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Tent. obb. conciliazione

IL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE COME CONDIZIONE ALLA GIURISDIZIONE NELLE CONTROVERSIE INDIVIDUALI DI LAVORO

Per quali tipi di controversie si rende obbligatorio il tentativo di conciliazione? Quali sono i casi di esclusione dell’obbligatorietà del tentativo? In caso di provvedimento cautelare il processo a cognizione piena deve essere preceduto dal tentativo? Il tentativo è necessario per le domande riconvenzionali? Il tentativo è necessario per l’intervento dei terzi? Qual è l’attività richiesta? Quali sono le conseguenze dell’inosservanza dell’obbligo?

a cura di Daniele Pasini e di Elena Elvineti (Avvocato del foro della Spezia)

INTRODUZIONE

Eliminata, con il D.Lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 369 con l’abolizione dell’ordinamento corporativo, la denuncia obbligatoria al sindacato previsto dall’art. 430 c.p.c. nel testo originale, il nostro diritto processuale civile ha conosciuto sino ad anni recenti soltanto forme di conciliazione facoltative.

Anche la riforma del processo del lavoro, nel 1973, aveva confermato la tendenza ed anzi la Relazione si era espressamente pronunciata contro l’opportunità dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione.

Con la legge sui licenziamenti individuali, la 108 del 1990, fu introdotto un primo tentativo di conciliazione obbligatorio, poi previsto per tutte le controversie di lavoro privato nel 1993 ed infine confermato con il D.Lgs. 80 del 1998, scelta poi confermata anche per il settore pubblico.

LE NORME

Codice di procedura civile

Art. 410, art. 410-bis, art. 412-bis

Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 - Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche

Art. 65, art. 66

L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE IN MATERIA DI CONTROVERSIE INDIVIDUALI DI LAVORO

L’art. 410 c.p.c. dispone l’obbligo di espletamento della procedura per la proposizione di domande relative ai rapporti previsti dall’art. 409, dovendosi quindi escludere gli altri tipi di controversie soggette al medesimo rito, comprese quelle previdenziali e quelle agrarie (per le quali sono peraltro previsti analoghi meccanismi stragiudiziali).

Poiché per le azioni di impugnativa dei licenziamenti individuali in regime di stabilità obbligatoria, l’art. 5 della l. 11 maggio 1990 n. 108 impone un tentativo obbligatorio di conciliazione e dispone che tale tentativo debba essere esperito secondo le procedure previste dai contratti collettivi o dagli artt. 410 e 411 c.p.c., si è posto il problema della sopravvivenza o meno di tale disciplina alla riforma del 1998 del processo del lavoro con due opposti orientamenti dottrinali.

L’art. 5 della l. 108 del 1990 contempla, infatti, quale effetto della richiesta di conciliazione l’impedimento della decadenza, mentre l’art. 410 del codice di procedura civile non menziona l’impedimento, ma solo la sospensione del decorso di essa per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi.

Secondo una tesi dottrinale, in ossequio ai principi sulla successione delle leggi nel tempo, proprio in virtù di questa differenza si dovrebbe applicare all’impugnativa del licenziamento individuale l’art. 5 della l. 108 del 1990, mentre l’art. 410 c.p.c. non troverebbe spazio in quanto legge sopravvenuta, ma generale, mentre altri autori ritengono la norma in questione tacitamente abrogata dalla successiva riforma generale.

La questione non ha in realtà alcuna rilevanza pratica perché l’art. 5 della l. 108 del 1990 rinvia espressamente all’art. 410 del c.p.c., che risulta quindi applicabile per rinvio, e perché, inoltre, anche la richiesta ai sensi di tale disposizione, nel caso dell’azione impugnativa di licenziamento individuale è idonea, per il contenuto stesso dell’atto (in applicazione dell’art. 6 della l. 604 del 1966), ad impedire la decadenza.

Per quanto concerne le controversie di lavoro pubblico il testo di riferimento è il D.Lgs 30 marzo 2001 n. 165, agli artt. 65 e 66.

L’art. 65, comma 1, nel disporre l’obbligatorietà del tentativo, rinvia quanto alle controversie all’art. 63 il quale, a sua volta, fa riferimento alle pubbliche amministrazioni a cui si applica il testo normativo, definite dall’art. 1.

Quindi le controversie concernenti tutti i rapporti “privatizzati” di lavoro con pubbliche amministrazioni sono soggette, per la proposizione di azioni giudiziarie, al previo tentativo obbligatorio di conciliazione, mentre restano escluse le controversie relative ai rapporti non contrattualizzati e soggetti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Le differenze tra i due ambiti riguardano solo le modalità di espletamento del tentativo e aspetti di dettaglio, non invece il rapporto fra esso e l’azione, il che ne consente una trattazione unitaria.

I PROVVEDIMENTI SPECIALI DI URGENZA E QUELLI CAUTELARI

L’art. 412-bis c.p.c. dispone che “il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la concessione dei provvedimenti speciali di urgenza e di quelli cautelari previsti nel capo III del titolo I del libro IV”.

Per quanto concerne i provvedimenti cautelari, il rinvio operato dall’articolo 412-bis concerne i sequestri, le denunce di nuova opera e di danno temuto, i procedimenti di istruzione preventiva e i provvedimenti di urgenza.

