14/12/07 Conclusione delle lezioni
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Con la lezione del 13 dicembre 2007 si è concluso il corso di Diritto processuale civile per l'anno accademico 2007/2008, si pubblicano gli ultimi appunti e schemi. Appuntamento agli esami che si tengono il 21/12/07, 18/01/08 e 15/02/08.

lettera n.8 by Claudio Cecchella
Appunti sulla cognizione piena5 by Claudio Cecchella
Appunti sulla cognizione piena4 by Claudio Cecchella
Appunti sulla cognizione piena3 by Claudio Cecchella

Appunti sulla cognizione piena3

Lezioni di diritto processuali civile

Anno accademico 07/08

(Prof. Claudio Cecchella)

3 Il rito dei processi familiari e fallimentari

3.1. Le ragioni del problema interpretativo.

Il legislatore della riforma generale del processo civile, con la legge n. 353 del 1990, non si è avveduto della necessità di coordinare il nuovo rito con procedimenti che seguono, in relazione alla fase a cognizione piena le regole generali, ma che si caratterizzano per una tecnica introduttiva che segue un regime speciale, per lo più caratterizzato dalla introduzione mediante ricorso e dallo svolgimento necessario di una fase sommaria di cognizione che precede quella a cognizione piena, senza che vi sia una soluzione di continuità tra il processo sommario necessario preliminare e il processo a cognizione piena successivo.

E' il caso, da un lato, dei procedimenti in materia di diritto di famiglia e particolarmente dei procedimenti per separazione e divorzio, ove ai sensi dell'art. 706 c.p.c. il processo si introduce mediante ricorso e necessariamente mediante una fase sommaria innanzi al presidente del tribunale, al fine di offrire ai coniugi con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti, cui segue senza soluzione di continuità la nomina del giudice istruttore e la fissazione di udienza innanzi a questi affinché il processo prosegua nelle forme della cognizione piena (art. 708, 3° comma c.p.c. e art. 4, 3° e 8° comma, legge n. 898 del 1970). La disciplina poc'anzi ricordata evidenzia una tecnica di introduzione del processo a cognizione piena assai diversa da quella usuale (citazione con l'immediato avviarsi di un procedimento a cognizione piena).

Lo stesso tema si profilava - essendo oggi con la riforma dovuta al d. lgs n.5/06 tutto il rito fallimentare di cognizione regolate da forme speciali per lo più camerali, ma ibride, che appaiono assai più simili ad un nuovo rito speciale - in relazione ai giudizi di cognizione soggetti allo speciale regime della legge fallimentare, come il giudizio di opposizione alla sentenza dichiaratrice di fallimento (art. 18 l. fall.) o allo stato passivo (art. 98 l. fall.), i giudizi relativi a domande tardive e l'impugnazione dei crediti ammessi (artt. 100 e 101 l.fall.), i giudizi di revocazione dei crediti ammessi (art. 102 l.fall.), i giudizi di rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili (art. 130 l. fall.). Sino alla originale tecnica del giudizio di omologazione del concordato, ove la domanda introduttiva assumeva la forma del ricorso (art. 161 l. fall.), a cui seguiva una fase sommaria ai fini dell'ammissione alla procedura (art. 163 l. fall.) nella quale, con una tecnica molto simile al giudizio per separazione e divorzio, una volta raggiunta la maggioranza dei creditori, lo stesso giudice delegato fissava un'udienza innanzi a sé per lo svolgimento nelle forme della cognizione piena del giudizio di omologa (art. 180 l. fall.).

Il problema che si pone è quello di individuare, nello svolgimento della fase di trattazione, a quale udienza si deve fare riferimento nei procedimenti in esame, in relazione all'udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c., con tutte le conseguenze poste dal maturarsi delle preclusioni già in vista di tale udienza e nel croso di essa: si tratta dell'udienza innanzi al presidente nei giudizi di separazione e divorzio? si tratta dell'udienza che segue il deposito del ricorso nei giudizi fallimentari? oppure l'udienza fissata dal giudice delegato a seguito dell'approvazione della proposta di concordato ai creditori o l'udienza fissata dal presidente in sede di separazione e divorzio?

Queste domande sono di estrema importanza poichè una risposta diversificata alle stesse provoca un differente regime anche dei riferimenti necessari al maturarsi delle preclusioni e decadenze tipici della fase di trattazione.

