicende analoghe, non soffrirei allo stesso modo: ormai ho acquisito piena libertà spirituale, sono pronto a mandare al diavolo d'un sol tratto tutti e tutto, solo che ne sia convinto. Il fatto è che non riuscivo a non sentirmi ancora "da quella parte", dalla parte del popolo contro i ceti dominanti. Immagino identico il dramma di chi, nelle varie chiese, si accinge a gettare la tonaca alle ortiche: anche perché, quando c'è una fede co-mune, mille sono le vie per incutere nell'errante il sentimento del peccato. Non era una questione politica qualunque, c'era un sottofondo di tipo religioso; ma proprio per questo, non si trattava semplicemente di andarsene; non volevo fuggire; ritenevo doveroso fare qualche cosa per cercare di far cambiare rotta al partito. Non volevo affatto capitolare, ma battermi ancora per il socialismo. E poi c'era il senso di colpa per avere contribuito alle mistificazioni della propaganda di partito e la volontà di fare qualche cosa per riscattarmi. Per questo occorreva attendere il congresso nazionale, dove presentare una mozione in termini statutariamente ineccepibili; nel frattempo occorreva non tradirsi per non essere espulso subito, tenere un comportamento in linea con il partito, che in quella stagione, con MORANDI, stava scimmiottando la bolscevizzazione interna e il costume esteriore del fratello maggiore. Volevo consumare il sacrificio con una certa solennità. Invece il caso fece sì che arrivassi all'appuntamento, nell'autunno del 1952, in un collegamento cospirativo, interno ed esterno al partito, in modi che provocarono la mia espulsione ancor prima che potessi aprire bocca nella sede congressuale in cui mi ero proposto di farlo ( ). Ma questa è una storia che ho già raccontato altrove.

Poi?

Seguirono tre anni di vita politicamente grama, isolati come eravamo. Ma per me feconda. Studiai quello che era stato scritto sui comunisti iugoslavi e scrissi un articolo che venne pubblicato nel Mulino, che mi avrebbe dato qualche soddisfazione, quando nel gennaio 1954 scoppiò il caso GILAS: io avevo notato in quell’articolo le punte estreme, decisamente antitotalitarie, di questo uomo politico, al quale va ancora oggi tutta la mia ammirazione; è uno dei pochi politici che, giunto al vertice, cambia idea, ma ritiene la sua persona ormai impegnata di fronte alla sua gente per la vecchia idea, quindi si suicida. Nel 1955 entrai in magistratura e mi dimisi dal partito: ritenevo che quell’ufficio pubblico non consentisse alcun vincolo di appartenenza organica a un partito. A quell’epoca, del resto, la cosa era ovvia per tutti. Da magistrato mi astenni da qualsiasi impegno politico diretto e feci di tutto perché nessuno di quelli che mettevano piede nel mio ufficio sapesse del mio orientamento; ritenevo e tuttora ritengo che il cittadino abbia diritto a comparire davanti a un magistrato non solo sostanzialmente ma anche formalmente svincolato da qualsiasi fedeltà precostituita. Quando, vent’anni più tardi, un magistrato mi ha obiettato che tutto ha un valore politico, anche nella questione giuridica più apparentemente neutra, gli ho risposto che questo è un motivo in più per rispettare quella regola: proprio perché tutto può avere un’implicazione politica, il cittadino ha il diritto di comparire davanti a un magistrato di cui si possa pensare che è davvero libero e disponibile a convincersi, attraverso il processo, di qualsiasi tesi. Anche per questo, quando – raramente – scrivevo sul Mulino, sul Ponte o su Critica sociale, lo facevo con lo pseudonimo Arturo ANDREI.

Ora, però, ce lo puoi dire: per chi votavi?

Alle amministrative del 1956 non mi fidavo troppo della troppo rapida conversione del p.s.i. Per cercare di sciogliere i dubbi andai una sera a sentire Pietro NENNI in Piazza Signoria; e ne uscii ancora più incerto: nei punti cruciali il vecchio trombone romagnolo usava sempre un argomento pessimo per il mio palato: “ma noi siamo più forti delle critiche”. Per me che sono spiritualmente indotto da sempre a essere solitario nell’opposizione della ragione, l’argomento era solo controproducente. Entrai nel seggio che ero ancora incerto; ricordo che l’avevano insediato nel mio vecchio liceo Machiavelli, proprio nell’aula dove, ai primi di febbraio 1945, avevo frequentato la prima. Rimasi nella cabina per un tempo terribilmente lungo, fino all’imbarazzo; a un certo punto ero tutto sudato; come votare proprio per il p.s.i.? ma, d’altro canto, come passare al detestato fronte “moderato”? alla fine, con rabbia, tracciai la croce sul simbolo del partito socialdemocratico; e fu come una liberazione: avevo avuto il coraggio di andare fino in fondo.

E alle politiche del 1958?

Votai per la lista radicale-repubblicana. Poi, in diverse occasioni successive, nel clima di attesa e di fiducia per il centro-sinistra, votai per i socialisti, evitando i personaggi sicuramente votati all’estremismo. Verso la metà degli anni ’60 scrissi su Critica Sociale dicendomi perplesso sul modo in cui andava svolgendosi il matrimonio tra democristiani e socialisti. Avrei voluto, da sinistra, una politica di riforme più organiche e incisive. Non potevo proprio digerire lo stile Moro. Quest’uomo, con i suoi frasari incomprensibili e il suo temporeggiare per non fare scelte nette era l’esatto contrario del mio modello ideale. Non mi commossi neppure per l’unificazione socialista del 1966 e non presi la tessera, che pure avrei potuto prendere, avendo lasciato la magistratura nel 1964.

Siamo arrivati così alla stagione della contestazione.

Nelle elezioni del 1968 il mio voto fu, per protesta contro la moda dilagante, per il partito liberale; ma la considerai come una scelta occasionale, perché mi collocavo ancora ideologicamente nell’area socialista. Invece quella reazione alla contestazione era destinata a incidere profondamente nella mia vicenda spirituale: in un certo senso, mi consentì di riscoprire, vorrei dire storiograficamente, le radici del fascismo. Nel ’68 e negli anni seguenti compresi come, nella situazione del primo dopoguerra, a rivoluzione sempre minacciata e non fatta, i ceti offesi potessero fare ricorso alla violenza della controrivoluzione preventiva. Anche Mario TOBINO, l’autore alquanto retorico del Clandestino, ebbe quella stessa reazione davanti a quei fatti. Fu così che incominciò la mia stagione liberale.

Ma anche questa senza grandi certezze, a giudicare dai tuoi scritti degli anni ’70 e ’80.

Il fatto è che, pur con tutto lo sviluppo delle scienze sociali, niente sappiamo sulle leggi intime dell’animale uomo. Forse ogni faccia del suo essere è inevitabile. E forse la sua intelligenza modificativa sussiste solo in quanto egli è, in natura, la più feroce delle bestie. Si dice che il leone sazio sia innocuo; l’uomo mai perché, oltre allo stomaco, ha sentimenti innati di aggressività, razionalizzati e proiettati nella corsa al possibile appagamento, quanto meno in termini di potere, di dominio, di sopraffazione possibile dell’altro e di difesa dalla possibile sopraffazione propria da parte dell’altro. È difficile immaginare che possa liberarsi da questa legge del suo essere. Il terrore reciproco può solo un poco contenerlo. Insomma, mi convinsi che il socialismo è essenzialmente inumano, nel senso che è impossibile agli umani, stante la loro natura. Così, dopo il ’68 e l’autunno caldo del ’69, nella ricerca di un partito autenticamente democratico, capace di dire no, ritenni, forse a torto, di approdare al partito liberale. Ma, come hai detto, senza certezze.

Oggi come ti definiresti, dal punto di vista politico?

