14/09/07 2° Convegno Jaccheri sul dirit

La sezione Pisana dell'Osservatorio del diritto di famiglia ha promosso, con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Pisa, della scuola di specializzazione per le professioni legali dell'università di Pisa, della scuola di formazione forense, la seconda giornata di Studi dedicata alla memoria dell'Avv. Mario Jaccheri sul tema: <>, con relazioni di docenti universitari (Luiso, Danovi, Cecchella), di magistrati (Martinelli, De Simone, Martinelli) e di Avvocati (Dosi)

Reclamo, revoca e modifica dei provvedimenti sommari by Claudio Cecchellabis
Sentenza non definitiva di separazione e rapporti tra separazione e divorzio. by Gianfranco Dosi
L’appello nel giudizio di separazione e di divorzio by Gioacchino Massetani
Questioni varie in tema di impugnazione by Francesco Paolo Luiso
Saluti e Introduzione by Carlo De Pasquale
Reclamo, revoca e modifica dei provvedimenti sommari by Paolo Martinelli
Reclamo, revoca e modifica dei provvedimenti sommari by Filippo Danovi
Saluti dell'Avv. David Cerri by David Cerri
Introduzione by Claudio Cecchella

L’appello nel giudizio di separazione e di divorzio

La formulazione del recente art. 709 bis c.p.c. , pone il problema di leggere l’espressione <> in modo da combinarla con il LIBRO SECONDO TITOLO III CAPO II che detta la disciplina generale (delle impugnazioni nel processo di cognizione, tra cui è quella ) dell’appello.

Solo con questo riferimento alla disciplina generale dell’appello sarà possibile completare e rendere funzionante la nuova previsione (e coglierne a pieno le particolarità), in una prospettiva di adesione agli obblighi di chi è preposto a rendere effettivo il sistema normativo vigente.

Come si introduce questo appello che <<è deciso in camera di consiglio>>?

Ci sono termini da rispettare per l’introduzione di questo appello?

E’ possibile anche alla controparte (provocata) proporre un suo appello contrario?

In che forma ed entro quali termini si può proporre appello incidentale?

Esistono limiti ai temi da sottoporre al giudice d’appello?

Esistono limiti alla proposizione di domande nuove tramite l’appello?

Esistono limiti alla richiesta di nuove prove che sia avanzata con l’appello?

Porre queste domande è già – con evidenza - fare un confronto tra nuova figura normativa e disciplina generale dell’appello data nel Libro secondo del Codice: perché senza questo confronto non si vede la necessità di stabilire (anche qui) una forma vincolata qualunque per la proposizione dell’appello principale o in sua opposizione (appello della controparte: cfr. art. 333 c.p.c); non si vede perché mai dovremmo immaginare (anche qui) l’esistenza di termini di decadenza; non ci sarebbe ragione per escludere (qui) che fosse possibile porre qualunque motivo a fondamento dell’appello; qualunque interessato potrebbe pensare di essere (qui) autorizzato ad appellare o ad intervenire in un appello altrui; ogni mezzo idoneo a convincere della esistenza dei fatti affermati o della inesistenza dei fatti negati sarebbe (qui) banalmente utilizzabile, purché non illecito.

Si tratta, in effetti, di obbedire al dovere di applicare la legge (processuale) ad essa attribuendo il solo significato che è proprio delle parole e della loro connessione nel testo di legge, in ragione dello scopo attribuibile al legislatore (art. 12 disp. sulla legge in generale, preposte al codice civile).

Tutto ciò credo che non sia avvenuto (o non sia avvenuto nel modo giusto) nella giurisprudenza quando questo stesso specifico tema fu posto agli interpreti dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, che modificò l’articolo 4 della prima legge italiana sul divorzio , introducendo la statuizione innovativa che <> .

Regola solitaria, senza nessuna precisazione ulteriore.

In dottrina fu proposta subito una lettura della novità che appare (anche ora) pienamente rispettosa dei principi sopra richiamati:

<>.