3.2. I procedimenti per separazione e divorzio.

In relazione ai procedimenti per separazione e divorzio si è manifestato un orientamento volto a inserire forzatamente la fase sommaria nella fase a cognizione piena e quindi a considerare coincidente l'atto introduttivo, in occasione del quale matura la preclusione in relazione alle domande, con il ricorso e con la memoria di costituzione del resistente nella fase sommaria e, quindi, in coerenza di considerare l'udienza presidenziale già come udienza ex art. 183 c.p.c., a cui segue innanzi al giudice istruttore una fase ormai coincidente con l'ulteriore trattazione, prima della novella del 2005. Tale orientamento è stato fatto proprio dalla giurisprudenza del tribunale di Milano (Trib. Milano 27 giugno 1997, in Diritto di famiglia delle persone, 1998, 1009).

Tale orientamento non è assolutamente da condividere, poichè, per un verso manca l'avvertimento di cui all'art. 163 c.p.c. al convenuto di costituirsi entro 20 giorni anteriori all'udienza presidenziale, potendo tra l'altro questa tenersi, come spesso accade nei tribunali minori, con una dilazione anche inferiore ai 20 giorni, e, per altro verso, la fase presidenziale si caratterizza per uno svolgimento estraneo alla cognizione piena essendo esso funzionale ai provvedimenti anticipatori sommari dettati per ragioni temporanee ed urgenti e di carattere anticipatorio.

E' proprio la specialità del regime introduttivo, con le particolarità poc'anzi evidenziate, a far ritenere errata la prospettiva milanese e preferibile una ricostruzione che identifichi l'udienza dell'art. 183 c.p.c. nell'udienza che si svolge innanzi al G.I. nominato al termine della fase presidenziale (è l'orientamento assolutamente prevalente, cfr. Cass. 7 febbraio 2000, n. 1332; Cass. 3 dicembre 1996, n. 10780, in Famiglia e diritto, 1997, 247). In tal modo le parti avranno agio, depositando memorie entro 20 giorni anteriori a tale udienza, di poter dedurre anche nuove domande e da quella udienza inizierà a maturare la sequela delle preclusioni secondo le regole generali.

Questa peraltro, dopo la legge n. 80 del 2005, è la soluzione adottata con la riscrittura dell'art. 709 c.p.c.: il presidente al termine della fase sommaria fissa alle parti un termine perentorio per il deposito di memorie integrative delle difese soggette a preclisione e innanzi al g.i. udienza ex artt. 183 c.p.c.

3.3 I procedimenti fallimentari.

In relazione ai procedimenti fallimentari permaneva la problematicità della introduzione per ricorso, senza avviso al convenuto di costituirsi entro termine perentorio a pena di decadenza dalle domande e particolarmente per il procedimento per la dichiarazione tardiva dei crediti, esiste la specialità di un'udienza nella quale deve essere preliminarmente verificato l'eventuale accordo ai fini di un'immediata ammissione con decreto oppure la necessità di proseguire nelle forme della cognizione piena.

Si è profilato un indirizzo volto a ritenere che l'udienza dell'art. 180/183 c.p.c. coincidesse con l'udienza fissata dal giudice mediante il decreto in calce al ricorso, salvo il caso della domanda di insinuazione tardiva dei crediti, nella quale per la specialità di tale udienza, si preferiva ritenere che l'udienza dell'art. 180 c.p.c. coincidesse con la successiva udienza fissata dal giudice istruttore in occasione della quale iniziavano a maturano le preclusioni.

Era preferibile, invece, seguire la prassi di numerosi tribunali secondo la quale l'udienza di comparizione delle parti fissata dal giudice delegato era mera udienza di comparizione personale del curatore, nella quale veniva poi stabilita l'udienza ex art. 180/183 c.p.c., rispetto alla quale decorrevano i termini di legge.

Tale carattere preliminare dell'udienza consentiva al curatore assai spesso di farsi autorizzare la costituzione in giudizio oppure di evitarla quando vi erano ragioni per preferire un accoglimento immediato della domanda o per una conciliazione, particolarmente nei giudizi di opposizione o di insinuazione tardiva dei crediti.

Il tema fa parte ormai della storia poiché oggi, dopo le riforme con i dd.lgs. nn. 5/06 e 169/07 il modello è tutto diverso, avendo il legislatore preferito l'adozione di un processo camerale ibrido, che del rito camerale ha poco più dell'etichetta, essendo in realtà un processo ordinario di rito speciale, tanto sono le peculiarito normative che depongono in tal sensi , cfr. gli artt. 15, 18, 26, 99 e ss. l. fall.