È stato giustamente affermato che questa disposizione è costituzionalmente necessaria in quanto la tutela cautelare, essendo diretta ad evitare un pregiudizio irreparabile al diritto nelle more del giudizio ordinario o ad assumere preventivamente una prova, non può tollerare di essere limitata al previo esperimento del tentativo di conciliazione .

Resta invece da chiarire se la causa di merito da introdurre a seguito del procedimento sommario cautelare debba essere preceduta dal tentativo di conciliazione o no.

Per le controversie inerenti i rapporti di pubblico impiego perché l’art. 669-octies, comma 4, c.p.c. stabilisce che il termine per iniziare il giudizio di merito decorre «dal momento in cui la domanda giudiziale è divenuta procedibile o, in caso di mancata presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, decorsi trenta giorni».

L’attore è quindi libero di operare una scelta: può infatti avviare il tentativo di conciliazione o direttamente il processo di merito.

A seguito della novella del codice di rito operata dalla l. 80 del 2005, occorre ora distinguere i provvedimenti cautelari anticipatori da quelli non anticipatori, perché, per la prima categoria, ai sensi dell’art. 669-octies, comma 6, non è più necessaria, onde evitare la caducazione degli effetti del provvedimento cautelare, la tempestiva instaurazione del processo a cognizione piena (secondo la c.d. strumentalità attenuata).

Se invece il giudizio a cognizione piena deve essere introdotto, si dovrà applicare il comma 1 del medesimo articolo e il giudice, nell’ordinanza di accoglimento, dovrà fissare un termine perentorio non superiore a sessanta giorni (a seguito della novella della l. 80 del 2005) per l’introduzione di esso.

Ai sensi del comma 4, però, tale termine decorrerà non dalla data dell’ordinanza, come nella normalità dei casi, ma, appunto, da quando la domanda è divenuta procedibile o con il decorso di trenta giorni dall’ordinanza stessa.

Nonostante la disciplina dettata per i termini, però, non è del tutto chiaro se il tentativo di conciliazione sia comunque necessario ai fini della procedibilità della domanda o se se ne possa invece prescindere.

La logica suggerirebbe di escludere a questo punto la necessità di far precedere l’introduzione del processo a cognizione piena dal tentativo di conciliazione per due ordini di ragioni.

In primo luogo fissare il dies a quo della decorrenza del termine per la proposizione della domanda di merito a trenta giorni dopo l’ordinanza se non viene espletato il tentativo di conciliazione sarebbe una scelta priva di qualunque razionalità se l’espletamento fosse comunque necessario e si dovesse quindi poi instaurare il meccanismo di sanatoria (v. infra).

Infatti, si darebbe alla parte la possibilità di omettere il tentativo, salvo poi costringerla ad espletarlo in un secondo momento, dopo averle fatto anche attendere trenta giorni senza alcuna apparente ragione.

Al contrario la scelta appare più razionale se si ritiene che il tentativo non sia più configurabile come condizione di procedibilità e che il termine di trenta giorni abbia una funzione di disincentivo all’omissione dello stesso.

La parte che debba introdurre il giudizio a cognizione piena, infatti, potrebbe alternativamente espletare il tentativo di conciliazione o proporre la domanda giudiziale, ma solo dopo un tempo di attesa il quale rende quasi indifferente, in termini di ritardo nel passaggio al giudizio di merito, optare per l’una o l’altra soluzione, rendendo dunque meno appetibile l’omissione della procedura stragiudiziale.

In secondo luogo, il tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda e metodo deflativo delle controversie ha una ragion d’essere se si colloca in un momento antecedente ad ogni fase del processo e costituisce quindi un contatto tra le parti di una lite che deve ancora insorgere e formalizzarsi, mentre, nel caso in questione, non solo è già stata proposta una domanda, sebbene cautelare, ma è stato anche pronunciato un provvedimento, normalmente nel contraddittorio delle parti.

Nonostante queste considerazioni, tuttavia, la dottrina prevalente afferma che in questo caso trova applicazione il meccanismo di cui all’art. 412-bis c.p.c.: la comunicazione della richiesta conciliativa ha l’effetto di sospendere ogni termine di decadenza, anche quello previsto dall’art. 669-octies, commi 1 e 2, c.p.c..

Il ricorrente, invece che proporre la domanda di merito, potrebbe effettuare la comunicazione della richiesta conciliativa ed impedire comunque la caducazione della misura cautelare non anticipatoria.

Alcuni autori ritengono inoltre che, in caso di proposizione immediata della domanda di merito, il giudice debba sospendere il processo e fissare il termine per l’espletamento del tentativo di conciliazione .

Seguendo l’interpretazione proposta, che effettivamente sembra aderire meglio al testo normativo rispetto a quella di esclusione dell’obbligatorietà, il tentativo di conciliazione continuerebbe ad essere un passaggio necessario per la proposizione di una domanda di merito.

La norma di cui all’art. 669-octies, comma 4, c.p.c. rappresenta lo sforzo di coordinare l’istituto del tentativo obbligatorio di conciliazione con il sistema della tutela cautelare, ma, da un lato, la disciplina in questione è dettata soltanto per i soli rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni (mentre i rapporti privati sono privi di analoga regolamentazione) e, dall’altro, la formulazione stessa della norma ha costretto gli interpreti a far riferimento ben più ai principi generali, che alla disposizione dettata appositamente per risolvere la difficoltà di coordinamento.

Sotto il primo profilo è indubitabile che la disposizione è dettata in modo tale da rendere impossibile l’interpretazione estensiva alle controversie di lavoro privato.

