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La nuova revocatoria fall.

La nuova azione revocatoria fallimentare, tra conferme e limitazioni alla teoria antindennitaria.

di Claudio Cecchella

docente di diritto processuale civile e diritto fallimentare presso l’Università di Pisa

A seguito della riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare si riaccende il dibattito tra la teoria indennitaria e antindennitaria, nella ricostruzione generale di istituto, e i primi interpreti si interrogano sulla coerenza con il nuovo assetto normativo della giurisprudenza del giudice di legittimità, sotto il regime previgente schierata rigidamente in linea con la seconda.

La riforma dell’azione revocatoria è dovuta, oltre al d. lgs. n. 5 del 2006 e in parte minimale al d. lgs. n. 169 del 2007, soprattutto alla legge n. 80 del 2005.

L’intervento, contrariamente alle aspettative di alcuni interpreti, sostenitori della teoria c.d. indennitaria, tesa ad assimilare l’azione fallimentare a quella ordinaria in un'unica ratio di tutela della garanzia patrimoniale contro i danni ad essa provocati dagli atti di disposizione dell’imprenditore (“eventus damni”), la quale aveva enormi difficoltà di radicarsi su solide basi positive nel recente passato, non ha sovvertito l’inquadramento dogmatico e sistematico dell’istituto, il quale continua, anche dopo le novelle susseguitesi nel tempo, a contraddistinguersi per la sua specialità rispetto all’omologo di diritto comune.

L’intervento della riforma ha il più limitato obiettivo di limitare le conseguenze estreme della c.d. teoria antidennitaria, che prescinde nell’inquadramento della fattispecie presipposta dall’azione da un pregiudizio alla garanzia patrimoniale, investendo l’istituto della sola ed esclusiva tutela della par condicio creditorum, bene che pone su un piano di totale irrilevanza l’eventus damni, ma non introduce una disciplina positiva da cui possa prendere le mosse una soluzione di continuità nell’inquadramento tradizionale, particolarmente dovuto all’esperienza giurisprudenziale.

Infatti il legislatore della riforma si limita:

- ad intervenire sull’art. 67, 1° e 2° comma, dimezzando i “periodi sospetti” all’interno dei quali il perfezionamento dell’atto è passibile di inefficacia, come risultato dell’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare (salvo precisare quantitativamente lo squilibrio sinallagmatico presupposto dall’art. 67, 1° comma);

- ad introdurre nella citata disposizione, nel suo 3° comma, una serie di specialissime esenzioni la cui ratio è variamente espressa, dalla tutela di creditori “deboli” come gli acquirenti della prima casa o i lavoratori; alla tutela della autonomia (concordati stragiudiziali e giudiziali, piani di risanamento) come modalità alternativa per la risoluzione della crisi dell’impresa; alla diminuzione degli effetti perversi dell’azione quando ha ad oggetto le rimesse nel conto corrente bancario o i pagamenti nei termini d’uso (solo queste ultime ipotesi normative introducono, come vedremo, un’attenuazione degli effetti estremi della teoria antindennitaria);

- a coordinare la previsione di una disciplina fallimentare dei patrimoni separati con gli effetti dell’azione revocatoria, art. 67 – bis ( anche in questo limitato contesto per un evidente favore verso la disposizione di patrimonio separati, si stabilisce che si tratta di atti revocabili “quando pregiudicano il patrimonio della società”);

- ad abrogare la c.d. presunzione muciana (art. 70) e a riscrivere la disposizione sugli atti di disposizione tra i coniugi (art. 69), in coerenza con un trentennio di giurisprudenza che ha tentato di coordinare la disciplina fallimentare con la riforma del diritto di famiglia;

- a regolare decadenze e prescrizioni, innanzi alla lacuna del recente passato, art. 69 – bis;

- a far trasmigrare la disposizione sugli effetti della revocatoria per il terzo contraente, oggi inserita nell’art. 70, e non più nell’abrogato art. 71;

- altre disposizioni si rinvengono nella disciplina dei concordati (art. 124, 4° comma) e della liquidazione dell’attivo (art. 106) e regolano la cessione dell’azione revocatoria, istituto peraltro già noto nel regime previgente.