3.4. Il processo possessorio.

Problematica assai simile pone il processo possessorio, il quale richiama nella sua prima fase necessaria il regime del processo cautelare uniforme (art. 703, 2° e 3° comma c.p.c.) e perciò è introdotto con ricorso, cui segue all'esaurimento di una fase sommaria, il provvedimento interinale nel quale il giudice fissava, prima della novella del 2005, una successiva udienza innanzi a sé per la prosecuzione, nelle forme della cognizione piena.

Esclusa la fondatezza di quelle tesi estreme volte a negare un giudizio a cognizione piena sul possesso e secondo le quali l'iter procedimentale si esaurirebbe esclusivamente con la fase sommaria, era da ritenere che in realtà con il provvedimento interinale il giudice fissasse l'udienza per la prosecuzione nelle forme ordinarie e che questa udienza coincidesse con l'udienza ex art. 183 c.p.c. (Cass. S.U. 24 febbraio 1998, n. 1984, in Foro it. 1998, I, 1054), venti giorni prima della quale potevano essere proposte eccezioni riservate dalle parti e non domande riconvenzionali o domande nei confronti di terzi mediante chiamata le quali devono già essere formulate con gli atti introduttivi che preludono la fase sommaria (contra Pret. Bologna 9 aprile 1998, in Giur. it. 1998, I, 2, 2069; conf. Pret. Nola 17 luglio 1998, in Gius., 1999, I, 2, 132).

La diversa soluzione prospettata si giustificava per il fatto che non esisteva una domanda sommaria diversificata da una domanda di merito, poichè con il ricorso introduttivo si introduceva nella sostanza una domanda di merito e quindi con essa possono consumarsi - già negli atti che avviano la fase sommaria - i poteri relativi alla formulazione delle domande.

La novella del 2005 ha riscritto l'art. 703, 4° comma cpc, prevede la sola eventualità del giudizio di merito su istanza - in termine perentorio di sessanta giorni - di una delle parti. In difetto non vi sarà più merito possessorio (e quindi giudicato), tutto risolvendosi nella stabilità della sola tutela interinale sommaria.

Con la istanza di introduzione del merito il giudice fissa il termine per la integrazione delle attività assertive delle parti e l'udienza innanzi a sé ai sensi dell'art. 183 c.p.c, soluzione quest'ultima che si impone nonostante il silenzio della disposizione.

4. Il rito del lavoro.

4.1. Ambito di applicabilità.

A differenza del rito ordinario, di generale applicabilità in relazione alle materie non escluse e comunque mediante procedimenti di interpretazione analogica, il rito del lavoro ha un ambito di applicabilità fissato rigorosamente nell'art. 409 c.p.c. e nell'art. 447 bis c.p.c., coinvolgendo per lo più rapporti di lavoro in senso stretto (n. 1 dell'art. 409 cit., nell'ambito privato, anche se non inerenti l'esercizio dell'impresa e nn. 4 e 5 nell'ambito del diritto pubblico, sia in relazione ad enti pubblici economici, sia in relazione allo Stato e ad enti pubblici in senso stretto, quest'ultima materia particolarmente a seguito della legge n. 80 del 1998 che ha devoluto il pubblico impiego alla giurisdizione ordinaria del giudice del lavoro) oppure rapporti agrari assimilabili a quelli del lavoro (n. 2 dell'art. 409 c.p.c.) oggi tutti confluiti nell'affitto a coltivatore diretto, e con esclusione dell'affitto non a coltivatore diretto, a seguito della conversione ex lege dei patti agrari e devoluti, quanto alla competenza, per quanto stabilito dall'art. 9 legge n. 29 del 1990, alla competenza della sezione specializzata agraria) e ai rapporti di lavoro autonomo c.d. parasubordinati, caratterizzati oltre che dalla continuità del rapporto (da intendersi come non occasionalità) e dal suo coordinamento con le finalità dell'organizzazione dell'imprenditore, soprattutto dalla prevalente personalità della prestazione rispetto ad ogni altro possibile fattore della stessa (n. 3 dell'art. 409).

In relazione ad oscillazioni sul corretto inquadramento del rapporto che lega il socio d'opera con la cooperativa di produzione e lavoro circa il prevalere di un carattere subordinato del rapporto oppure di un carattere societario del medesimo, in quest'ultimo caso destinato ad escludere l'applicabilità del rito ordinario del lavoro, con la legge n. l. 452 del 2001 il legislatore ha definitivamente inquadrato il rapporto del socio lavoratore nel contesto dei rapporti certamente sussumibili nell'art. 409 n. 1 o n. 3 c.p.c.