Qui l’autore raccoglieva dal testo normativo il significato che spettava necessariamente alla parola <> (che non è una qualunque invocazione verso qualcheduno, ma uno specifico istituto del codice processuale civile dove è esaurientemente regolato per rispondere alle funzionalità che lo caratterizzano nell’ambito delle impugnazioni); si chiariva la sua connessione coll’insieme normativo processuale tramite una norma precedente (introdotta nel codice civile trentasette anni prima e mai ritenuta equivoca) che portava la stessa espressione: l’art. 130 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.; si constatava quale misura di tempo risparmiato potesse davvero realizzarsi a soddisfazione dell’intento attribuibile al legislatore.

Con il risultato semplificatore di trovare nel codice di rito la risposta a tutte le domande che si potevano proporre riguardo all’appello incidentale, ai nova, all’intervento etc.

I primi giudici, però, restarono evidentemente turbati dalla novità, tanto da chiamare ripetutamente la Corte Costituzionale a censurare l’opera del legislatore .

La Corte rese una pronuncia interpretativa di rigetto colla quale propose la sua lettura della nuova disposizione, così argomentando:

<<... ad avviso di questa Corte, il rito camerale riguarda invece l'intero giudizio di appello, altrimenti non potrebbero ritenersi soddisfatte quelle esigenze, enunciate nella relazione che accompagna la legge 6 marzo 1987, n. 74, di celerità processuale che il rito contenzioso ordinario non sarebbe in grado di assicurare. Pur ritenendo esteso il carattere camerale alla intera fase del giudizio di appello, non possono tuttavia condividersi le censure di illegittimità costituzionale prospettate dal giudice a quo.

.... il procedimento camerale non è di per sé in contrasto con il diritto di difesa, in quanto l'esercizio di quest'ultimo è variamente configurabile dalla legge.. "purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione", cioè la garanzia del contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti...

L'adozione della procedura camerale, anche nei casi in cui si è in presenza di elementi della giurisdizione contenziosa, ... sfugge quindi al sindacato di questa Corte "nei limiti in cui, ovviamente, non si risolve nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza".. Nella specie il procedimento camerale, ... appare previsto in ragione delle esigenze di celerità che il legislatore ha dichiarato di voler perseguire in un grado processuale in cui, in determinate materie, l'istruttoria è certamente semplice e al massimo avente carattere integrativo di quella già esperita in primo grado... è stato tenuto presente dal legislatore.. che "l'esperienza ha permesso infatti di constatare che i giudizi in appello sono, nell'attuale sistema, i più lunghi, pur non modificando mai gli elementi di fatto acquisiti nell'istruttoria di primo grado". Ciò comunque non senza tenere conto che, non avendo il doppio grado di giudizio garanzia costituzionale... non appare in contrasto con il diritto alla difesa né irragionevole che.. per determinate controversie.. si scelga un rito semplificato rispetto a quello di primo grado nel quale le parti hanno già avuto possibilità di esplicare nel modo più completo la propria attività difensiva...

3.1. .. la scelta alternativa rispetto al procedimento ordinario.. non appare in contrasto con la garanzia costituzionale del diritto alla difesa dal momento che risulta assicurato il principio del contraddittorio.. nei confronti dei medesimi soggetti che sono già stati parti nel giudizio di primo grado. Quanto ai termini per la proposizione dell'appello.. come ritiene la prevalente giurisprudenza.. la mancanza di ogni previsione in ordine ad essi, fa si che debbano osservarsi quelli propri delle impugnazioni delle sentenze... Neppure può ritenersi violato il diritto di prova, perché... esso ha già avuto modo di esplicarsi compiutamente nel giudizio di primo grado .. [e]...

anche nel rito camerale in appello è possibile acquisire ogni specie di prova precostituita e procedere alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purché il relativo modo di assunzione - comunque non formale nonché atipico - risulti, da un lato, sempre compatibile con la natura camerale del procedimento, e, d'altro lato, non violi il principio generale della idoneità degli atti processuali al raggiungimento del loro scopo (sentenza n. 238 del 1976). Inoltre va osservato che in un sistema istruttorio nel quale alla limitazione dell'iniziativa probatoria della parte corrisponde un più incisivo potere ufficioso del giudice, rimane egualmente assicurata la possibilità di accertamento dei fatti controversi.

