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Bersani e il processo civile

Il decreto Bersani, l'avvocatura e il processo civile.

di Claudio Cecchella

La legge di conversione del decreto legge n. 223/2006 conferma l'abrogazione, mediante strumento legislativo d'urgenza voluto dal Ministro Bersani, dell'assetto plurisecolare delle professioni e in particolare della professione forense – con le sue norme deontologiche sulla tariffa legislativamente approvata, sul divieto di un difensore che assuma le vesti della parte (nel tutelare insieme al diritto del suo cliente anche la quota della lite che gli spetta su base negoziale, oltre il compenso pattuito), e su di una composizione su base rigorosamente professionale delle associazioni –, in favore di una libertà di tariffa, di accordi quota-lite e di un accesso alle formazioni professionali plurisoggettive aperto ai soci di capitale, nelle forme delle società commerciali che si proiettano sul mercato con il veicolo della pubblicità.

In sostanza, l'avvocato si converte all'impresa commerciale, da artigiano che era, in favore di una conclamata tutela del libero mercato e dei consumatori, secondo un modello, quello nordamericano, che ha dato segni ben diversi da quelli espressi programmaticamente nella contingenza dall'esecutivo italiano.

La legge ha tuttavia anche ricadute fondamentali sul processo civile, cui forse l'esecutivo-legislatore non si è pienamente avveduto. Ancora una volta si abbandonano all'interprete gli effetti delle politiche economiche sul sistema giuridico, e particolarmente su quello processuale, e non si muniscono i lavori preparatori di qualche valido consulente, benché da tempo si auspichi da più parti che l'economista si accompagni finalmente al giurista.

Vediamone alcune.

Anzitutto, l'insieme di istituti processuali che assumono linfa vitale dalla tariffa legislativamente approvata, e non solo degli avvocati, come l'art. 633, nn. 2 e 3, c.p.c. che fonda il decreto ingiuntivo sulla parcella autorizzata, in applicazione della tariffa, dall'ordine professionale (art. 636 c.p.c.). Si tratta di un'abrogazione tacita?

Attraverso l'art. 2, comma 2-bis, dovuto alla legge di conversione, si deve pensare proprio ad una abrogazione tacita, poiché la regolamentazione dei rapporti economici dell'avvocato è destinato alla forma scritta a pena di nullità: e dunque dovrebbe avere vigore esclusivamente il n. 1 dell'art. 633 c.p.c.

Ma che accadrà nel caso in cui non vi sia un'espressa pattuizione scritta? Si dovrà forse applicare il 2° comma dell'articolo citato, ove è stabilito che il giudice liquida le spese di giudizio e i compensi, in caso di liquidazione giudiziale o di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale: su queste basi deve ritenersi sopravissuto alla rivoluzione Bersani il n. 2 dell'art. 633 c.p.c. e ritorna dalla finestra quella obbligatorietà della tariffa teoricamente cacciata dalla porta? Oppure per liquidazione giudiziale deve intendersi la sola liquidazione in sede di condanna alle spese, con esclusione del caso in cui il diritto al compenso sia dedotto in via principale? In questo secondo caso mi pare inevitabile che il rapporto tra avvocato e cliente venga trascinato in un regime di radicale nullità, che tra gli effetti elimini anche quello al compenso.

Propendiamo per la prima ipotesi, perché dell'art. 2233 c.c. è abrogato e sostituito il solo 3° comma (quello relativo, sotto pena di nullità e di danni, al divieto dei patti di quota-lite), mentre sopravvive il 1° comma, che recita: "il compenso se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionale a cui il professionista appartiene". Perciò se l'art. 2, 2° comma della legge di conversione viene letto unitamente all'art. 2233, 1° comma c.c., tutt'ora in vigore, è inevitabile pensare che il giudice debba comunque tener conto della tariffa, in difetto di pattuizione scritta tra avvocato e cliente (a cui. tuttavia, per buona norma dovrebbero addivenire le parti al momento del conferimento dell'incarico).

Conseguenze della nuova disciplina si producono pure sull'istituto della condanna alle spese (art. 91 c.p.c.), liquidate dal giudice in sentenza, sulla base, almeno sino ad oggi, della tariffa legalmente approvata, dal cancelliere a margine della sentenza per le spese relative, dall'ufficiale giudiziario per le spese di notifica degli atti prodromici alla esecuzione e dal creditore, con autoliquidazione, per i diritti e onorari di precetto. Sarà necessaria una ulteriore cognizione del giudice – anche quando dovesse distrarre le spese a favore del difensore ex art. 93 c.p.c. – sugli eventuali accordi di tariffa perfezionati tra la parte e il suo difensore e questi accordi che efficacia avranno nei confronti dell'altra parte soccombente e il giudice che poteri avrà nella liquidazione di essi? Secondo il citato 2° comma, il giudice potrà (o dovrà?) ignorare tali patti per determinarsi solo in relazione alle tariffe forensi?

L'idea che lo scrivente si è fatto è la introduzione di una duplice normativa: nel rapporto interno tra cliente e difensore dovranno valere solo gli accordi scritti che possono prescindere dalla tariffa (in difetto tutto cade nel regime "forte" della nullità e forse risorge per quanto abbiamo detto la tariffa); nel rapporto esterno, invece, quando l'onorario ha rilievo nel contesto della condanna alle spese dell'altra parte, perché soccombente, viene riesumata la tariffa secondo il più volte cit. art. 2, 2° comma (e viene un'idea un po’ perversa: forse il legislatore si è rappresentata l'idea che gli accordi scritti porteranno agli avvocati compensi ben maggiori, allineati a quelli nordamericani appunto, rispetto alla vituperata tariffa?).