Il rito è poi applicabile ai sensi dell'art. 447 bis, alle controversie in materia di locazione e di comodato (in entrambi i casi di immobili urbani) e quelle di affitto di aziende.

Non si deve poi dimenticare che il rito speciale è richiamato nei giudizii di opposizione a sanzione amministrativa, nei giudizi agrari e in alcune speciali azioni disciplinate dalla legge fallimentare, nelle controversie fallimentari che hanno titolo nel rapporto di lavoro o nelle procedure sulle grandi imprese in crisi e, quindi, ha vissuto una fase di particolare successo e diffusione come soluzione alle lentezze prima della riforma del 1990 del processo civile ordinario.

4.2 La concentrazione delle preclusioni

La caratteristica del rito speciale del lavoro è costituita dalla concentrazione delle preclusioni, le quali maturano tutte, sia per la domanda che per l'allegazione dei fatti costituenti eccezioni riservate sia, infine, per le deduzioni probatorie, al momento del compimento degli atti introduttivi.

Tale regime si giustifica per le peculiarità delle fattispecie dedotte e costituite per lo più da fatti la cui rilevanza è tipizzata dal legislatore, come anche in taluni casi la distribuzione dell'onere della prova nella allegazione e nell'accertamento dei fatti medesimi (si pensi alla disciplina in materia di licenziamento). Tale tipizzazione scaturisce da materie, come quella del lavoro e delle locazioni, che sono rette prevalentemente da norme imperative di legge con una forte contrazione degli spazi consentiti all'autonomia privata, conseguendone per lo più una tipizzazione della fattispecie negoziali rilevanti in giudizio che facilita il compito difensivo delle parti in ordine a domande eccezioni e deduzioni probatorie. Tutto ciò si esprime in una normativa con preclusioni concentrate negli atti introduttivi e nell'abbandono del modello di preclusioni a formazione successiva proprie del rito ordinario di cognizione.

Se questa è l'esigenza, tuttavia, la disciplina dovuta alla riforma del 1973 (legge n. 533) manifesta un livello di precisione tecnica assai inferiore rispetto alla riforma del 1990 relativa al rito ordinario. In primo luogo il sistema preclusioni immediate per ogni tipo di attività difensiva scaturisce dall'art. 416 c.p.c., che regola la memoria predisposta dal convenuto, mentre manca di ogni riferimento all'art. 414 c.p.c. che regola invece il ricorso introduttivo dell'attore. Il profilo è stato denunciato, per disparità di trattamento, al giudice costituzionale, il quale ha risolto il problema escludendo l'incostituzionalità e ritenendo interpretativamente che la norma debba applicarsi in simmetria con l'art. 416 c.p.c., ovvero il ricorso implicare le stesse decadenze fissate con il convenuto con la memoria di costituzione. Risulta pertanto che le stesse decadenze per domande eccezioni e prove subisce l'attore al momento in cui deposita il ricorso.

4.3 Le deroghe alle preclusioni.

La disciplina si presenta poi particolarmente carente, comparata con le regole del rito ordinario, per le eccezionali ipotesi in cui si impone una deroga alle preclusioni quando la decadenza non è colpevole, quando vi sono esigenze di ius poenitendi, quando si pone la necessità di contraddire alle iniziative dell'altra parte e del giudice.

La prima ipotesi non è neppure codificata e quindi non resta che prevedere un'applicazione analogica dell'art. 184 bis, da ritenersi perfettamente compatibile con le peculiarità del rito del lavoro.

Quanto alla seconda, sembra consentita solo quando ricorrono gravi motivi e previa autorizzazione del giudice. Essa inoltre si sostanzia solo nella modifica di domande, eccezioni e conclusioni, ovvero soltanto come ius poenitendi (il legislatore sembrerebbe essersi dimenticato delle esigenze postulate dal contraddittorio). D'altra parte anche avere assoggettato lo ius poenitendi a "gravi motivi" di cui non è facile individuare i presupposti che il giudice deve valutare nella sua autorizzazione, lascia eccessivamente nelle mani dell'ufficio il potere di impedire quell'adattamento alle difese che il rito ordinario consente con una maggiore (e corretta) larghezza.