Non lo so. Lascio ad altri il compito. La sola cosa che mi è rimasta è l’utopia rosselliana di conciliare libertà e giustizia. Un altro mio modo d’essere che è rimasto costante: sono un gradualista; non solo nella accezione classica della contrapposizione, nell’ambito del movimento socialista, tra riformisti e massimalisti, ma in un senso più vasto: occorre sempre evitare i passaggi eccessivamente traumatici. Nel 1989, quando vidi alla televisione le immagini della caduta del Muro, piansi convinto che stava accadendo tutto quello che avevamo sempre sognato. Ma a cinque anni di distanza vediamo che il venir meno dell’equilibrio del terrore tra Est e Ovest lascia il mondo ancora più incerto di prima. Guardando alla vicenda che ha portato alla disgregazione dell’Unione sovietica, sono indotto a pensare che forse è più saggia la via dei cinesi; quando si deve dare da mangiare a oltre un miliardo di persone, può essere necessario combinare totalitarismo politico e liberismo economico.

E la tua posizione politica nell’Italia del 1994?

Qui da noi ora è la destra a rialzare la testa e da qualche anno sta tornando più forte la parte padronale. L’oscillazione del pendolo è ancora una volta eccessiva. Avremo mai un equilibrio stabile ed equo in questo dissennato Paese?

Torniamo al Pera giurista e all’inizio della tua “carriera” come tale. Hai parlato della tua tesi di laurea, ma non hai detto come ci sei arrivato. Innanzitutto: perché avevi scelto la Facoltà di Giurisprudenza?

La scelta della facoltà, nel 1947, era stata dettata soltanto da ragioni opportunistiche: non avendo un concetto molto elevato di me stesso e non pensando quindi di poter aspirare al lavoro universitario, la professione forense mi appariva come quella a cui avrei potuto accedere con maggiore facilità e che meglio mi avrebbe consentito di coltivare i miei interessi politici, allora di gran lunga prevalenti; ma all'inizio non nutrivo alcuna particolare passione per le materie giuridiche: i miei interessi più vivi sarebbero stati semmai per gli studi storici. Poi, nel 1949 mi era stato offerto di di-ventare segretario della Camera del lavoro di Lecco; se avessi accettato, la mia crisi politica (che al-lora era soltanto all'inizio) non avrebbe potuto avere sbocchi, avrei dovuto rimanere legato a quel carro per prosaiche ragioni alimentari. Avevo rifiutato quella proposta, anche per non lasciare Lucca; ma la cosa poi mi fece riflettere: mi resi conto che la condizione della libertà personale è di avere un mestiere proprio, evitando di dover dipendere da qualsiasi apparato politico. Occorreva dunque che mi laureassi al più presto e bene. Piero CALAMANDREI mi disse un giorno, con chiara allusione a un suo noto dramma familiare, che "primo dovere di un giovane è quello di farsi una posizione", cioè di porsi in grado di reggersi economicamente sulle proprie gambe. Per questo, all'inizio del quart'anno, nell'autunno del 1950, io che non avevo mai frequentato gran che le lezioni anteponendovi gli impegni politici, mi misi a fare sul serio.

Vuoi dire che fino a quel momento avevi studiato male le materie giuridiche?

Male no; ma non me ne ero lasciato coinvolgere più che tanto. Invece seguii dalla prima all'ultima parola il corso di procedura civile del professor ANDRIOLI. Fu un incontro entusiasmante, mirabile perché avveniva con una delle materie apparentemente più aride nell’universo giuridico. Questo professore aveva una nota predominante: l’entusiasmo, la passione nella continua tensione di riuscire a piegare il processo alla realizzazione dei valori della giustizia. Si trattava di un professore avvocato, magna pars di una rivista prevalentemente giurisprudenziale come il Foro italiano. Quindi c’era poca dommatica astratta. Al contrario, dominava la concretezza della giurisprudenza nelle sue spaccature e contorsioni. Oltre le lezioni, vi erano le esercitazioni per alcune ore la settimana. Nel corso dell’anno assegnava tre o quattro temi scritti. Grosso modo la traccia era questa: Tizio promuove la causa e chiede...; il convenuto Caio si costituisce sostenendo che...; interviene Sempronio e asserisce che...; scrivete la comparsa conclusionale o per Tizio o per Caio o per Sempronio. Dopo qualche settimana consegnavamo (solo chi voleva: queste dissertazioni non recavano alcun vantaggio formalizzato per l’esame; contava di fatto nella nostra preparazione). infine un intero pomeriggio veniva dedicato alla discussione: venivano chiamati a riferire, per le varie parti, quelli che erano risultati ad avviso del professore migliori nello scritto. Seguiva la discussione generale ed infine parlava lui solo, esponendo il suo parere sulla questione. Conservo questi temi. Ci addestravamo così alla concretezza dell’esperienza giuridica. Era un grandissimo maestro, che sapeva dare vita, attraverso la procedura, a tutta l'esperienza giuridica. Ovunque sia stato, ANDRIOLI ha sempre attratto gli studenti più impegnati, quale che sia stata poi la loro collocazione definitiva negli studi. Poiché lui non indicava alcun libro di testo, e agli esami era un noto "stragista", presi sistematicamente appunti, con qualche beneficio della comunità scolastica e un poco anche del mio portafoglio, allora assai sguarnito.

Però poi scegliesti il diritto del lavoro per la tesi di laurea.

Questa era una scelta pressoché naturale per un militante socialista; la mia fortuna fu che sulla cattedra di diritto del lavoro ci fosse una persona aperta e liberale come la signora RIVA SANSEVERINO.

Direi che la tua fortuna fu, prima ancora, che nella tua facoltà ci fosse una cattedra di di-ritto del lavoro.

Si, certo; nel 1944-'45 c'era stata una forte spinta per la soppressione della materia, che era nata, come materia di insegnamento universitario, con il regime corporativo. Ricordo che, quando molto più tardi MANCINI si lamentava per il secondo tomo della sua monografia in tema di recesso, che non poteva essere pubblicato perché "bruciato" dalla legge del 1966 sui licenziamenti individuali, PROSPERETTI diceva: "e noi che cosa avremmo dovuto dire nel 1944, quando volevano abolirci l'intera materia?". Perché venisse bandito un concorso a cattedre di diritto del lavoro si dovette at-tendere fino al 1951; e pensa che quel concorso andò in bianco, non vinse nessuno (se non ricordo male c'era GRASSETTI in commissione). Tant'è vero che PROSPERETTI ebbe la cattedra più tardi, nel 1953 o '54, e non in un concorso di diritto del lavoro, ma in un concorso di diritto pubblico, che vinse con un libro sull'elettorato. Il primo nostro concorso vero fu quello del 1956, che fu vinto da CORRADO, CARULLO e ARDAU. Il grande sconfitto (perché in quasi tutti i nostri concorsi, fino a che sono stati concorsi seri, c'è sempre stato un grande escluso e uno che entrava senza meritarlo) fu allora GUIDOTTI, che aveva il libro sulla retribuzione. Poi, altri sei anni senza concorsi, fino al 1962. Questo dà la misura di quanto il diritto del lavoro fosse debole in quegli anni.

E infatti GIUGNI e MANCINI nei primi anni '50 ti invidiavano per il tuo rapporto con la professoressa RIVA SANSEVERINO, allora una tra i pochissimi giuslavoristi in cattedra. ( )

Fatto sta che al quart'anno frequentai assiduamente anche il suo corso. Durante la lezione lei spesso sollecitava i nostri interventi, chiedeva le nostre opinioni; ricordo che una volta, essendo io intervenuto in tema di sciopero politico usando la prima persona plurale: "noi... noi...", lei mi chie-se: "ma 'voi' chi?"; io risposi: "noi marxisti!". Lei sorrise. L'episodio non impedì che poi mi asse-gnasse la tesi, apprezzandone alla fine il risultato anche al di là del suo valore effettivo. Il lavoro era stato lungo e tormentato e ne era uscito un opus magnum di ottocento pagine; oggi posso dire che non valevano gran che, anche se il materiale raccolto era davvero tanto e io ne trassi conoscenze che mi sarebbero servite in seguito. Nella parte sul diritto sindacale italiano c'era già in nuce il discorso sull'art. 39 della Costituzione che avrei poi riproposto, debitamente rimeditato e riveduto, nel libro del '60 per la libera docenza. Mandai poi la tesi a CALAMANDREI, che stava al Poveromo ( ); dopo un po' lui mi chiamò e mi disse "È una tesi interessante, ... ma è una schifezza; come il mio primo lavoro sulla chiamata in garanzia, che il mio maestro volle farmi pubblicare a tutti i costi: era una schifezza anche quello". Fatto sta, però, che poco dopo la Signora RIVA SANSEVERINO mi propose, e ne fui felice, di diventare suo assistente volontario (cioè – come era ovvio - senza una lira di stipendio: allora gli assistenti ordinari, retribuiti, erano una specie quasi sconosciuta: l’unico era VERRUCOLI a commerciale). Poi fui per due anni assistente straordinario, figura prevista in una leggina del tempo, col trattamento di lire 15.000.