Si tratti di interventi, che per un verso traducono e razionalizzano orientamenti consolidati in giurisprudenza (la disciplina degli atti tra e dei coniugi; la disciplina di decadenze e prescrizioni) oppure tutelano valori e principi nuovi, come la tutela dell’acquisto della prima casa oppure del pagamento dei lavoratori oppure, ancora, di una risoluzione privata della crisi dell’impresa, ma che intervengono in modo assai attenuato sui valori sottesi alla disciplina positiva dell’azione dovuti all’impianto originario (sotto questo profilo l’art. 67 resta inalterato).

L’intervento è solo destinato ad attenuare gli effetti estremi della teoria antindennitaria, escludendo dalla revocatoria i pagamenti nei termini d’uso, la costituzione dei patrimoni separati in difetto di pregiudizio alla garanzia patrimoniale, le rimesse in conto corrente che non riducono in modo consistente e duraturo l’esposizione e quindi con il solo intento di limitarne alcune conseguenze estreme oppure riducendo i periodi “sospetti”.

1) Si deve infatti dire che il persistente inquadramento speciale dell’azione revocatoria fallimentare, volta a tutelare in via esclusiva il bene della proporzionalità degli effetti dell’insolvenza sul ceto creditorio, nella disciplina previgente poteva condurre a risultati perversi, destinati a minare le residue basi di risanamento dell’impresa innanzi ad una crisi ancora reversibile, laddove venivano colpiti anche atti ordinari di conduzione dell’impresa come i pagamenti e il periodo sospetto si prolungava nel tempo sino a due anni dalla dichiarazione di fallimento, minando le basi di sicurezza dei rapporti contrattuali dell’imprenditore e l’affidamento del contraente (non si dimentichi ad esempio che in Germania il periodo sospetto si riduce a tre mesi con esclusione degli atti ordinari di gestione; e nei paesi di common law a sei mesi).

2) Poi i rischi discendenti dagli effetti perversi della revocatoria delle rimesse in conto corrente, in termini, per l’ipotesi più favorevole, di controllo rigido della banca sugli sconfinamenti o, per quella meno favorevole, di “gestioni” del conto destinate a prolungare nel tempo l’agonia dell’impresa verso un decesso certo, sono scongiurati dalla attenuazione dei presupposti ed effetti dell’azione, anche se qualche commentatore ideologicamente orientato ha interpretato l’intervento solo come un favore verso l’impresa bancaria.

Pertanto deve essere ribadita la persistente ratio dell’azione fallimentare radicata sul principio della tutela della par condicio dell’azione revocatoria fallimentare comparata con la ratio indennitaria dell’azione revocatoria ordinaria le specialità dell’azione, se comparate con la tutela del creditore fuori dall’insolvenza.

Se il rapporto obbligatorio si colloca nel contesto di una relazione tra privati non imprenditori oppure corre con un imprenditore non insolvente, il principio della parità dei creditori nel soddisfacimento del credito con l’escussione del patrimonio del debitore resta sullo sfondo della tutela giurisdizionale che è abbandonata all’iniziativa dei singoli creditori, i quali possono giovarsene soltanto se si attivano mediante atti di impulso individuale, nelle forme del processo cautelare conservativo o di condanna esecutiva oppure utilizzando i mezzi di tutela della garanzia patrimoniale innanzi all’inerzia del debitore nell’esercizio dei diritti (azione surrogatoria) o alla attività del debitore pregiudizievole per la garanzia patrimoniale (azione revocatoria). Tutte azioni che conducono ad effetti di cui può godere solo il singolo creditore agente.

La riprova scaturisce anche dalla disciplina degli interventi tempestivi e non tempestivi dei creditori nell’esecuzione singolare, che presuppongono una tutela esecutiva o cautelare del credito (art. 499 c.p.c.).

Quando si perfeziona invece la fattispecie che da origine alla applicazione del diritto concorsuale, ovvero il rapporto corre con un imprenditore insolvente, la cui insolvenza è accertata giudizialmente, il principio della par condicio assurge a ragione esclusiva del sistema, il quale assume, ancora una volta, una regola dalla scienza economica, secondo la quale, per la stabilità del mercato e del sistema economico, è opportuno che l’insolvenza dell’imprenditore si distribuisca in maniera equa e proporzionale sul patrimonio di tutti i creditori.