Nonostante ciò, non sembra che sia possibile ricostruire per questo ambito una disciplina sostanzialmente diversa: come appena chiarito, infatti, quella che si considera applicabile alle cause nate da rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni è basata sulle norme generali, in particolare sull’art. 412-bis e sull’articolo 669-octies commi 1 e 2 (oltre che 6).

Di conseguenza sembra che non ci sia altra scelta che ritenere che, pur essendo la domanda di tutela cautelare proponibile senza previo tentativo di conciliazione, il successivo processo di merito debba essere preceduto dall’adempimento previsto dall’art. 410 c.p.c..

Dovendosi applicare il comma 2 di tale disposizione, la richiesta del tentativo di conciliazione impedisce che il provvedimento cautelare non anticipatorio sia caducato dall’inutile trascorrere del termine fissato dall’art. 669-octies.

L’attore di una controversia individuale di lavoro privato può, quindi, avviare la procedura conciliativa senza timore di subire dalla sua scelta effetti deleteri, ma ha anche l’alternativa di proporre direttamente la domanda giudiziale, a cui seguirà la sospensione del processo e la fissazione di un termine per l’espletamento del tentativo.

È opinione diffusa in dottrina che tutti i provvedimenti cautelari, e non solo quelli espressamente richiamati nell’art. 412-bis, siano sottratti alla necessità del previo esperimento della procedura conciliativa .

Infatti la tutela cautelare, come si è detto, è ormai considerata in modo costante costituzionalmente necessaria e non tollera quindi una compressione finalizzata al raggiungimento di scopi non endoprocessuali.

Si afferma perciò che il rinvio operato dall’art. 412-bis deve essere interpretato in maniera estensiva comprendendo ogni provvedimento cautelare collocato in altre parti del codice di rito o in leggi speciali in virtù del richiamo ex art. 669-quaterdecies c.p.c. anche al fine di dare un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma in questione (e non dover invece pensare ad una questione di illegittimità costituzionale da sollevare ).

A titolo di esempio possono essere avviati senza previo tentativo di conciliazione il procedimento per il sequestro conservativo della nave o dell’aeromobile (art. 643 c. nav.), quello di verificazione della relazione di eventi straordinari occorsi in navigazione (art. 584) e l’inchiesta sui sinistri della nave (art. 578) e dell’aeromobile (art. 826) .

Il secondo ambito di esclusione previsto dall’art. 412-bis c.p.c. è quello concernente i provvedimenti speciali di urgenza.

Per identificare tali provvedimenti è stato affermato che essi coincidono con i «provvedimenti sommari non cautelari fondati su una valutazione generale ed astratta del pericolo nel ritardo» .

Quindi rientra senza dubbio nella categoria in questione, ad esempio, il provvedimento conclusivo del procedimento di repressione dei comportamenti discriminatori fra i sessi, anche quando è promosso su delega del lavoratore da un’organizzazione sindacale, dato che resta una controversia individuale.

Anche il provvedimento previsto dall’art. 18, comma 7, l. 300 del 1970, che concerne la reintegra dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali licenziati, rientra indubbiamente in questa categoria, così come l’ordinanza di condanna al pagamento di somme di denaro ai sensi dell’art. 423 c.p.c., che concerne le somme non contestate e le provvisionali (la quale peraltro si inserisce in un processo già avviato ed in cui quindi la questione delle procedibilità concerne semmai la domanda a cognizione piena).

Il procedimento di repressione delle condotte antisindacali, previsto dall’art. 28 l. 300 del 1970, è invece oggetto di dubbio in dottrina: alcuni ritengono infatti che rientri nella categoria in questione , mentre altri , non la ritengono una controversia individuale di lavoro, di conseguenza non sarebbe soggetta all’art. 409 c.p.c. e quindi nemmeno all’art. 410 che impone il tentativo obbligatorio di conciliazione, ma tra le due opposte opinioni non risulta alcuna differenza sul piano dell’applicazione in quanto per entrambe il provvedimento di cui all’art. 28 della l. 300 del 1970 può essere richiesto e concesso senza il previo espletamento della procedura conciliativa.

IL PROCEDIMENTO PER INGIUNZIONE

Per quanto riguarda il procedimento per ingiunzione previsto ex artt. 633 ss. c.p.c., dottrina e giurisprudenza hanno avuto a lungo dubbi e solo con il tempo si è chiarito che nemmeno per questo procedimento speciale è necessario il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Da un lato, in dottrina e in giurisprudenza , si sosteneva che il procedimento in questione non è cautelare, né caratterizzato dall’urgenza e non potesse quindi rientrare nell’esclusione di cui all’art. 412-bis c.p.c., mentre dall’altro si riscontravano tre motivi di incompatibilità con il tentativo di conciliazione.

Il primo consisteva nello svolgimento del procedimento inaudita altera parte e nella conseguente illogicità dell’instaurazione del contraddittorio in una limitata fase antecedente al procedimento stesso, il secondo nella frustrazione delle finalità di rapidità insite nel procedimento per ingiunzione conseguente alla necessità di espletamento della procedura stragiudiziale ed il terzo nella considerazione che l’art. 412-bis stesso è dettato per un processo a cognizione piena nel contraddittorio delle parti, mentre il procedimento per ingiunzione è strutturalmente diverso in quanto a cognizione sommaria e inaudita altera parte .