È da ritenersi poi pienamente garantita l'assistenza del difensore, in quanto "è nel sistema, anche a proposito dei procedimenti speciali, che la parte si possa far rappresentare o comunque assistere da un difensore. Onde, in mancanza di una norma che vieti detta assistenza, questa si deve ritenere implicitamente ammessa e consentita" .. il che implica la possibilità che, qualora lo richieda, il difensore possa essere sentito anche in modo non formale, comunque osservate le regole del contraddittorio.

3.2. – .. [Per la denunciata] carenza di tutela offerta dal rito camerale.. è sufficiente osservare che la locuzione usata dal legislatore, nell'art. 8, comma dodicesimo, della legge n. 74 del 1987, secondo cui "l'appello è deciso in camera di consiglio", se, da un canto, richiama il procedimento di cui all'art. 737 e ss. del codice di procedura civile, d'altro canto non esclude l'applicabilità di quelle norme che disciplinano l'appello nel processo ordinario, come ad esempio quelle sull'appello incidentale e sulla specificità dei motivi di appello, PERCHÉ ESSE NON SONO INCOMPATIBILI CON IL RITO CAMERALE, NÉ INCIDONO SULLA CELERITÀ DEL GIUDIZIO. QUEST'ULTIMA ESIGENZA IL LEGISLATORE HA INTESO PERSEGUIRE CON UNA DISCIPLINA DIRETTA ESSENZIALMENTE ALLA FASE ISTRUTTORIA, CHE LA SPECIALITÀ DEL RITO CAMERALE CONSENTE DI SVOLGERE IN MODO NON FORMALE E CON I POTERI UFFICIOSI PROPRI DI ESSO...>>

Probabilmente la sentenza esprime una diversa sensibilità in ordine alle garanzie del processo, che il lettore più recente vede alla luce della dottrina e della esperienza che si è formata in tempi successivi (mi pare veramente grezzo l’assunto che una buona istruttoria di primo grado renda superflua prevederla anche in appello)

A parte ciò, è evidente la sostituzione del proprio apprezzamento discrezionale a quello del legislatore desumibile dal testo di legge: testo il quale, sembra dire la Corte costituzionale, non supera i limiti imposti dalle norme costituzionali , ma anzi, rispetto e tali limiti lascia un margine molto ampio e il condivisibile scopo di accelerazione si può realizzare addirittura in misura ben più grande di quanto il testo normativo sembra consentire ma che è tuttavia desumibile dai lavori preparatori e merita di essere valorizzato applicativamente .

Ed è un apprezzamento che sembra dettato dalla preoccupazione di prevenire i guasti di uno sconquasso che vari giudici di merito remittenti sembravano preparare contro le imminenti riforme processuali, date le eccessive censure mosse contro quel testo di legge.

La proposta interpretativa incontrò dei dissensi (v. nota 11): l’idea che i procedimenti in camera di consiglio siano stati previsti dal codice di rito al fine di offrire alle parti in contesa la soluzione delle controversie giurisdizionali che abbiano ad oggetto materie con ridotte esigenze istruttorie rispetto al normale era in effetti da ritenere senza fondamento.