Ma mantenesti i rapporti con ANDRIOLI.

Non era difficile, poiché era molto legato alla Signora RIVA. Qualche tempo prima della laurea mi cercò per affidarmi, nella rassegna di giurisprudenza che stava preparando per Giuffré, gli articoli da 51 a 68 del codice di procedura civile. Rimasi imbarazzato e ricordo nitidamente di essere divenuto tutto rosso, come mi accadeva. Mi trattò ruvidamente con dure parole, imponendomi semplicemente di fare. Provvidi anche per l’indice analitico generale e lui nella premessa riservò alcune righe per il giovane PERA. Poi, dopo la laurea, incominciò ad assegnarmi sentenze per il Foro o per la Rivista di diritto processuale della Cedam (notai il tono di deferenza per il prof. LIEBMAN; allora le gerarchie, anche di pochi anni, erano rispettate; oggi il primo moccioso si comporta alla pari con l’anziano). Una volta mi parve che mi dicess piuttosto chiaramente che avrebbe voluto strapparmi al diritto del lavoro; io lasciai cadere in silenzio, perché, per quanto amassi la procedura insegnata da lui, non intendevo lasciare, anche per orientamento etico-sociale, il mio primo amore. Una volta lavorai diversi mesi a una nota di processuale. Gliela portai un mercoledì, giorno della sua partenza per Roma, e osai chiedergli di farmi sapere presto con una cartolina postale se il lavoro andava bene. Passavano le settimane e il cenno non giungeva; dal che dedussi che sicuramente era andata male. Così per un lungo periodo cercai di evitarlo, tenendomi lontano dai luoghi della sua frequentazione. Una mattina, salendo le scale che portavano al Seminario giuridico, lo scontro fu frontale. Lo seguii nel cortile e cominciò a parlare a lungo delle più diverse cose. Io non dicevo verbo su quella nota. Dopo una mezz’oretta mi disse: “a proposito, quella nota è ottima e l’ho mandata subito in tipografia; non ti ho scritto perché spesso i giovani mettono gallo a questi elogi”. Confesso che lo avrei preso volentieri a pugni.

È all’incirca di questo periodo anche il tuo primo incontro con GIUGNI e MANCINI.

Li conobbi nella primavera del 1953 al convegno di Firenze sul progetto di legge RUBINACCI, per l'attuazione dell'art. 39 della Costituzione. Io stetti al convegno solo per un giorno; la sera tardi andai a Milano, dove si teneva il congresso costitutivo dell'Unione Socialista Indipendente, cioè del partito dei "magnacucchi" (della cui direzione nazionale entrai allora a far parte). Ricordo che a Firenze GIUGNI e MANCINI furono cordialissimi con me; la sera c'era un ricevimento e GIUGNI mi prestò una cravatta perché potessi parteciparvi.

Entrambi oggi riconoscono che, attraverso di te, cercavano un contatto con la tua Maestra.

All'epoca i professori di diritto del lavoro erano pochissimi: la RIVA a Pisa, MAZZONI a Firenze, BALZARINI a Trieste, D'EUFEMIA a Napoli. Poi c'erano i civilisti occasionalmente prestati al diritto del lavoro: accadeva in genere che, per poter essere chiamati inizialmente in una facoltà dove le cattedre di civile e privato erano già coperte, si facevano chiamare per diritto del lavoro; la cosa andò così per GRASSETTI a Milano e per NATOLI a Messina. Ora, io ero l'assistente di uno di quei pochissimi. Al di là di qualsiasi mio merito personale - che comunque all'inizio GIUGNI e MANCINI non avrebbero potuto conoscere - questa fortuna mi rendeva particolarmente interessante ai loro occhi. E li accontentai, organizzando per loro nel '54 a Roma un incontro con la signora RIVA, nella sua casa paterna di via Po.

Poi, tra te e GIUGNI si stabili una grande amicizia.

Sì: vera e profonda amicizia; e anche collaborazione. Qualche tempo dopo l'incontro di Fi-renze si fece vivo con me perché era stato incaricato di fare da segretario a una specie di centro studi attivato dalla Olivetti e aveva pensato di dividere con me l'incarico, anche per farmi guadagnare qualche soldo (allora ne circolavano davvero pochi). Io accettai; così fui a Roma dal gennaio al lu-glio del 1954. Noi facevamo una o due volte alla settimana una conferenza, con la partecipazione di alcuni grossi personaggi - c'erano Leopoldo ELIA, di cui diventai allora amico, Claudio NAPOLEONI, [nome?] ARNALDI, Costantino MORTATI, Massimo Severo GIANNINI, [nome?] STEVE, che fece un vero e proprio corso sul sistema tributario, e tanti altri - e il mio compito era di trascrivere gli interventi, che poi dovevano essere riletti dall'autore e distribuiti agli altri partecipanti. Mi ricordo che GIUGNI fu molto orgoglioso quando ci giunse una lettera di JEMOLO, che diceva di non avere mai letto resoconti fatti così bene. Per questo lavoro mi davano cinquantamila lire al mese, che si aggiungevano alle quindicimila che prendevo dall'Università come assistente volontario.

Fu ancora GIUGNI a introdurti alla Scuola Cisl di Firenze.

Sì; e la cosa andò poi avanti fino al 1961. Ma mentre fra lui e la Cisl c'era una profonda immedesimazione ideologica, io ci andavo soprattutto perché era un'occasione di guadagno. Era un ambiente di sindacalisti, quindi lo frequentavo volentieri; ma io ero, allora come oggi, un trentanovi-sta, mentre la Cisl dell'art. 39 della Costituzione non voleva sentir parlare. Che non ci fosse una grande corrispondenza ideologica tra me e la Cisl di allora è dimostrato anche dal fatto che il mio libro sul diritto sindacale venne ferocemente stroncato sulla rivista della Cisl dal professor SABA, che era il direttore della Scuola. Era una confederazione minoritaria; il meccanismo previsto dall'art. 39, se fosse stato attuato, avrebbe sancito formalmente questo dato, assegnando alla Cgil il comando delle operazioni contrattuali.

Del tuo "trentanovismo" parleremo più avanti. Per tornare agli anni '50, come fu che, invece di darti al lavoro forense, secondo i progetti originari, ti indirizzasti alla magistratura?

Avevo un rapporto filiale con la signora RIVA SANSEVERINO (ero orfano di madre: ora mi accorgo che la consideravo come una madre); e anche con ANDRIOLI. Allora nella facoltà pisana c'erano i pisani, i cosiddetti "residenziali" (come MOSSA e FUNAIOLI) e poi i romani, che erano tanti; i pisani erano i vecchi, gli anchilosati, mentre i romani erano i giovani, i dinamici; la Signora e ANDRIOLI appartenevano a questo secondo gruppo. Io, che sono timido e ho un modesto concetto di me (non sarei, dunque, mai stato un buon curatore dei miei interessi accademici), ho avuto questa fortuna: di non aver dovuto far nulla per la mia carriera: hanno sempre fatto tutto loro. Fatto sta che un giorno, nel 1953, quando io ero ancora assistente volontario, ANDRIOLI e RIVA mi chiamarono - c'era con loro anche PIERANDREI, il maestro di PIZZORUSSO, un altro “non residenziale” - e mi dissero che per il momento non c'erano grandi possibilità di inserimento in Università, che facessi quindi il concorso per entrare in magistratura. E io, che allora ero un po' perdigiorno e non riuscivo ad affrontare di petto il problema del che fare di me stesso, seguii la loro indicazione. Vinsi il concorso, arrivando quarto su circa 150 concorrenti, e presi servizio nel luglio del '55. Avrei potuto scegliere di fare l'uditorato a Lucca, ma fu ancora ANDRIOLI a dire di no, che andassi invece a Firenze, dove era presidente del Tribunale PETROCELLI e c'era anche CAPACCIOLI (che sarebbe diventato poi professore di diritto amministrativo). Naturalmente ubbidii; e feci bene, perché fu per me una grande scuola: sei mesi di uditorato al civile, tre mesi al penale (dove feci tra l'altro il processo MORANINO in assise), tre all'esecuzione penale e civile; poi per un anno sono stato pretore, sempre a Firenze. Era tutto un ambiente giudiziale di eccezionale valore: ricordo le vere e proprie lezioni di procedura che mi impartiva anche un cancelliere, il dott. FABBRI. Dopo l'esame di "aggiunto", che all'epoca era obbligatorio per la conferma, per sei anni sono stato pretore a San Miniato, dove ho fatto di tutto, civile e penale.