Tali tesi, accolte anche da parte della giurisprudenza , erano prevalenti in dottrina già al momento in cui sono state avallate dalla Corte Costituzionale la quale, nella sentenza 13 luglio 2000 n. 276, ha affermato che «il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio» e che «all’istituto sono […] per definizione estranei i casi in cui […] il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo».

Pare ormai potersi concludere che il procedimento per ingiunzione non necessita del previo tentativo di conciliazione.

Anche il dubbio sulla necessità del tentativo per l’opposizione a decreto ingiuntivo è risolto negativamente.

Si è infatti giustamente affermato che, poiché l’opposizione non introduce alcuna domanda, non si pone per essa alcun problema di procedibilità.

Né l’opponente, né l’opposto, che nel giudizio di opposizione è il convenuto (anche se soltanto dal punto di vista processuale), hanno, secondo l’opinione prevalente, l’onere di avviare il tentativo di conciliazione.

Conseguentemente il giudizio proseguirà senza la necessità della procedura conciliativa stragiudiziale.

LE DOMANDE RICONVENZIONALI

Dottrina e giurisprudenza sono ancora divise sulla necessità del tentativo per le sole domande introdotte con ricorso o anche per le riconvenzionali perché nel codice non si rinvengono chiare indicazioni in un senso o nell’altro.

Chi sostiene la tesi negativa, afferma che il convenuto avrebbe altrimenti la possibilità, attraverso la proposizione di una domanda riconvenzionale, non preceduta dal tentativo di conciliazione, di causare la sospensione del processo e quindi un ritardo nell’eventuale soddisfazione delle pretese della controparte, con un conseguente pregiudizio per l’attore (che normalmente è il lavoratore, ritenuto parte debole) al quale sarebbe inoltre addossato l’eccessivo onere di riassunzione del processo .

Chi sostiene l’opposta opinione, invece, si basa su due considerazioni di carattere tecnico.

Da un lato si constata che nella legge non esiste alcuna deroga che escluda la necessità del tentativo per le domande riconvenzionali e che anzi la ratio di filtro per l’accesso alla giurisdizione impone che ogni domanda sia preceduta dal tentativo di conciliazione .

Dall’altro si considera che se deve operare da condizione di procedibilità (come espressamente stabilisce il primo comma dell’art. 412-bis), il tentativo non può essere generico, ma deve essere specifico per la propria domanda e che quello esperito per la principale, perciò, è inidoneo a rendere procedibile la riconvenzionale che necessita, perciò, di un autonomo tentativo .

Questa opinione dottrinale può contare peraltro sulla sostanziale analogia, pur nella diversità delle sanzioni processuali, tra il problema in questione e quello delle domande riconvenzionali nelle controversie agrarie per le quali è pacifico anche in giurisprudenza che il tentativo di conciliazione sia necessario.

In dottrina è stato anche sostenuta una tesi intermedia secondo la quale «il tentativo di conciliazione deve precedere non qualunque domanda riconvenzionale formalmente proposta, ma solo quella che determina un ampliamento dell’ambito oggettivo delle controversia rispetto a quello interessato dal precedente fenomeno conciliativo relativo alla domanda principale» .

Tale soluzione avrebbe il pregio di consentire alle parti di apprezzare integralmente le reciproche pretese, senza peraltro costringerle all’inutile reiterazione del tentativo quando i punti controversi siano invece gli stessi già affrontati nel primo tentativo.

La giurisprudenza, in ogni caso, sembra orientata, nonostante qualche tentennamento , a ritenere necessario il previo tentativo di conciliazione per ogni domanda riconvenzionale proposta, con motivazioni coincidenti con le argomentazioni formulate dalla dottrina favorevole all’assoggettamento di ogni domanda al tentativo obbligatorio .

L’AMPLIAMENTO SOGGETTIVO DEL PROCESSO

Per quanto concerne l’ampliamento soggettivo del processo, e cioè integrazione del litisconsorte necessario pretermesso, la chiamata e l’intervento del terzo, il discorso è analogo.

Accanto a chi ritiene che non sia necessaria alcuna ripetizione del tentativo, di nuovo perché la soluzione contraria porterebbe ad un ritardo nel processo , vi è chi sottolinea come la presenza dei presupposti processuali debba essere valutata autonomamente rispetto ad ogni domanda proposta in giudizio e quindi come la condizione di procedibilità costituita dall’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione debba essere presente per ogni soggetto ed ogni oggetto.

Di conseguenza, ad essere rigorosi, si dovrebbe concludere che in caso di ampliamento soggettivo è necessario l’esperimento della procedura conciliativa in anticipo sull’udienza di discussione della causa, oppure la sospensione e la fissazione del termine per l’adempimento omesso.

La stessa soluzione intermedia proposta per le domande riconvenzionali viene avanzata anche per quanto concerne l’ingresso nel processo di altri soggetti attraverso l’intervento volontario o la chiamata di terzo su istanza di parte o per ordine del giudice.

Anche in questo caso il tentativo di conciliazione risulterebbe quindi necessario quando la partecipazione del terzo ha «carattere “innovativo”, cioè con lo svolgimento, da o nei confronti del terzo, di una domanda in senso tecnico che comporti un ampliamento dell’oggetto del processo» .

Hanno tale caratteristica gli interventi volontari principali e quelli liticonsortili, mentre ne difettano quelli adesivi dipendenti poiché in essi, in presenza di interessi tutelati dalla legge, ci si limita a sostenere le medesime ragioni di una delle parti, senza avanzare autonome pretese.