Si tratta di un principio di ordine pubblico, che necessita di un'effettività che prescinde da un'iniziativa spontanea del creditore.

Nel diritto concorsuale l’attuazione del trattamento paritario dei creditori infatti non è più abbandonata all’impulso individuale, ma costituisce la finalità principale dell’azione dell’organo fallimentare e giustifica istituti come il divieto di azioni individuali o la partecipazione necessaria al riparto, ma incide particolarmente sulla disciplina e la ratio dell’istituto dell’azione revocatoria, esercitata dal curatore e di cui si possono giovare tutti i creditori.

L’azione revocatoria ordinaria, la cui disciplina comune l’interprete trae dagli artt. 2901 e ss. c.c., ha lo scopo di reintegrare la garanzia patrimoniale dalle aggressioni che hanno matrice negli atti di disposizione del debitore (quando l’atto di disposizione non è ancora perfezionato l’effetto di preservare il patrimonio del debitore è da ricercare nell’azione cautelare del sequestro conservativo e, qualora il creditore sia già munito di un titolo esecutivo, nell’azione esecutiva mediante pignoramento).

A) L’azione presuppone, pertanto, che attraverso l’atto di disposizione si rechi pregiudizio al creditore ovvero si alteri qualitativamente o quantitativamente la garanzia patrimoniale. Sotto il primo profilo perché le componenti del patrimonio si modificano rendendo anche solo più difficile l’azione del creditore (ad esempio un bene immobile viene sostituito con denaro, meno facilmente aggredibile perché occultabile all’escussione del creditore). Sotto il secondo profilo perché le componenti del patrimonio sono diminuite per l’alienazione di un diritto oppure per l’acquisizione di un obbligo (il legislatore esemplifica mediante le prestazioni di garanzie, anche a favore di terzi, cfr. l’art. 2901, 2° comma, c.c.).

Si tratta del danno patrimoniale (“pregiudizio alle sue ragioni”, art. 2901, 1° comma c.c.), il cui onere della prova, come fatto costitutivo, è a carico del creditore che agisce, all'origine del diritto di privare di effetti, mediante sentenza costitutiva, l’atto di disposizione del debitore, nel senso di riaprire per il creditore agente, e solo per lui, la prospettiva di una aggressione esecutiva sul suo oggetto (art. 2902, 1° comma, c.c.).

Se l’atto di disposizione è dovuto, perché costituisce l’adempimento di un rapporto obbligatorio, come nel caso del pagamento di un debito scaduto (art. 2901, 3° comma, c.c.), è escluso dall’ambito di applicazione dell’azione revocatoria, perché incide legittimamente sul patrimonio del debitore (questa è la riprova di quanto la par condicio non sia, fuori dell’insolvenza dell’imprenditore, principio a cui l’ordinamento attinge in via esclusiva). Così è da ritenere un atto di disposizione di un bene il cui ricavato è destinato integralmente a soddisfare creditori muniti di prelazione e garantiti dal bene compravenduto.

B1) Naturalmente l’illecito perfezionato mediante l’atto di disposizione, come ogni altro illecito, accanto ad un elemento materiale deve manifestarne uno soggettivo, che la legge (art. 2901, 1° comma, n. 1 c.c.) traduce in un dolo generico, ovvero nella semplice consapevolezza di arrecare pregiudizio e, nel caso di atto a titolo oneroso perfezionato anteriormente al sorgere del credito, in un dolo specifico (la preordinazione dolosa).

B2) Il legislatore correttamente si pone anche dal punto di vista di chi contrae con il debitore, tutelando l’affidamento ed escludendo dagli effetti della revocatoria i terzi inconsapevoli che ignorano il pregiudizio arrecato dall’atto di disposizione (art. 2901, 1° comma, n. 2 c.c.). Tale tutela tuttavia si arresta innanzi al carattere non oneroso dell’atto di disposizione (è il caso degli atti di liberalità, ove è irrilevante lo stato soggettivo del terzo). Invece nel caso degli atti a titolo oneroso, oltre al dolo del debitore, come elemento costitutivo del diritto è richiesta la consapevolezza del pregiudizio o la partecipazione alla dolosa preordinazione (nel caso in cui il credito insorga successivamente all’atto di disposizione).