Molti attribuiscono a questa tua esperienza di magistrato la peculiare attenzione al concreto, al diritto vivente, e il rifuggire dalle costruzioni dogmatiche astratte, che caratterizzeranno poi tutto il tuo contributo teorico al diritto del lavoro.

Certo, quegli anni passati, per così dire, in prima linea hanno influito molto sulla mia forma-zione giuridica; ma influì anche l'insegnamento della signora RIVA SANSEVERINO, il suo modo di impostare il discorso giuridico, nel quale non c'era mai nulla di astratto e tanto meno di astruso. Anche lei, del resto, veniva da uffici operativi - soprattutto la Confindustria, dove aveva lavorato con BALELLA - più che dallo studio puro; aveva sempre ben presente la dimensione sociale ed econo-mica dei problemi. Il suo, del resto, è stato per me anche un grande insegnamento morale. Una volta mi disse, evidentemente esagerando, che ANDRIOLI stravedeva per me e avrebbe fatto anche "carte false" per difendermi, ma aggiunse: "anch'io le voglio bene, però carte false non ne farei mai". E in-fatti in un'altra occasione mi raccontò che, per la libera docenza di SMURAGLIA, essendo la com-missione presieduta da BALZARINI, noto ex-fascista, con il conseguente rischio di discriminazione per la aperta militanza comunista del candidato, Ugo NATOLI andò a piatire a casa sua; "io - mi disse la RIVA, che pure apprezzava e difendeva SMURAGLIA - non lo avrei mai fatto".

Da magistrato, comunque, hai mantenuto il legame con l'università.

Sì, ho sempre conservato quella posizione iniziale di assistente volontario, che allora, come del resto ancor oggi, consentiva di continuare a frequentare l'università e proseguire nello studio, se si era disposti a farlo quasi gratuitamente. E furono ancora la signora RIVA e ANDRIOLI, quando ero magistrato, a sollecitarmi a completare e pubblicare il saggio per la libera docenza: i Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano. La Signora era così tranquilla circa il fatto che avrei superato l'esame, che se ne fece garante con VERRUCOLI nel 1961, quando si trattò di assegnarmi l'incarico di diritto del lavoro nella facoltà di Economia e Commercio, fino ad allora coperto da lei. Io invece ne ero così poco convinto, che mi presentai alla commissione per la discussione dei titoli, nel maggio 1962, in stato comatoso; se ne accorse, e mi tranquillizzò con molta finezza, il solo Francesco SANTORO PASSARELLI, che la presiedeva (gli altri membri erano MAZZONI, FALZEA, CARULLO e DI MARCANTONIO). Candidati con me erano anche Giorgio BRANCA e Mattia PERSIANI, che fece una splendida lezione sull'interpretazione del contratto collettivo recepito in decreto delegato. Io feci invece una lezione sulla commissione interna. Ero ospite della signora RIVA, come sempre quando andavo a Roma. Ricordo che proprio negli stessi giorni si svolgeva anche il giudizio di ordinariato che riguardava ARDAU e CARULLO, nel quale era in commissione, con SANTORO PASSARELLI, anche la Signora. La commissione aveva deciso di dare la libera docenza ad ARDAU, ma con una relazione fortemente critica; accadde così che la Signora mi facesse leggere la bozza di relazione che lei stessa aveva steso per incarico della commissione. Avendole io detto che mi sembrava troppo dura, la riscrisse in termini molto più morbidi; ma la commissione volle correggerla in senso più severo. ARDAU se ne offese e nella prefazione a un suo libro polemizzò con la RIVA; non sapeva che il testo proposto da lei in commissione era assai più benevolo di quello voluto dagli altri commissari!

Dall'episodio della tua libera docenza che hai raccontato prima esce un'immagine inedita di Francesco SANTORO PASARELLI.

Sì; in quell'occasione io capii che quell'uomo, che tutti consideravano gelido e impenetrabile (ASCARELLI diceva di lui - utilizzando un'espressione che ho poi scoperto essere di VOLTAIRE - che "portava la testa come un Santissimo"), era in realtà pieno di umanità: ciò che in seguito constatai pure in diverse altre occasioni. Anche i più vicini a lui lamentavano questa sua apparente impassibilità. PERSIANI, suo allievo, con cui ero molto in confidenza, una volta mi disse: "In fin dei conti, SANTORO che cosa ha fatto per me? Il primo libro, sulla previdenza sociale, non gli piacque perché il tema della previdenza era considerato secondario. Il secondo, su Contratto di lavoro e organizzazione, me lo rese il giorno dopo che glielo avevo portato in dattiloscritto, con un biglietto che diceva: 'va bene, Mattia, ma toglierei qualche francesismo' ...". La verità - ricordo che lo dissi a PERSIANI in quell'occasione - è che SANTORO PASSARELLI aveva una grande folla di assistenti volontari, tra i quali individuava con sicurezza i migliori e li faceva emergere, anche se apparentemente non muoveva un dito per loro. Che ci tenesse ai propri allievi, e come, è fuori dubbio: a fine anno accademico, a luglio, faceva una riunione conviviale con tutti gli allievi, nella quale faceva un po' il bilancio dell'anno dicendo: "noi abbiamo vinto il concorso tale, noi abbiamo ottenuto il posto tal altro, ecc".

Dopo la libera docenza è incominciata per te la stagione dei concorsi a cattedra.

La Signora RIVA volle che io partecipassi già al concorso del 1962 (che sarebbe stato vinto da SUPPIEJ, MANCINI e SIMI: grande escluso GIUGNI) e a quello del 1963 (che sarebbe stato vinto da GIUGNI, ASSANTI e NOVARA: grande escluso CESSARI); io non ne volevo sapere, ma lei insistette, perché, pur essendo scontato che non toccava a me vincere, riteneva utile che io ottenessi dei buoni giudizi nelle relazioni finali. Poi, nel gennaio 1964, accadde che si liberò nella facoltà di Pisa un posto di assistente ordinario. Avrebbe potuto aspirarvi Giovannni LAVAGNINI; ma la Signora - che era buona ma era anche molto decisa - non lo voleva; e, non essendovi alcun altro possibile candidato, era rassegnata alla perdita del posto.

Perché non lo voleva?

Perché era convinta che non avesse prospettive di carriera ulteriore e che pertanto sarebbe rimasto assistente ordinario a vita; LAVAGNINI, tra l'altro, aveva avuto la libera docenza in un modo molto contrastato, che gli aveva nuociuto più che giovargli. A quel punto fui io a risolvere il problema, manifestando la disponibilità a lasciare la magistratura per il posto di assistente ordinario; anche a costo di un rilevante sacrificio economico (che nascosi a mia moglie). Era una follia, rispetto agli schemi di allora, per i quali la magistratura si poteva lasciare per la cattedra, non certo per un posto di assistente; ma io avevo un rapporto tale con la RIVA SANSEVERINO, che per me tornare all'università per lavorare con lei era una festa. E fu, poi, effettivamente per me un periodo bellissimo, quello che seguì per qualche anno. Lavoravo a tempo pieno per l'università. Tra l'altro potei dedicarmi senza risparmio al libro sulle assunzioni obbligatorie e portarlo a compimento.