Andrebbero parimenti escluse dall’obbligo del previo tentativo anche le domande presentate dal terzo chiamato in giudizio su istanza di parte o jussu iudicis perché in tali casi difetterebbe la volontà del terzo di proporre una domanda, essendovi stato sollecitato soltanto dalla chiamata di parte o del giudice.

In questo caso la giurisprudenza sembra incline ad accogliere la tesi intermedia ed a richiedere il previo tentativo di conciliazione per le sole domande in senso tecnico che comportino una partecipazione «innovativa» .

IL CONTENUTO DELLA COMUNICAZIONE

L’art. 410 c.p.c. afferma che «chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409 […] deve promuovere […] il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione…», ma non disciplina le modalità di svolgimento, limitandosi a ricollegare alcuni effetti sostanziali alla «comunicazione della richiesta di espletamento», e imponendo alla commissione il dovere di agire tempestivamente a seguito della ricezione della richiesta stessa.

L’art. 66 D.Lgs 165 del 2001 disciplina invece con precisione la procedura conciliativa ed è di particolare interesse la lettera c) del comma 3 che impone che la richiesta contenga «l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa».

Lo scopo di tale onere di contenuto è evidentemente quello di consentire, attraverso l’esposizione del petitum e della causa petendi, l’individuazione del diritto che sarà azionato nel successivo processo, per una duplice ragione.

Da un lato fatto il rinvio operato dall’art. 65 D.Lgs 165 del 2001 all’art. 410 c.p.c. comporta che, ai sensi del comma 2 della norma rinviata, la richiesta abbia effetti su prescrizione e decadenza ed è quindi necessaria la precisa indicazione di quale sia il diritto a cui applicare tali effetti sostanziali, dall’altro, poiché l’espletamento del tentativo costituisce condizione di procedibilità della domanda, è necessario che la richiesta di avvio della procedura ne abbia già tutti gli elementi essenziali, dato che, altrimenti, se fosse sufficiente un’indicazione generica, la sanzione processuale non avrebbe modo di poter mai operare.

La dottrina unanime ritieneva che, per gli stessi motivi, anche la richiesta di conciliazione relativa ad una controversia di lavoro privato dovesse avere le stesse caratteristiche di contenuto già prima che la sentenza 276 del 2000 della Corte Costituzionale fugasse ogni dubbio in proposito.

IL DESTINATARIO DELLA COMUNICAZIONE

L’art. 66 D.Lgs165 del 2001 prevede che la comunicazione, sottoscritta dal lavoratore, debba essere consegnata alla Direzione presso la quale è istituito il collegio di conciliazione competente e che debba esserne consegnata copia all’amministrazione di appartenenza o, alternativamente alla consegna, inviata mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Per quanto riguarda il settore privato, invece, nel codice di rito non si trova alcuna indicazione sui destinatari e sulle forme in cui deve essere espletata la comunicazione.

È opinione diffusa, però, che la richiesta debba comunque essere eseguita in forma scritta , anche se vi è chi ammette la forma orale, ma seguita dalla sottoscrizione di processo verbale redatto dalla Commissione che riceve l’istanza , e che debba essere comunicata sia alla Commissione, sia alla controparte con raccomandata con avviso di recapito ai fini interruttivi della prescrizione.

La richiesta di conciliazione non ha solo l’effetto di interrompere la prescrizione, ma anche quello di sospendere il decorso dei termini di qualunque decadenza (art. 410, comma 2, c.p.c.) per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi sin dal momento in cui è portata a conoscenza della controparte .

È da notare che la richiesta di conciliazione non interrompe i termini decadenziali e, stante la tassatività delle ipotesi di sospensione della prescrizione, non sospende quelli prescrizionali , con una differenza di disciplina difficilmente spiegabile.

L’IMPROCEDIBILITÀ. CASI E CONSEGUENZE

Presentata ritualmente la richiesta di conciliazione, l’attore è libero di adire il giudice con il decorso di un termine di sessanta giorni per le controversie di lavoro privato (art. 410-bis c.p.c.) e di novanta per quello alle dipendenze delle P.A. (art. 65 D.Lgs 165 del 2001).

Le conseguenze in caso di carenza del tentativo di conciliazione, testualmente definito «condizione di procedibilità della domanda», sono previste dall’art. 412-bis c.p.c. la cui formulazione ha dato però luogo ad alcune incertezze.

Esso, al comma 2, dispone infatti un termine differenziato per la rilevabilità di parte e d’ufficio: la parte deve eccepire l’improcedibilità nella memoria difensiva di cui all’articolo 416 c.p.c., mentre il giudice «può» rilevarla d’ufficio «non oltre» l’udienza di cui all’art. 420, con una scelta che tutta la dottrina critica .

Generalmente si ritiene però che la parte che è incorsa nella preclusione e non possa più eccepire l’improcedibilità della domanda, possa comunque sollecitare il giudice a rilevarla d’ufficio nel corso dell’udienza di discussione della causa.

Ovviamente, però, qualora il giudice omettesse di rilevare la carenza e di agire di conseguenza, la parte non avrebbe alcun modo di sindacarne l’operato, mentre l’eccezione tempestivamente proposta permette di riproporre la questione in sede di precisazione delle conclusioni e di impugnare poi la sentenza che ancora una volta ometta di trarre le conseguenze dovute dalla mancanza del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Tuttavia non è ben chiaro cosa dovrebbe avvenire nel giudizio d’appello .