Perciò esiste una quota di compenso che sfugge alla condanna alle spese del soccombente: è l'importo (eventualmente) superiore che per iscritto il vincitore ha concordato con il suo difensore al momento del mandato. Tutto ciò è veramente in linea con il principio costituzionale dell'art. 24 sul diritto di azione, che deve essere concepito come diritto di conseguire la tutela dei diritti senza onere alcuno, tanto meno l'onere di sobbarcarsi le spese di difesa oltre la tariffa legale?

Inoltre, paradossalmente, all'inverso si può pensare ad un ingiustificato arricchimento quando l'accordo sul compenso è inferiore alla tariffa: il vincitore viene ristorato oltre quanto effettivamente dovuto sostenere in forza del rapporto di mandato che lo legava al suo difensore, perché il giudice dovrà sempre ispirare il suo dictum alla tariffa.

La previsione contenuta nella formulazione originaria del decreto legge, invece, di una generale applicazione agli arbitri della tariffa degli avvocati, resuscitata sotto questo particolarissimo profilo, avrebbe potuto agevolare – almeno per l'arbitrato rituale, come si affrettava ad evidenziare il legislatore governativo – la liquidazione ex art. 814 c.p.c. dei presidenti dei nostri tribunali, anche in relazione a professionisti non iscritti all'albo degli avvocati.

In sostanza la tariffa defunta per i suoi effetti stragiudiziali e giudiziali in sede giurisdizionale acquisiva un'inusitata espansione nell'ambito dei compensi arbitrali. Della incongruenza si è avveduto almeno il legislatore della conversione, che ha sopresso la norma.

Ma il vero nodo qui era altro: quello della validità delle tariffe, spesso al di sotto delle previsioni forensi generalizzate, adottate dalle camere arbitrali, particolarmente quelle delle Camere di Commercio. Oggi forse, sotto questo particolare profilo, soccorre l'abrogazione della norma – nella previsione originaria del decreto legge sulla generalizzazione della tariffa degli avvocati nell'arbitrato rituale –, sostituita nel 2° comma dalla salvezza delle "eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti" (nelle quali vanno ricomprese le tariffe, spesso al di sotto della tariffa, degli arbitrati amministrati)

Infine il patto quota-lite: esso

vincola solo le parti o ha modo di emergere all'esterno e quindi potrà essere oggetto di accertamento nel giudizio, con un titolo esecutivo che si viene a formare non solo a favore della parte, ma anche di quella "parte" speciale che è l'avvocato, una sorta di "distrazione"applicata alla quota? Oppure si preferirà il sorgere, accanto alla cognizione del diritto, di un processo autonomo di cognizione tra avvocato e cliente, volto a conoscere il riparto del diritto e il frammento di cui potrà godere l'avvocato, il tutto con buona pace dei principi di economia dei giudizi civili.

A nostro parere l'effetto sostanziale del patto quota-lite di cessione del diritto a favore del difensore non può non emergere processualmente anche nei confronti dell'altra parte, se sono realizzate le formalità per consentirne un'efficacia verso i terzi.

Si deve perciò ritenere la piena ammissibilità di una formazione, nel contesto della stessa controversia principale sul diritto, di un titolo esecutivo a favore dell'avvocato, in forza del patto che lo lega al suo mandante, per una serie di elementari ragioni processuali.

Si tratta infatti di un caso evidente di litisconsorzio facoltativo, essendovi connessione oggettiva tra le due cause, per identità di titolo. L'avvocato con domanda autonoma farà valere la quota del diritto di cui si è reso cessionario in forza del patto quota-lite (se poi la cessione avviene in corso di causa, sarà necessario dare applicazione all'art. 111 c.p.c.).

Se la quota viene intesa come diritto integrativo del compenso spettante al professionista, probabilmente soccorre anche una disposizione come l'art. 93 c.p.c. sulla distrazione delle spese e degli onorari: il difensore potrà chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in suo favore il compenso non riscosso rappresentato dalla quota della lite a lui spettante.

La diversa giustificazione di un incidentale accertamento sulla quota "ceduta" al difensore, ai fini della formazione di un titolo esecutivo, ha tuttavia rilievo sulle forme e i tempi della formulazione della relativa domanda, consentita nel primo caso soltanto quando è ancora consentito all'interveniente volontario la formulazione di domande (ovvero sino a quando il convenuto può ex art. 167 c.p.c. proporre domande riconvenzionali: cfr. l'art. 268, 2° comma, c.p.c.). Nel secondo caso, invece, la distrazione potrà essere richiesta anche al momento della precisazione delle conclusioni.

Ma gli aspetti più rilevanti sono evidentemente sul piano deontologico, imponendosi tutta una rimeditazione della posizione del difensore, mandatario e parte, e delle ipotesi di conflitto di interesse e dei riflessi delle medesime sul piano processuale (questo tema invero che compete al legsilatore). Qui la lacuna della legge è impressionante, dovendosi sperare in un intervento, almeno sul piano deontologico, dell'ordine forense.

Siano consentite alcune considerazioni conclusive.

In un recente passato – ma la stagione sembra tramontare – si è detto che il toccasana della giustizia civile fossero le vie alternative al giudizio, particolarmente la conciliazione, ove la parte nelle reciproche concessioni imposte dal sistema, incapace di dare tutele, sacrificava il suo diritto nella sua interezza a favore all'altra; oggi il toccasana è sempre la riduzione dei diritti, ma la quota che si perde irrimediabilmente ha come destinatario non l'altra parte, ma il proprio avvocato e questo va nella direzione della tutela del consumatore, nel senso che i diritti si consumano irrimediabilmente e definitivamente.