Non fosti tentato di arrotondare lo stipendio con la professione forense?

No, all'attività professionale ho incominciato a dedicarmi più tardi, nel 1970, dopo che la contestazione mi aveva fatto temere una possibile bolscevizzazione dell'università: ancora una volta mi preoccupai di salvaguardare la mia libertà assicurandomi un altro mestiere che mi desse di che vivere. Solo nel gennaio 1976, però, aprii un vero e proprio studio, con due colleghi e una segretaria, a Pisa.

Torniamo ai concorsi di diritto del lavoro.

Ti dicevo che in quello del '63 la grande vittima era stata CESSARI A questo proposito fui spettatore di un episodio gustoso. Nel corso dell'anno successivo, trovandomi a Roma, mi ero recato come sempre a salutare ANDRIOLI e insieme eravamo andati alla commemorazione di SCIALOJA che si teneva all'Università. Lì, mentre stavamo chiacchierando seduti in un banco in attesa dell'inizio, ci si avvicinò MICHELI, il processual-civilista, grande protettore di CESSARI, e rivolto ad ANDRIOLI prese a dire con foga: "Virgilio, tu devi far fare subito un concorso di diritto del lavoro per Pera, che è bravissimo", e lo ripeteva in tutte le salse; a un certo punto ANDRIOLI perse le staffe e rispose: "non mi rompere le scatole; tu vuoi il concorso per CESSARI, ma sai che voglio bene a PERA e mi vuoi turlupinare; PERA ancora non è pronto" (infatti il mio secondo libro era ancora in gestazione); a un certo punto arrivò anche e si inserì nella discussione SANTORO PASSARELLI. Io ero in disparte, imbarazzato come non mai. Più tardi, a casa, ANDRIOLI mi fece la filosofia dell'episodio dicendomi press'a poco questo: "preferisco che Micheli dica in giro che sono matto, piuttosto che si vanti di avermi infinocchiato". Poi - certo non per volontà di ANDRIOLI - il nuovo concorso venne bandito nel 1965. Nel frattempo la signora RIVA aveva chiesto il trasferimento a Milano, cosicché io ero preoccupatissimo di veder arrivare qualcun altro al suo posto a Pisa; ma lei, tranquillissima, mi assicurava che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Sapeva ottenere quel che voleva: il concorso si concluse il 12 gennaio 1966; il 19 gennaio venne chiamata dalla facoltà di giurisprudenza di Milano; il 26 gennaio venni chiamato io al suo posto a Pisa.

Da chi era formata la commissione?

Da RIVA, MAZZONI, GRASSETTI, SCOGNAMIGLIO e PROSPERETTI; questi ultimi due sostenitori di PERSIANI, che fu invece il grande escluso. Vincemmo, nell'ordine, GHEZZI, io e CESSARI. Come tutti i concorsi, anche questo ebbe il suo strascico di polemiche, per l'esclusione di PERSIANI; ma la mia impressione fu che la RIVA fosse riuscita a concordare la terna anche con la minoranza costituita da SCOGNAMIGLIO e PROSPERETTI, con l'impegno che PERSIANI avrebbe dovuto essere promosso al primo concorso successivo, come poi avvenne. Infatti la prima cosa che la Signora mi disse quando, subito dopo la proclamazione del risultato, andai da lei a Roma, fu di recarmi subito a ringraziare SCOGNAMIGLIO e PROSPERETTI; ed entrambi in quell'occasione furono cordialissimi con me. Vinta la cattedra, mantenni ancora per qualche tempo l'incarico di diritto del lavoro a Economia e Commercio, per poi farlo assegnare a Luigi MONTUSCHI, che stimavo molto e che stava lavorando sui limiti legali all'autonomia privata nella conclusione del contratto di lavoro, nella stessa area tematica in cui si era collocato il mio libro sulle assunzioni obbligatorie.

E nella quale si sarebbe collocato poi il libro di Edoardo GHERA del 1970.

Sì. Dei due mi piacque più il libro di MONTUSCHI: quello di GHERA, molto più legato alle categorie civilistiche, mi pareva non dar conto adeguatamente della peculiarità del diritto del lavoro. Fu questo il motivo per cui, nel concorso del 1970, espressi una preferenza per MONTUSCHI rispetto a GHERA. La vicenda merita di essere raccontata, perché venne vissuta da qualcuno in modo assai drammatico. In commissione, oltre a me, c'erano MAZZONI (che sosteneva la candidatura, allora impossibile, di ARANGUREN), MENGONI, MANCINI e GIUGNI, e in partenza sembrava che ci fosse un accordo di ferro tra questi ultimi tre in favore di ROMAGNOLI, TREU e GHERA. Ma c'erano altri due bravi: GRANDI e MONTUSCHI; e CARNACINI - capo-scuola bolognese - aveva preso nettamente posizione in favore di MONTUSCHI, che anch'io, come ti dicevo, preferivo allora a GHERA. Ricordo che ci fu una drammatica riunione in un albergo romano, tra GIUGNI, MANCINI e me - ma vi assisteva anche MENGONI - nel corso della quale MANCINI, stretto fra l'indicazione del capo-scuola e quella del grande amico, arrivò addirittura a piangere. Alla fine prevalse in lui la solidarietà di scuola; e così vinsero, nell'ordine, ROMAGNOLI, MONTUSCHI e TREU.

Metteste GIUGNI in minoranza?

Sì; e se la prese al punto che ruppe i rapporti personali con me per un certo periodo. Se avessi previsto che questo sarebbe stato il costo della mia scelta, probabilmente non l'avrei compiuta. Poi GHERA vinse, come era giusto, il concorso del 1973, insieme a GRANDI e SMURAGLIA. La vittoria di quest'ultimo era frutto del mutamento di clima nell'accademia giuslavoristica, conseguente all'autunno caldo: negli anni '60 c'era, da parte della scuola bolognese e di GIUGNI un atteggiamento di sufficienza nei confronti di SMURAGLIA, nonostante che fosse allievo della RIVA SANSEVERINO e da lei stimato, perché non gli si perdonava l'aperta e intensa militanza nel partito comunista. Poi, nel '71 ci fu la grande svolta, con la confluenza del fior fiore dell'accademia nel comitato scientifico della Rivista giuridica del lavoro, diretta da NATOLI. Fu una scelta "ecumenica" intelligente, quella compiuta allora dalla rivista della Cgil, con la quale si gettavano le basi di una sua vera e propria egemonia, che sarebbe durata per almeno un decennio. Il fatto che confluissero allora nella rivista della Cgil anche Gino GIUGNI e addirittura Mattia PERSIANI dà la misura di quella incipiente egemonia. La promozione di SMURAGLIA non fu però affatto tranquilla neppure nel 1973. Delle tre cattedre da assegnare, le prime due non si discutevano: erano destinate a GHERA e GRANDI; la questione si riduceva all'assegnazione della terza, per la quale i contendenti erano: SMURAGLIA, appunto, sostenuto in commissione da RIVA e GIUGNI; Matteo DELL'OLIO, sostenuto da PROSPERETTI e SANTORO PASSARELLI; Aldo ARANGUREN, sostenuto da MAZZONI. Poiché la candidatura di ARANGUREN era respinta dagli altri, MAZZONI si pronunciò per SMURAGLIA, anche perché - disse - se al suo allievo doveva essere preferito un altro, era meglio che fosse almeno un suo coetaneo e non un giovane come DELL'OLIO.

Poi tu fosti ancora in commissione per il concorso del 1975.

Per quel concorso le commissioni erano due; io ero in quella di cui facevano parte anche RIVA, MAZZONI, SCOGNAMIGLIO e GHERA. Le scelte dell'altra commissione erano già definite e, per così dire, bloccate: si sapeva per certo che "dovevano" passare NICOLINI sostenuto da CESSARI, TOSI sostenuto da TREU, CARINCI sostenuto da MANCINI. Quanto a noi, i candidati migliori, sui quali non vi erano dubbi, erano DELL'OLIO e PERONE. Io ritenevo meritevole della cattedra anche Maria Vittoria BALLESTRERO, che però era invisa a molti. La RIVA apprezzava Rosario FLAMMIA e Raffaele DE LUCA TAMAJO. SCOGNAMIGLIO sosteneva Fabio MAZZIOTTI. MAZZONI sosteneva ARANGUREN. Io compresi che la BALLESTRERO non poteva farcela; suggerii quindi alla RIVA di proporre a MAZZONI e SCOGNAMIGLIO un accordo sui nomi di FLAMMIA, DE LUCA TAMAJO, MAZZIOTTI e ARANGUREN; e questi furono, insieme a DELL'OLIO e PERONE, i vincitori. Io votai sempre per la BALLESTRERO, ma fui il solo a farlo.