Si potrebbe, infatti, ipotizzare la rimessione al giudice di primo grado della causa perché il tentativo sia espletato ed eventualmente il giudizio di primo grado ripetuto, così come deciso in un’occasione dalla Corte d’Appello di Milano , anche se in tal caso la carenza non riguardava l’assenza del tentativo di conciliazione, ma la genericità della relativa istanza.

Bisogna tuttavia considerare che i casi di rimessione al tribunale da parte della corte d’appello sono previsti in modo tassativo dagli artt. 353 e 354 c.p.c. e non è pensabile l’introduzione di una causa ulteriore in via interpretativa.

Poiché, ai sensi dell’articolo 412-bis c.p.c., sembra assolutamente inammissibile ipotizzare l’espletamento del tentativo durante il giudizio d’appello attraverso una sospensione di esso, in caso di mancato esperimento del tentativo di conciliazione si pone l’alternativa tra la chiusura in rito della lite per la carenza di un presupposto per la decisione di merito e la prosecuzione del giudizio senza che si possa riproporre la questione nei gradi successivi al primo, così come è, in effetti, giurisprudenza consolidata della Suprema Corte e come ribadito anche di recente dalla Corte d’Appello di Milano .

Il problema si ripropone per il giudizio di cassazione, anche se, oltre alle motivazioni già utilizzate per l’appello, è stato anche affermato che il tentativo obbligatorio di conciliazione non è previsto a pena di nullità e che, perciò, la sua carenza non è censurabile quale autonomo error in procedendo .

Il secondo aspetto di difficoltà posto dal secondo comma dell’articolo 412-bis c.p.c. concerne il fatto che è disposto che il giudice «può» (e non «deve») rilevare d’ufficio l’improcedibilità.

Il comma successivo, peraltro, non sembra prevedere una possibilità, ma, al contrario, sembra dare per scontato che il giudice compia le attività conseguenti alla carenza del tentativo.

Un’opinione minoritaria , afferma che al giudice è data solo la possibilità di rilevare l’improcedibilità d’ufficio e di compiere gli atti conseguenti, ma non gli è posto in capo alcun dovere; egli dovrebbe quindi valutare l’opportunità di far espletare il tentativo in base alle possibilità che le parti raggiungano una soluzione concordata.

La tesi non sembra condivisibile per una ragione logica contraria che pare decisiva: l’attività di rilevazione d’ufficio è sempre doverosa e non può non esserlo, in particolare, quando riguardi la carenza di un presupposto per la decisione di merito quale è sicuramente l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione (proprio perché definito espressamente condizione di procedibilità) .

È da notare che il giudice deve rilevare l’improcedibilità, sospendere il processo e fissare il termine non solo in caso di carenza totale del tentativo, ma anche quando questo si sia svolto su una pretesa differente per petitum o per causa petendi da quella fatta valere nella domanda giudiziale .

Un altro caso in cui il giudice deve rilevare l’improcedibilità è stato introdotto con il D.Lgs 387 del 1998 attraverso una novella al codice, che ha sostituito nel comma 3 dell’articolo 412-bis le parole «ove rilevi l’improcedibilità della domandaۛ» con «ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stata presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso», al dichiarato fine di contrastare la diffusa prassi di presentazione della domanda di conciliazione contestualmente al deposito del ricorso.

Tale prassi era stata originata dal tentativo di neutralizzare gli effetti del mancato rispetto, da parte dell’Ufficio, dell’art. 415, comma 3, c.p.c. basandosi sulla certezza che, al momento dell’udienza di discussione, il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 410-bis c.p.c. sarebbe già decorso rendendo procedibile la domanda presentata contestualmente alla richiesta.

Tale comportamento è stato tuttavia considerato dal legislatore indice di una considerazione del tentativo di conciliazione come mero adempimento burocratico, da qui la scelta di contrastarla attraverso la novella ricordata, con una scelta però criticata dall’unanime dottrina .

La dottrina, inoltre, propende per l’inapplicabilità della disposizione in questione al caso in cui, pur in presenza di un deposito del ricorso prima della scadenza del termine di sessanta giorni, le parti dimostrino di aver esperito il tentativo e che esso è fallito.

In caso contrario, infatti, imporrebbe alle parti di ripetere un tentativo espletato e già fallito, eseguendo quindi una mera formalità burocratica, esattamente ciò che la riforma era finalizzata ad evitare .

Una volta che l’improcedibilità sia emersa nel processo, per eccezione proposta dalla parte o perché rilevata d’ufficio dal giudice, le conseguenze discendono automatiche secondo la disciplina posta dall’art. 412-bis, comma 3, c.p.c. il quale prevede che il giudice sospenda il processo e fissi alle parti un termine perentorio di sessanta giorni per la proposizione della richiesta di conciliazione.

LA RIASSUNZIONE

La domanda diviene procedibile con il decorso di sessanta giorni (novanta per il settore pubblico) dalla promozione del tentativo entro il termine fissato dal giudice.

L’art. 412-bis, comma 4, prevede che le parti possono riassumere il processo nel termine di centottanta giorni che decorrono non dall’effettiva conclusione del tentativo, ma da quando l’azione sia divenuta procedibile, quasi che al legislatore non interessi tanto che le parti si concilino effettivamente, dato che una seria trattativa potrebbe richiedere anche più di sessanta (o novanta) giorni, quanto che sia espletato il tentativo in quanto tale .