Ma sopravvenne l’autorità della SC di cassazione con la sentenza n. 37 del 4 gennaio 1991 a confermare l’interpretazione della Corte costituzionale mediante lo stesso meccanismo di sostituzione del proprio apprezzamento di scopo a quello desumibile dal testo di legge secondo le parole usate e la loro connessione. E poi le Sezioni Unite il 03-05-1991 colla sentenza n. 4876 misero fine alle testimonianze del dissenso

A me, invece, pare doveroso rilevare come intimamente contraddittorio ciò che la Corte Costituzionale e la SC di cassazione stabilirono, ben oltre la giustificazione del testo di legge: che, cioè, all’appello del processo di divorzio e separazione si applicano molte regole tipiche dell’appello di rito contenzioso ordinario (termini di proposizione, possibilità dell’appello incidentale, prove da assumere in contraddittorio, specificità dei motivi..) benché non appaiano richiamate nella legge n. 74 del 1987; esse, per altro, devono essere “adattate dal giudice” alla diversa procedura (quella camerale, nata per definire casi in cui il contraddittorio è mancante ) per poter raggiungere quello scopo acceleratorio che è, secondo quegli alti interpreti, perseguito dalla legge stessa con evidenza indiscutibile ma imperfettamente formulata.

Mi pare invece che se (nel procedimento di divorzio e separazione coniugale) alla impugnazione che il legislatore chiama appello si devono di necessità applicare le regole fondamentali dettate nell’ambito del procedimento ordinario riguardo alla impugnazione che vi si chiama ugualmente appello (ma adattandole e in misura indeterminata), allora ci si trova di fronte ad un “appello di rito ordinario”, perché questo è il significato “proprio della parola”: e quelle deviazioni che il legislatore ha effettivamente dettato (nell’ambito del procedimento di divorzio e separazione) costituiscono “eccezione a regole generali” che non implicano ma vietano la creazione di ulteriori deviazioni dal sistema (artt. 12 e 14 disp. att. sulla legge in generale).

Mi pare abbia un significato anche il fatto che l’orientamento affermatosi ha provocato una vera mattanza di giudizi d’appello nelle cause in questione: per anni io stesso ho partecipato alla esecuzione, dichiarando inammissibili per tardività impugnazioni solo notificate ma non depositate in cancelleria nei termini degli artt. 325 e 327 c.p.c.

Come si spiega, allora, questo successo pieno che fu raggiunto da quelle pronunce presso la giurisprudenza successiva?

Posso dare, in proposito, solamente una testimonianza personale.

Presi ad occuparmi della questione al mio arrivo in Corte d’appello, dopo venti anni di specializzazione nelle controversie di lavoro.

Separazioni e divorzi, affidati alla mia Sezione, erano trattati all’udienza in camera di consiglio in cui erano sentiti i difensori, nell’ora che precedeva la discussione “collegiale” del rito ordinario (poche decine di minuti, solitamente) cui faceva seguito la camera di consiglio per la decisione.

Partecipavano spesso cinque e più relatori, ognuno dei quali aveva 4/5 (e più) fascicoli di “volontaria giurisdizione” (per la quale operava un specifica ripartizione della cancelleria); ognuno di essi aveva in aggiunta 4/5 e spesso più fascicoli di controversie ordinarie (testamenti, successioni ab intestato, espropriazioni, appalti contestati – anche di opere pubbliche -, controversie tributarie, contestazioni di stato etc.). Tutte sarebbero state riferite, valutate e decise nella giornata, anche nel pomeriggio più inoltrato.

Erano dunque occasioni fortunate le pronunce di inammissibilità dell’impugnazione, garantite dall’autorità delle due Corti maggiori. Il dubbio dell’errore interpretativo veniva ricacciato a forza. Lo studio era stato più breve. La discussione in camera di consiglio comodissima. Scrivere il provvedimento non avrebbe aggravato le altre fatiche.

Più in generale, quella valvola di adattamento delle regole dell’appello che Corte Costituzionale e Sezioni Unite della Cassazione vollero (= dovettero) offrire alle Corti di appello – dove quasi mai esistono sezioni specializzate in controversie sulla famiglia – è stata seducente anche perché consente molto spesso di risolvere intuitivamente e per generalizzazioni il tema della prova (per gli assetti economici; per la responsabilità; per l’affidamento dei figli), con insperata adesione al sentire dei singoli collegi decidenti.