E perdesti quella battaglia anche nel concorso successivo, del 1980.

A quel concorso - l'ultimo al quale ho partecipato come commissario - andai con uno stato d'animo negativo: mi ero assegnato il compito di impedire la promozione di cinque candidati, che ritenevo non meritevoli e che invece erano i primi della lista di quattro dei sette commissari: Roberto PESSI, sostenuto da Giorgio BRANCA, Carlo ZAGO GARELLI sostenuto da Mario GRANDI per incarico di Vincenzo CARULLO, Bruno BALLETTI, sostenuto da Luciano SPAGNUOLO VIGORITA, Piera FABRIS e Luisa GALANTINO sostenute da Aldo CESSARI. In commissione si formò una maggioranza composta da SCOGNAMIGLIO, SPAGNUOLO, GHERA e me. Io sostenevo ancora Maria Vittoria BALLESTRERO; ma pagai con la sua bocciatura la fermezza del mio veto. Dei cinque che mi ero proposto di contrastare passò soltanto la GALANTINO. C’era poi un certo giovane Pietro ICHINO, ultimo allievo della signora RIVA, all’epoca deputato comunista, che in quel concorso prese solo due voti: quello di CESSARI e il mio. ***per la pubblicazione: sostituire con degli omissis le parti in carattere piccolo***

Quello del 1980 non è proprio l’ultimo concorso in cui sei stato commissario: lo sei stato anche nel concorso per ricercatore a Pisa bandito nel 1989.

Ma in quel caso volli che a decidere fossero gli altri: dichiarai che non avrei espresso la mia preferenza ed ero davvero pronto ad accettare tutte le soluzioni che fossero prevalse. Volevo che fosse ben chiaro che in quel concorso non si applicava lo ius loci. C’era un candidato pisano, Michele MARIANI, certamente meritevole; ma gli avevo detto chiaro e tondo che era meglio anche per lui vincere o perdere in un concorso vero. Per questo, al momento del bando del concorso, nel novembre 1989, avevo scritto a tutti i colleghi che auspicavo la partecipazione al concorso di tutti i migliori.

Esattamente il contrario di quanto accade normalmente nei concorsi. È un fatto, però, che poi vinse MARIANI.

Ma non per volontà mia. In commissione c’erano Giuseppe SUPPIEJ e Giorgio CORRIAS. Su diciannove candidati, per fortuna, se ne erano presentati solo quattro e tutti bravi: oltre a MARIANI, Gisella DE SIMONE, Vincenzo MARINO e Valerio SPEZIALE. Nel punteggio per i titoli MARINO era davanti a tutti perché aveva il libro. Negli scritti il migliore fu nettamente MARIANI: SUPPIEJ ne era sinceramente ammirato e oggettivamente aveva fatto dei temi seri, lineari, ragionati (il primo sull’obbligo a contrarre nel diritto del lavoro; il secondo era un commento di una sentenza romana sui licenziamenti collettivi). Invece dovetti battermi per far ammettere all’orale la DE SIMONE; non perché avesse fatto dei brutti compiti: nessuno saprà mai se erano meritevoli o no; il problema era che la scrittura era totalmente illeggibile (ma è possibile che tanti studenti non si rendano conto che la scrittura manuale è ancora un mezzo di comunicazione?). Alla fine dovetti concordare, anche dopo l’esame orale, che il migliore era MARIANI; ma con rammarico.

Addirittura rammarico? Non ti sembra eccessivo?

No. Mi sarebbe piaciuto che a Pisa vincesse un candidato esterno, per rimarcare la differenza da quello che accade normalmente nelle nostre università. Volevo distinguermi da quella melma.

Ma in questo modo diventa pericoloso essere tuoi allievi.

Forse sì. Ma il vantaggio è di non avere asini che ronzano intorno alla mia cattedra.

Ed è un vantaggio notevole anche per chi è ammesso a ronzarvi: un marchio di qualità. Torniamo alla nostra accademia. Hai parlato dell’“egemonia” conquistata dalla Rivista giuridica del lavoro all’inizio degli anni ’70, con l’allargamento ecumenico del Comitato scientifico a Giugni, Treu e Persiani, che ha consentito alla sinistra giuslavoristica di prendere in mano le sorti dell’accademia per il ventennio successivo. Quali sono stati i tuoi rapporti con questo gruppo dominante?

Non ne ero escluso, ma non vi appartenevo. Anche perché in quel periodo ero ferocemente polemico verso la deriva di sinistra succeduta all’autunno caldo del ’69. Nel luglio del 1972 ci fu il famoso convegno “giuridico” (che di giuridico ebbe ben poco) promosso in Bologna dai sindacati metalmeccanici: relatori MANCINI, GIUGNI e TREU, cioè il meglio del meglio. Venni invitato anche io, con ZANGARI, ma solo perché “desideravano avere alcune teste di turco”, come un organizzatore ebbe la finezza di dire davanti a me. Siccome so come muovermi tra i nemici – e all’epoca politicamente eravamo tali – avevo preparato l’intervento, poi inviato per iscritto. Vi svolsi le mie consuete tesi trentanoviste, ricordando che per Costituzione la maggioranza legalmente accertata deve governare, ampiamente citando passi dello scritto di DI VITTORIO in un libro Laterza del 1955. Il BENVENUTO, che era nella prima fila, sghignazzò obiettando che in quel modo la Uil sarebbe stata minoritaria. Fatto sta che negli atti del convegno le citazioni di DI VITTORIO scomparvero; forse perché in quella stagione non era di buon gusto ricordare le chiare posizioni del segretario generale della Cgil, se non si conciliavano con il nuovo verbo sindacale. Scrissi una lettera di protesta, mi risposero in modo impacciato senza essere in grado di giustificare quella ridicola prepotenza.

Poi, però, la frattura di allora si è ricomposta.

Il tempo medica tutte le ferite. E io non amo lo scontro con nessuno.

Quest’anno [1994], al congresso dell’Aidlass di Gubbio, il “gruppo dirigente” degli anni ’70 e ’80 è stato scalzato dalla nuova guardia dei giuslavoristi: ha vinto il “gruppo di Asciano”, la nuova generazione.

Condivido del tutto la diagnosi contenuta nel documento che avete approvato ad Asciano. Ma non credo al buon esito dell’operazione che il nuovo gruppo vincente si propone. È semplicemente l’ennesima di cambio di generazione nel governo dell’Associazione. GIUGNI e soci fecero fuori i vecchi. Dieci anni fa la generazione CARINCI è insorta contro GIUGNI e soci. Ora voi contro i vecchi di oggi. Non mi meraviglia né mi preoccupa; ma neppure mi commuove. La nuova guardia si presenta sempre sotto la bandiera della lotta contro i clientelismi e le alleanze di potere, della difesa disinteressata del merito; ma al dunque finiranno col prevalere i giochi di sempre, ciascuno cercherà di aggregarsi alla cordata più forte, pagandone il prezzo, per non rischiare che i propri allievi vengano ignorati. Per questo a Gubbio non ho partecipato né all’assemblea né alla votazione: mi sono concesso il lusso di non credere agli uomini nuovi di oggi come non credetti mai a quelli di prima.

Accantoniamo le beghe accademiche e parliamo di cose più serie. Si suole dire che le tue tesi hanno prevalso sul versante del diritto del rapporto individuale di lavoro, non su quello del diritto sindacale. Condividi?

Quali sarebbero le mie tesi fortunate e quelle no?