Se le parti riassumono il processo nel termine previsto e dopo aver avviato il tentativo entro quello fissato dal giudice si pone come unica questione l’impossibilità, contrariamente al principio generale, di far contenere all’atto di riassunzione una nuova domanda, formulata in aggiunta a quella originaria, che valga da atto di introduzione di un giudizio ex novo perché il processo sospeso ex art. 412-bis deve proseguire negli stessi termini della domanda di cui al ricorso introduttivo e del tentativo di conciliazione .

Anche in questa fase è comunque possibile che ci si trovi in situazioni “patologiche”.

In primo luogo l’istanza di conciliazione può essere carente, ossia l’attore ha riassunto il giudizio senza aver effettivamente espletato il tentativo obbligatorio; in questo caso, ovviamente, l’improcedibilità non può che consolidarsi e non resta altra scelta che chiudere il processo con una sentenza di rito .

In secondo luogo l’istanza di conciliazione può essere tardiva, ossia proposta oltre il termine perentorio di sessanta giorni fissato alle parti dal giudice ai sensi dell’articolo 412-bis, comma 3, c.p.c.; in questo caso, invece, si ritiene che si produca una fattispecie estintiva che, in applicazione della regola generale prevista dall’art. 307, ultimo comma, c.p.c. che opera di diritto, ma deve essere eccepita prima di ogni difesa .

In terzo luogo ad essere tardiva, ossia oltre il termine di centottanta giorni, può essere la riassunzione; in questo caso «il giudice dichiara d’ufficio l’estinzione del processo con decreto cui si applica la disposizione di cui all’articolo 308» (art. 412-bis, comma 4-bis c.p.c. ed, analogamente, art. 65, comma 3, del D.Lgs 165 del 2001).

Questa disposizione crea qualche problema interpretativo: normalmente, infatti, dato che è emesso nel corso di un processo, e quindi nel contraddittorio tra le parti, il provvedimento di estinzione è adottato con ordinanza, invece, in questo caso, la forma è quella del decreto.

La scelta del legislatore di dare al provvedimento di estinzione la forma del decreto invece che dell’ordinanza (dato che esso è emanato a parti costituite) non è facilmente spiegabile, così come non è facile coordinare le due disposizioni in oggetto con l’art. 308 richiamato che disciplina l’impugnazione del provvedimento di estinzione.

L’art. 308, infatti, prevede il reclamo al collegio e rinvia all’art. 178, il quale, però afferma che il collegio può essere investito della questione solo se il giudice istruttore non opera in funzione di giudice unico, che è però esattamente ciò che avviene nel processo del lavoro.

La dottrina ha perciò tentato di superare i problemi di coordinamento proponendo varie soluzioni.

Secondo una prima proposta si dovrebbe costituire un collegio presso il tribunale, ma questa soluzione collide con la lettera dell’art. 178, comma 2, c.p.c..

Secondo una seconda tesi , invece, il reclamo andrebbe proposto allo stesso giudice che emetterebbe ordinanza di accoglimento o sentenza nel caso non lo accolga, sentenza che sarebbe poi normalmente appellabile; tuttavia, in questo caso, sfugge il senso di un reclamo proposto allo stesso giudice del provvedimento da controllare.

Una terza ipotesi , invece, spiega la forma del decreto affermando che il giudice deve emanare il provvedimento di estinzione sia in sostituzione del decreto di fissazione dell’udienza nel caso di riassunzione tardiva, sia prescindendo completamente dal deposito del ricorso di riassunzione.

In ogni caso, il decreto di estinzione dovrebbe essere notificato alle parti e si instaurerebbe così il contraddittorio e la parte interessata potrebbe a questo punto reclamare davanti allo stesso giudice che deciderebbe secondo le forme dell’articolo 308 c.p.c..

Il sacrificio del diritto di difesa delle parti è solo apparente perché il provvedimento di estinzione viene emanato in assenza di contraddittorio, tuttavia alle parti è data la possibilità di contraddire sul punto nella fase di reclamo di fronte allo stesso giudice e poi di impugnare la sentenza o, in caso di ordinanza, di ripetere le proprie contrarie deduzioni in sede di precisazione delle conclusioni.

La ratio della norma sembra allora quella di dare al giudice la possibilità di intervenire motu proprio e di eliminare le cause pendenti che ormai non potrebbero essere validamente riassunte .

Resta da accennare ad un istituto che trova applicazione nel solo settore pubblico. L’art. 65 del D.Lgs 165 del 2001, comma 3, dispone: «La parte contro la quale e' stata proposta la domanda in violazione dell'articolo 410 del codice di procedura civile, con l'atto di riassunzione o con memoria depositata in cancelleria almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata, può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di merito, che non siano rilevabili d'ufficio»

Questa disposizione attribuisce alla Pubblica Amministrazione, che è sempre il convenuto in questo tipo di controversie, uno jus variandi, che ne rafforza la posizione processuale dandole un vantaggio non certo motivato dalla cura di un interesse pubblico (tanto più che ci si trova nell’ambito del rapporto di lavoro che è soggetto a regole privatistiche).