C) Il terzo contraente, ad ulteriore riprova della minore attenzione verso la par condicio, ancorché abbia subito delle diminuzioni patrimoniali aventi causa nell’atto di disposizione e sia quindi titolare di un diritto alle restituzioni a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria, non è trattato come un comune creditore e vede la sua situazione collocata in una posizione deteriore, potendo soddisfarsi esclusivamente all’esito dell’azione del creditore (art. 2902, 2 comma c.c.).

A seguito della dichiarazione di fallimento, che accerta l’insolvenza dell’imprenditore commerciale, la par condicio assume un ruolo assolutamente centrale e l’ordinamento, come regola di ordine pubblico, distribuisce su tutto il ceto creditorio le conseguenze dell’insolvenza, non potendo tollerare che alcuni creditori possano avvantaggiarsi rispetto ad altri, in un’accezione assai lata del ceto creditorio, ricomprendendovi anche il terzo contraente, che a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria diventa titolare di un credito alla restituzione della prestazione.

1) Ne risulta, come effetto dell’applicazione del diritto concorsuale alla fattispecie dell’imprenditore commerciale insolvente, la modifica degli elementi costitutivi e quindi inevitabilmente della ratio dell’azione revocatoria.

Quest’ultima non attinge più alla esigenza di reintegrare la garanzia patrimoniale nelle sue componenti qualitative e quantitative originarie, che è obiettivo assolutamente sullo sfondo della tutela, essendo prioritario lo scopo di ristabilire la parità ovvero l’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza presso i debitori.

La prova di tale intensa modificazione dell’azione revocatoria è nella estensione della tutela, che non trascina nella sfera dell’inefficacia i soli atti che inducono un pregiudizio alle ragioni dei creditori, ma anche gli atti che alterano la par condicio e che non sarebbero revocabili secondo la disciplina comune. Ad esempio i pagamenti di debiti scaduti (art. 67, 2° comma) o gli atti di disposizione ancorché destinati a soddisfare integralmente i creditori che hanno garanzia sul bene di cui si è disposto. Anche gli atti della gestione ordinaria dell’impresa, ovvero le vendite o acquisti a prezzo pieno, benché astrattamente inidonei ad alterare la garanzia patrimoniale perché nell’ipotesi peggiore conservano la dimensione originaria del patrimonio, se compiuti dall’imprenditore insolvente poi dichiarato fallito sono revocabili. Neppure la previsione dell'art. 67, 3° comma, di un'esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti nei termini d'uso (quindi dei soli pagamenti e non delle vendite o degli acquisti), inficia il ragionamento.

L’azione, quindi, non rinviene tra i suoi elementi costitutivi quel pregiudizio alla garanzia patrimoniale che invece è presupposto del diritto a rendere inopponibile l’atto al creditore nella revocatoria di diritto comune. La tutela al contrario muove dal semplice compimento dell’atto di disposizione in una situazione di insolvenza e prescinde o relega in una posizione di mera irrilevanza l’eventus damni.

2) Ha invece rilievo un altro presupposto: il perfezionamento dell'atto quando l'imprenditore è insolvente, perché quello è il momento in cui si realizza il disegno di alterare la par condicio, non essendo più l'imprenditore libero nelle sue manifestazioni di autonomia ma costretto dalla necessità di far fronte alla sua crisi di liquidità, alla impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.

Tuttavia il momento in cui l’impresa entra in stato di insolvenza è evento incerto e la dichiarazione di fallimento sopravviene in un tempo indefinito senza che l’accertamento, compiuto nel procedimento che la precede, individui il tempo in cui può definirsi temporalmente l’insorgere dei primi sintomi di insolvenza (secondo il diverso modello di diritto comparato dell’esperienza francese e belga). Per questa ragione il legislatore ha preferito, per esigenze di certezza, individuare in modo preciso i periodi sospetti, ovvero i periodi nei quali con presunzione iuris et de iure si è manifestata l’insolvenza dell’imprenditore (in una sorta di retrodatazione, ai soli effetti dell’azione revocatoria, degli effetti della dichiarazione di fallimento). I periodi sospetti inoltre, che variano da due ad un anno o a sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, sono diversamente regolati in funzione della natura dell’atto di disposizione e del maggior o minor grado di incidere sulla par condicio (cfr. artt. 64, 65, 67 ).