Sul versante del rapporto individuale, fra le molte tue costruzioni che hanno lasciato il segno, forse la più importante è quella del controllo sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che hai proposto al convegno fiorentino del 1968 e poi ancora a un seminario del 1972 ( ) e che mi sembra oggi condivisa da dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi.

In realtà, la mia relazione del 1968 non riscosse subito molti consensi: ricordo numerose sentenze degli anni successivi nelle quali venne affermata esplicitamente la sindacabilità della scelta imprenditoriale sottostante al licenziamento. La mia idea era ed è che la decisione circa l’entità della forza lavoro da impiegare in ciascun comparto dell’azienda è insindacabile; ciò che invece l’imprenditore deve giustificare è il nesso causale fra la decisione di massima e la scelta di quel certo lavoratore, ossia una coerenza logica per la quale si possa dire che quella scelta non è avvenuta a caso, o per fini inconfessabili di discriminazione o rappresaglia, ma rientra in un certo disegno ragionevole di attuazione della misura adottata.

Questa, invece, è l’unica delle tue tesi dottrinali sulla quale ho dei dubbi: mi sembra che nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo la distinzione tra opzione quantitativa sottostante e individuazione del singolo lavoratore da licenziare sia artificiosa: il giudice finisce sempre col controllare l’intera operazione e tutte le sue motivazioni; il controllo sul giustificato motivo oggettivo non è conciliabile con l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali.

Io non vcdo una inconciliabilità tra le due regole. Qui conta sempre il buon senso del giudice, la sua capacità di rispettare l’opzione imprenditoriale sul piano economico-organizzativo, limitandosi a controllare che nella sua traduzione pratica si segua un criterio logico obbiettivo, che non interferiscano criteri arbitrari.

Un’altra tua costruzione molto importante, che ha convinto tutti e che oggi domina incontrastata è quella che riguarda la distinzione tra rinunce nulle e rinunce annullabili, a norma dell’articolo 2113 del codice civile.

Mi sembra la costruzione più semplice e logica. La rinuncia in futuro pretende di sostituire la norma inderogabile con un regolamento peggiorativo: lì è il secondo comma dell’articolo 1419 che si applica, nullità e sostituzione del regolamento pattizio con quello legale. L’articolo 2113, con la sanzione dell’annullabilità e il termine di decadenza per l’impugnazione, si applica soltanto alla rinuncia o transazione sul diritto già maturato e non fatto valere.

Sul versante sindacale, invece, sembrano rimaste isolate le tue tesi “trentanoviste”, la tua costruzione del diritto di sciopero, le tue idee sulla controversia collettiva e la transazione collettiva. Di quelle tesi sei sempre convinto?

C’è una coerenza tra quelle idee. E nelle vicende di quest’ultimo quarto di secolo non vedo motivi per abbandonarle: semmai una conferma della loro validità e attualità.

Parliamone. Come potrebbe declinarsi oggi il tuo “trentanovismo”?

L’articolo 39, pur non attuato nel meccanismo della registrazione e del computo degli iscritti a ciascuna associazione, pone però un principio fondamentale che può considerarsi immediatamente precettivo: conta la maggioranza, cioè conta il contratto che risulti essere stato stipulato dal sindacato o dai sindacati di cui si possa comprovare che sono maggioritari nel complesso sindacalmente organizzato. Questo significa, anche nel regime attuale “transitorio” – ancorché ormai quasi cinquantennale –, che gli imprenditori, se vogliono stipulare il contratto collettivo proprio del diritto sindacale e non un contratto qualsiasi con gli effetti previsti dal diritto civile comune, non possono stipularlo con qualsiasi sindacato, ma solo con l’associazione o coalizione sindacale maggioritaria. Perché mai questo principio sostanziale non dovrebbe aver corso solo perché si è omesso di svolgere il meccanismo della registrazione?

Come può applicarsi questo principio, in concreto, in una situazione di mancata attuazione di quel meccanismo?

La mancata attuazione fa sì che non ci sia certezza preventiva di quale coalizione può stipulare con gli effetti propri del contratto collettivo; ma non che quel contratto non possa essere stipulato. Il fatto che il contratto sia o no generalmente obbligatorio è controvertibile di volta in volta; avrà corso caso per caso il controllo del giudice del lavoro, con la possibilità che sullo stesso contratto si abbiano giudicati contrastanti in giudizi diversi. Ma non vedo come si possa negare, solo per queste indubbie difficoltà e complicazioni, la possibilità di applicare linearmente quello che stabilisce la Costituzione.

L’idea che l’efficacia erga omnes di cui all’articolo 39 possa avere già corso, in base al principio fondamentale maggioritario, anche senza la legge attuativa del meccanismo di registrazione e verifica della rappresentatività, compare soltanto nei tuoi scritti degli ultimi anni.

Sì, me ne sono convinto solo di recente e l’ho scritto nell’edizione del 1988 del manuale, dando conto dello scritto del 1975 in cui avevi sostenuto la stessa tesi, pur con una argomentazione in parte diversa ( ); ma una tesi analoga era stata sostenuta anche da Tiziano TREU, nel suo commento all’articolo 36 ( ), e da Giuseppe FERRARO nella sua splendida monografia ( ). Due anni prima, nel 1986, avevo tentato di promuovere una riflessione comune tra studiosi, imprenditori e sindacalisti, con il convegno organizzato dall’Unione Industriale di Torino su di un mio progetto di intervento legislativo risolutivo; ma quel convegno era servito soltanto a registrare la babele delle opinioni ( ).

Dall’articolo 39 al 40: parliamo del diritto di sciopero.

Non ho mai creduto alla tesi, dominante nella nostra dottrina, della titolarità individuale del diritto di sciopero. Intendiamoci: non c’è alcun ostacolo di principio a considerare che il lavoratore possa essere, come tale, titolare del diritto potestativo di astenersi dal lavoro per piegare la resistenza del datore a una rivendicazione del miglioramento delle condizioni di lavoro, o anche per fini di altro genere. Ma questa idea mi sembra poco aderente alla realtà delle cose; e le teorizzazioni formali che non hanno sufficiente corrispondenza nei fatti della vita sociale sono, per ciò stesso, intrinsecamente dubbie. La verità è che, da quando il movimento sindacale di base incominciò a muoversi dall’inizio degli anni ’60 fino a esplodere nella lunga stagione contestataria, dietro la formulazione della titolarità individuale del diritto stava, in termini di politica del diritto – o tout court politici –, la possibilità del sindacato “ufficiale” di farsi forte dell’incontrollabile pressione della base. All’epoca si riteneva come un dogma che non vi potessero essere limiti alle conquiste di classe e alle possibilità di svolgere socialmente l’andamento della società capitalistica. La tesi della titolarità individuale, dell’impossiiblità di limitare l’azione anche di gruppuscoli, della incoercibilità dello sciopero articolato, serviva in questa direzione.

In questo ordine di idee si sosteneva anche la tesi, di più ampia portata, secondo cui i patti collettivi per loro natura vincolano soltanto la parte imprenditoriale.

Sì, è bene ricordarlo ai tanti che oggi indulgono alla memoria corta: si sosteneva che il contratto collettivo fissasse soltanto gli obblighi assunti dall’odiata parte padronale, libera la parte lavoratrice di riaprire subito, il conflitto, anche all’indomani, senza alcun limite, in particolare in sede decentrata e aziendale. La pretesa titolarità individuale del diritto di sciopero, del quale nessun soggetto collettivo avrebbe potuto disporre, era semplicemente la copertura formale di tutto questo. Basta rileggere, per esempio, gli atti del convegno di Bologna del 1972 di cui abbiamo parlato prima, con relazioni pressoché all’unisono (salve alcune riserve di TREU, di MANCINI e GIUGNI sul tema delle clausole di pace, da lui considerato in modo del tutto laico). Si trattava di una metafora, di un’opzione di mera politica del diritto.

Ora, però, il clima è profondamente cambiato.