La disparità di trattamento con la parte privata è evidente e non appare giustificabile, rendendo così legittimi dubbi di legittimità costituzionale ai sensi degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

LA RATIO DELL’ISTITUTO E LA LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

La maggior parte degli Autori ritengono che il tentativo obbligatorio di conciliazione svolga anche nell’ambito del processo del lavoro la stessa funzione deflativa del contenzioso tradizionalmente riconosciuta ad esso in altri ambiti (come le controversie sul canone nelle locazioni urbane a scopo abitativo o le controversie agrarie).

Si ritiene comunemente che il legislatore intenda favorire la soluzione concordata di una controversia in via anticipata rispetto all’instaurazione del giudizio perché ciò corrisponde sia agli interessi delle parti, sia a quelli dell’ordinamento.

Quando riesce, e si conclude con un accordo tra le parti, la conciliazione dà un risultato più soddisfacente (perché ogni parte dà il consenso che ritiene la soluzione conforme ai propri interessi) e stabile (perché condiviso) rispetto alla giurisdizione.

Inoltre essa, specie se amministrata da organi pubblici a ciò deputati o dai sindacati, ha il pregio di essere decisamente più economica e rapida di una controversia giurisdizionale.

L’ordinamento, poi, ha indubbi vantaggi dal fatto che le parti raggiungano una soluzione conciliata: in tal caso, infatti, vengono risparmiati denaro e carico di lavoro per gli uffici giudiziari, come è noto, in permanente ritardo sui tempi di ragionevole definizione della lite.

Conseguentemente risulta comprensibile la scelta del legislatore, sempre alla ricerca di metodi (o meglio di palliativi) per ridurre i tempi della giustizia, di favorire le soluzioni delle controversie alternative alla giurisdizione.

Vi è stato chi ha sostenuto che accanto alla funzionalità deflativa, il legislatore intendesse perseguire, con l’introduzione di questo meccanismo, anche lo scopo di permettere ai sindacati un controllo delle controversie lavoristiche anche al fine di evitare di mettere in pericolo la pace sindacale a causa di contestazioni potenzialmente avanzate da un solo o da un numero esiguo di lavoratori, dando luogo quindi ad una legislazione occulta (od obliqua) di sostegno.

Spesso si afferma anche che una delle finalità perseguite dal legislatore nel predisporre i tentativi obbligatori di conciliazione è quella di favorire, attraverso la soluzione concordata della controversia, la conservazione del rapporto giuridico alla base della lite in ambiti in cui vi sia una continuatività che comporta una rilevanza anche sociale o economica della relazione (come nel caso dei contratti di lavoro appunto, ma anche agrari, di locazione urbana e di subfornitura industriale).

La dottrina processualistica avverte poi il problema della legittimità costituzionale del tentativo di conciliazione obbligatorio, soprattutto in relazione all’art. 24 Cost. principalmente con riferimento alla garanzia del diritto d’azione.

L’obbligatorietà della procedura stragiudiziale impone alle parti di subire un ritardo nell’accesso alla giurisdizione, con un sacrificio che grava principalmente sull’attore che, normalmente, è il lavoratore, parte debole del rapporto.

I dubbi di costituzionalità erano già stati sciolti da attenta ed autorevole dottrina e sono poi stati definitivamente fugati dalla Corte Costituzionale (con la citata sentenza n. 276 del 2000) sulla base del ragionevole bilanciamento tra il sacrificio imposto all’attore ed i benefici che l’esistenza del tentativo obbligatorio di conciliazione è idoneo a portare, soprattutto in relazione al fatto che l’anticipazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda al momento della proposizione dell’istanza di conciliazione e la sanzione dell’improcedibilità (e della conseguente possibile sanatoria) per l’inosservanza dell’onere sono accorgimenti idonei ad evitare pregiudizi definitivi all’attore.

Se sul piano della legittimità, quindi, il tentativo obbligatorio di conciliazione non pone problemi, è più discutibile la sua opportunità e la sua reale idoneità alla deflazione delle controversie.

Perché l’azione diventi procedibile la legge richiede solamente la presentazione dell’istanza ed il decorso del tempo prescritto, non, invece, lo svolgimento di una trattativa e nemmeno la comparizione delle parti davanti all’organo conciliativo.

Peraltro le Commissioni stesse normalmente non riescono a convocare le parti che quando, per il decorso del termine, l’azione è divenuta ormai procedibile con la prevedibile conseguenza che spesso il tentativo di conciliazione non viene nemmeno concretamente svolto.

Inoltre disposizioni come l’art. 412-bis, comma 4, c.p.c., che fa decorrere il termine per la riassunzione dal momento in cui la domanda è divenuta procedibile e non dalla concreta conclusione del tentativo, non stimolano certo le parti ad avvicinarsi alla conciliazione con animus transigendi.

Nonostante la capacità di indurre le parti di una controversia ad un confronto e ad una totale discovery delle proprie posizioni giuridiche e richieste (necessaria per la procedibilità della domanda, come supra chiarito), l’imperfetta formulazione dell’istituto e le innegabili incoerenze con la ratio perseguita, rendono il tentativo obbligatorio di conciliazione meno efficace di quanto potrebbe essere al raggiungimento di soluzioni concordate con i conseguenti vantaggi per le parti coinvolte e per il sistema della giustizia in generale.

De jure condendo appare quindi opportuna un ripensamento di alcune regole o, come suggerito da più parti, la rimozione di un onere che, pur costituzionalmente legittimo, impone alle parti un comportamento che troppo raramente ha gli auspicati effetti positivi.