2) Ma anche l’elemento soggettivo dell’illecito si modifica: la consapevolezza del pregiudizio da parte dell’imprenditore è in re ipsa e nasce dalla coscienza dell’insolvenza che l’imprenditore non può non avere. Lo stato soggettivo del terzo corrispondentemente non ha più ad oggetto la generica consapevolezza o la specifica preordinazione dolosa dell’eventus damni (che, abbiano veduto, è irrilevante), ma ha ad oggetto la insolvenza, che, abbiamo veduto, costituisce la ragione d'essere dell’azione revocatoria. Il creditore o il terzo che è stato parte di un atto di disposizione gode di una tutela dell’affidamento che non oltrepassa la soglia della generica consapevolezza che l’imprenditore versasse in stato di insolvenza: se ha trattato con un imprenditore insolvente e ne è cosciente o la sarebbe stato con l'ordinaria diligenza sulla base di indici sintomatici che costituiscono la base di un ragionamento presuntivo, vedrà privare di effetti l’atto di cui è destinatario e sarà allineato agli altri creditori.

2a)Per taluni atti, come quelli a titolo gratuito o, ad essi molto prossimi, come ad esempio i pagamenti di crediti non scaduti e scadenti dopo la dichiarazione di fallimento, la tutela dell’affidamento non ha neppure luogo e innanzi all’intollerabile vantaggio del creditore o del terzo l’ordinamento impone sul piano oggettivo l’inefficacia dell’atto compiuto in stato di insolvenza (artt. 64 e 65), ma qui il regime della revocatoria ordinaria non è dissimile (art. 2901, 1° comma, c.c.).

2b) Per altri atti, c.d. anormali perché non rientrano negli atti che un imprenditore solvente compie e la cui stessa natura è perciò indice di insolvenza, la legge presuppone lo stato di insolvenza, caricando il creditore o il terzo contraente dell’improbo onere di provare la mancanza della scientia decoctionis, è il caso dei contratti a prestazione sproporzionate (con superamento della soglia del 25% del valore della prestazione rispetto alla controprestazione), dei pagamenti con mezzi anomali, come datio in solutum, e infine delle garanzie non acquisite contestualmente al sorgere del credito, bensì in relazione ad un credito preesistente (cfr. l’ art. 67, 1° comma nn 1, 2, 3 e 4).

2c) Infine, per gli atti c.d. normali, come i pagamenti di debiti scaduti o la costituzione di garanzie contestuali al credito (art. 67, 2° comma), come fatto costitutivo della domanda la prova della scientia decoctionis grava l’attore, ovvero il curatore.

Ma la diversità non può non avere un significativo riscontro anche sul piano degli effetti, ove ancora sono le esigenze della insolvenza ad imporre la diversa regolamentazione.

- Si è insistito sulla riferibilità dei risultati della revocatoria ordinaria al solo creditore agente o al massimo ai creditori intervenuti; nel fallimento al contrario degli effetti della revocatoria esercitata dal curatore si giovano, in forza delle leggi sul concorso, necessariamente tutti i creditori.

- Anche il terzo contraente che dall’accoglimento della revocatoria vede costituirsi il diritto di natura obbligatoria alle restituzioni e ai rimborsi è trattato – in contrasto con la diversa disciplina della revocatoria di diritto comune ex art. 2902, 2° comma, c.c. – come un comune creditore e in forza della par condicio partecipa al concorso e perciò può insinuare il relativo diritto al passivo fallimentare (tenore previgente dell'art. 71; norma oggi inserita nel secondo comma dell'art. 70). Questa disposizione più di ogni altra giustifica la diversa ratio della revocatoria fallimentare, fondata sulla par condicio creditorum.