Lo scopo di abbreviazione del processo di separazione e di divorzio perseguito dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione a rischio di violare i limiti del sistema, non sembra avere ottenuto, per altro, il maggior ricavo che le due Corti avevano preconizzato se è vero che nel 2004 i divorzi contenziosi si svolgevano in 581 giorni per il primo grado col rito ordinario ed in 507 per il secondo grado, col rito camerale

Oggi la trattazione delle cause di appello davanti alle Corti avviene comunque in forma direttamente collegiale: lo ha disposto già la legge n. 353 del 1990, me la sua entrata in vigore è avvenuta solamente nell’aprile 1995, come ben si sa; la stessa legge che ha adattato l’art. 130 disp. att. del c.p.c. con esso conservando, tuttavia, la prescrizione al collegio di “provvede[re] in camera di consiglio”.

Si potrebbe sensatamente rimediare l’errore e intraprendere una campagna per riaffermare il carattere pienamente ordinario del processo di appello nelle separazioni coniugali ed nel divorzio, anche per la necessità di introdurli colla citazione richiesta dall’ art. 342 c.p.c.?

Si rischierebbe una nuova stagione di mattanza, prima di ottenere il rispetto generalizzato della legge? quanti ricorsi verrebbero notificati alla controparte in tempo utile?

Il restauro si potrebbe fare, probabilmente, soltanto ritenendo tecnicamente sfruttabile il nuovo art. 184 bis : quando sopravviene un radicale mutamento della giurisprudenza consolidata su istituti del processo, la parte che ne subisce gli effetti negativi può essere ammessa a superare decadenze subite per avere senza colpa fatto affidamento sull’orientamento giurisprudenziale abbandonato.

Se, invece, si ritiene impossibile questo soccorso alla parte incolpevole danneggiata dal mutamento, converrà lasciare intatto il modo attuale di proporre l’appello nel processo di separazione e di divorzio ma, per il resto, applicare ogni norma dell’appello ordinario (termini, appello incidentale, intervento, limiti ai nova, preclusioni etc.).

In tal caso, l’unica differenza residua, confermata dalla legge all’art. 709 bis per la decisione in camera di consiglio, è data dall’applicazione del nuovo art. 130 disp.att. del c.p.c. invece dell’art. 352.

Nella situazione attuale, le regole del procedimento ordinario riescono traducibili nel procedimento di volontaria giurisdizione solo a forza e in maniera occasionale: col dubbio che ciò avvenga quando la difesa dell’una o dell’altra parte sia meno felice.

Così in una Corte si seguono modalità diverse che nella Corte contigua: e sono sempre tutte le migliori.

Mi risulta che presso la prima Sezione della Corte fiorentina, da qualche tempo si fissa l’udienza in camera di consiglio almeno cinquanta giorni dopo il ricorso (ma di solito sono tempi più lunghi) concedendo dieci giorni per effettuare la notifica alla controparte e invitando l’appellato a depositare la propria risposta almeno venti giorni prima dell’udienza, con ulteriori 10 giorni per la replica del ricorrente e ulteriori 5 giorni per una memoria opposta .

(In grande prevalenza le parti si comportano effettivamente secondo questo decreto. Ma chi non lo fa resta senza conseguenze, protetto dall’art. 152 c.p.c.)

I difensori e le parti sono sempre ammesse davanti al collegio, per completare e chiarire.

La decisione – anche istruttoria - è, quasi senza eccezione, riservata.

A Milano, mi si dice, il relatore porta la causa all’esame del collegio in una camera di consiglio cui le parti e i difensori non sono chiamati a comparire (dove pure la causa può essere già decisa in rito o in merito); ciò potrà avvenire successivamente se il collegio lo abbia ritenuto necessario ed opportuno

Altri, forse, ancora diversamente.

Mi pare una conseguenza grave e la conferma di un errore interpretativo.

Forse, le parti che non possono avere lo stesso giudice hanno diritto di avere almeno lo stesso processo.

Giovacchino Massetani