Personalmente non credo, in ragione dell’andamento ciclico della congiuntura sociale, a un’inversione di tendenza definitiva, perché nella storia non c’è mai niente di definitivo e talora il fuoco cova sotto la cenere. Questo valga anche per il diffuso compiacimento odierno di tanto moderatume conservatore, che abusa largamente e con miopia dell’apparente spostamento del pendolo dall’altra parte. Credo che non sia prudente escludere un nuovo scoppio conflittuale nella società italiana. Oggi, per più versi, il sindacalismo confederale è in crisi profonda di rappresentatività in molti settori cruciali; e torna a essere profondamente diviso fra le tre centrali. Diverse situazioni sfuggono, con movimenti incipienti di sindacalismo di mestiere. Il sindacalismo ufficiale si trova in grandi difficoltà a controllare i movimenti di base, a dominare il conflitto. Proprio per questo la triplice ha accettato – anzi, ha favorito – l’emanazione della legge del ’90 sullo sciopero nei servizi pubblici; e la vecchia tesi della titolarità individuale ne è rimessa in discussione. Tanti che in un passato anche recente celebravano la programmatica assenza di regole, oggi se ne pentono in segreto e pubblicamente auspicano l’inverso.

Tu ritieni che la legge sullo sciopero nei servizi pubblici abbia segnato un mutamento a questo proposito, sul piano sistematico?

In un certo senso lo si può sostenere, poiché la legge ha definitivamente sancito la vincolatività del regolamento collettivo dello sciopero; e non solo per i sindacati stipulanti, secondo la costruzione di GHEZZI del 1964, ma anche per i singoli lavoratori. Questa è una conferma della titolarità collettiva del diritto.

Si obietta, però, che questa norma ha carattere eccezionale, essendo giustificata dalla rilevanza costituzionale degli interessi protetti.

Non prenderei come oro colato questa rilevanza costituzionale. Passi per la tutela della vita e della salute (non c’era bisogno della legge, del resto, per stabilire che la persona ferita o in grave pericolo va subito assistita e curata); ma non mi convince l’attribuzione di rilievo costituzionale al diritto di spostarsi con un mezzo di trasporto piuttosto che un altro, tanto meno quando il diritto di spostarsi è esercitato per andare in vacanza; né l’attribuzione di rilievo costituzionale a tanti altri “diritti” degli utenti di servizi pubblici: di quel passo tutto ha rilievo costituzionale. Con questo non voglio dire affatto che la norma sia illegittima: l’articolo 40 della Costituzione consente al legislatore la scelta di limitare il diritto di sciopero e il legislatore ha esercitato la propria discrezionalità, prevedendo la necessità di una regolamentazione e in particolare la validità della regolamentazione pattizia in sede collettiva nei settori protetti. La menzione nella legge del rilievo costituzionale degli interessi protetti è solo un omaggio rituale all’opinione tradizionale della sacralità del diritto di sciopero; tutto qui. E se la pattuizione collettiva limitativa dello sciopero è valida e vincolante anche per i singoli lavoratori in questo campo, ora tocca a chi sostiene che altrove non lo sia spiegare perché. Con la legge sullo sciopero nei servizi pubblici resta, però, irrisolta la questione più importante e più difficile, sul piano costituzionale e su quello dell’opportunità.

Quale?

La questione vera è se la legge possa o no riservare la proclamazione dello sciopero legittimo ai soli sindacati maggiormente rappresentativi o al complesso sindacale maggioritario. Sul piano costituzionale, il nesso tra questa questione e quella dell’attuazione dell’articolo 39 è evidente: il principio maggioritario dettato in materia di contrattazione collettiva si riverbera anche sulla materia dello sciopero, rendendo quanto meno legittima la scelta del legislatore ordinario che consenta la proclamazione dello sciopero soltanto al sindacato o al complesso sindacale maggioritario. Lo ha detto anche TOSI, e con estrema chiarezza, nella sua relazione al convegno Aidlass di Fiuggi ( ). Una regola di questo genere, che si applica da tempo in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna, da noi non potrebbe certo considerarsi incostituzionale.

A questa prospettiva si obietta che riservare l’azione diretta alla sola coalizione o associazione maggioritaria sacrificherebbe indebitamente le minoranze.

Dissento. Non sarebbe affatto pregiudicata la possibilità per la gente di attivarsi variamente in contestazione della situazione sindacale preesistente; ma questi processi sociali innovativi non potrebbero avere immediatamente, come avviene oggi, legittimazione esterna per così dire diretta, aggredendo la controparte sociale in piena libertà. Al contrario, il processo d’incubazione delle iniziative contestatarie degli apparati preesistenti dovrebbe avere corso, all’inizio, in seno alla parte lavoratrice, rafforzandosi giorno dopo giorno, fin quando, raggiunta una certa consistenza, il nuovo sindacato può pretendere di essere misurato. La gente scontenta può incominciare a rifiutare i contributi associativi ai sindacati maggioritari la cui linea non sia condivisa, può non raccogliere il loro eventuale invito a scioperare, può attivarsi variamente per ravvivare il fuoco sotto la cenere. Dopo di che, se i sindacati dominanti non intendono la lezione e non riescono a riassorbire il dissenso, e se questo ha delle buone ragioni, alla fine il fuoco divamperà e avverrà il capovolgimento dei rapporti di forza. Non è mai dato ad alcuno di poter arrestare le volizioni radicate della gente; si possono solo porre, anche tirannicamente, degli ostacoli che prima o poi, se la gente lo vuole, crollano. L’armamentario formale del diritto è povera cosa dinanzi all’imponenza o alla debolezza dei moti sociali. La superiorità del modello demo-liberale sta, semmai, nel fatto che gli sviluppi possibili non sono esorcizzati, ma sono programmaticamente previsti e accettati.

Il terzo aspetto peculiare di questa tua visione del diritto sindacale è costituito dalla possibilità della controversia giudiziale collettiva e della transazione collettiva.

Qui il discorso mi sembra molto semplice: non vedo quale ostacolo impedisca che una parte collettiva firmataria sottoponga la lite al magistrato, in contraddittorio con la parte collettiva contrapposta; né vedo un ostacolo a che la sentenza emessa all’esito di quel giudizio faccia stato tanto nei confronti delle parti collettive, quanto nei confronti di quelle individuali: la clausola controversa andrà interpretata nel modo ritenuto dal giudice. Lo sostenne CARNACINI al congresso di Pescara, nel 1967 ( ), anche se poi questa idea fu indebitamente lasciata cadere. Conseguentemente, almeno quando non interferiscano disposti inderogabili di legge, quando tutto sia in termini d’interpretazione e di applicazione di disposti contrattuali collettivi, non vedo quale ostacolo vi sia alla transazione collettiva. Essa, appunto come transazione, è l’equivalente sostanziale della sentenza. In luogo di una pronuncia del giudice, si ha un patto che evita il ricorso al magistrato da parte dei sindacati e che tronca il contenzioso individuale plurimo. Il contratto va interpretato nei termini in cui i medesimi paciscenti collettivi hanno successivamente determinato, così come avverrebbe ove sopravvenisse una sentenza.

Non pensi che queste tue idee abbiano notevoli possibilità di essere rivalutate oggi? Nel “protocollo Ciampi-Giugni” del luglio dell’anno scorso tutte le parti hanno sottoscritto l’impegno a favorire l’emanazione di una legge che disciplini l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi, quindi anche una nuova disciplina della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. La legge del 1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali sembra proprio sottolineare la natura collettiva del diritto di sciopero, rafforza esplicitamente l’autonomia collettiva nella sua regolamentazione, istituisce la figura dell’arbitrato sulle controversie collettive, che presuppone logicamente l’ammissibilità anche della transazione collettiva.

Ma tu pensi davvero che la nostra cultura sindacale sia capace di evolvere, che il sistema sia capace di autoriformarsi?

Io sono ottimista.

Spero che tu abbia ragione; ma sono portato al pessimismo. La cosa, comunque, non riguarderà me.

C’è un messaggio che vuoi inviare ai giovani giuslavoristi intenzionati a dedicare la loro vita alla nostra materia?

Un vecchio, quale io sono, si augura che tutti siano veramente liberi nel loro spirito, mai preoccupati della parte politica o sindacale che la loro tesi può al momento favorire: politica e sindacato hanno bisogno di questa libertà degli studiosi. E pronti sempre a cambiare idea se ne hanno vere ragioni, senza il timore di essere tacciati di incoerenza.