In relazione al contraddittorio, poi:

a) il problema si pone meno drammaticamente, poichè le iniziative volte ad incrementare oggettivamente o soggettivamente il giudizio (domande riconvenzionali e chiamate di terzi in causa) provocano necessariamente ai sensi dell'art. 418 c.p.c. e, secondo la pronuncia della Corte costituzionale n. 193 del 23 giugno 1983, dell'art. 419, relativo all'intervento volontario, un differimento dell'udienza di discussione. L'attore avrà così, in vista della nuova udienza differita, la possibilità, mediante memoria da depositarsi entro dieci giorni anteriori, di poter replicare e contraddire alle domande e chiamate del convenuto.

b) Ulteriore ipotesi disciplinata si rinviene nel 5° e 7° comma dell'art. 420 c.p.c., ove si ipotizza che in udienza di discussione si deducano nuove prove "che le parti non abbiano potuto proporre prima". Si tratta delle prove indotte per l'attore dalle novità consentite al convenuto con la sua memoria, per il convenuto dall'attore con la memoria depositata anteriormente alla udienza differita per riconvenzionale o chiamata del terzo e per entrambi dalle nuove deduzioni in fatto indotte in udienza di discussione per uno svolgimento corretto del contraddittorio. In tutti questi casi il giudice deve fissare alla parte che può contraddire un termine a difesa rinviando l'udienza e la replica ha svolgimento mediante il deposito di memoria anteriore alla udienza. La norma è stata ritenuta applicabile anche nel caso di decadenza incolpevole (Cass., 5 settembre 1995, n. 4638) o nel caso di contestazione tardiva (Cass. 11 febbraio 1995, n. 1509, in Giur. it., 1996, i, 1, 132).

c) Resta, invece, la necessità di adattare la normativa, con una forzatura assolutamente inevitabile, alla esigenza di consentire la introduzione di nuove domande o eccezioni dell'attore in relazione alle eccezioni del convenuto in memoria o del convenuto in relazione alle domande o eccezioni dell'attore nella memoria depositata anteriormente alla udienza differita e ciò senza necessità di autorizzazione del giudice, trattandosi di un diritto costituzionalmente consacrato.

d) Poi esiste il problema del contraddittorio necessitato dalle iniziative del giudice, mancando una disposizione perentoria e chiara come quella contenuta nell'art. 183, 7° comma c.p.c. Ciò particolarmente in un contesto ove sono più accentuate, almeno a livello di previsione generale contenuta nell'art. 421, 2° comma c.p.c. le iniziative dell'ufficio, particolarmente in relazione alle prove.

Qui la imperfezione tecnica impera, poiché il comma da ultimo citato richiama il comma sesto dell'art. 420 c.p.c., quando invece doveva essere richiamato il comma settimo, che consente innanzi alle nuove iniziative istruttorie della parte in prima udienza (per le prove non potute proporre prima) la concessione di un termine per controdedurre in replica. Questa fissazione di un termine per replica con facoltà di controdedurre costituisce la via corretta sul piano normativo per garantire il contraddittorio verso le in iziative officiose. All'interprete non resta che una forzatura al dettato della legge.

4.4 Le prove precostituite.

Si è profilato in giurisprudenza un orientamento molto discutibile e caratteristico del rito del lavoro. Quello della insussistenza di un limite preclusivo alle prove precostituite come quelle documentali, le quali, non avendo l'effetto di far differire il processo e quindi rallentarlo (perché precostituite) non sarebbero soggette a preclusioni (Cass. 30 maggio 1989, n. 2619; Cass. 16 dicembre 1988, n. 6867).

Trattasi di una interpretazione abrogatrice della norma assolutamente inaccettabile e che rischia di contaminare anche il rito ordinario (vi sono alcune pronunce in tal senso).

La concentrazione della trattazione e l'assoggettamento a preclusione delle attività difensive si giustifica per un razionale e logico svolgimento del processo e attiene ad esigenze pubblicistiche cui non è possibile prestare deroga.

La corte di cassazione, con alcune pronunce dell'aprile 2005 ha invertito la rotta sottoponendo al regime della indispensabilità anche la prova documentale.

4.5 Rilevabilità delle eccezioni di tardiva deduzione del mezzo difensivo.

Anche il mancato rispetto dei termini decadenziali fissati alle attività difensive nel rito del lavoro è rilevabile d'ufficio (tra le tante e da ultimo, Cass. 7 marzo 1986, n. 1545).