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Ricusazione e a. irrituale

Nota a Trib. Lucca, 4 novembre 2008,

Venice Bet s.r.l. c. Snai s.p.a.

Sommario: 1. Contenuti della pronuncia – 2. Imparzialità dell’arbitro e “giusto processo”: l’art. 815 c.p.c. come garanzia necessitata - 3. La ricusazione dell’arbitro irrituale: una scelta “economica” – 4. Inapplicabilità dell’art. 1726 c.c.: le ragioni della specialità – 5. Conclusioni

1. Contenuti della pronuncia

La pronuncia in commento prende le mosse dal seguente assunto: l’attività dell’arbitro irrituale consiste in uno jus dicere, in un “giudizio sulla ragione o sul torto del contendenti”, del tutto analogo a quello svolto dall’arbitro rituale; dunque, le medesime esigenze di imparzialità saranno parimenti presenti nelle due species arbitrali. Da tale considerazione vengono fatti discendere due importanti corollari: in primo luogo, anche all’arbitrato irrituale sarà applicabile l’art. 815 c.p.c., in tema di ricusazione; in secondo luogo e conseguentemente, all’arbitrato irrituale non sarà applicabile l’art. 1726 c.c., in tema di revoca del mandato, risultando la disposizione del codice di rito prevalente in base al principio di specialità.

Il tema affrontato dalla sentenza (l’applicabilità della ricusazione all’arbitrato irrituale) sottende la più ampia e complessa problematica della natura dell’arbitrato irrituale. In questo senso, dunque, la pronuncia del Tribunale di Lucca testimonia una lodevole apertura della giurisprudenza di merito, sempre più propensa a riconoscere la natura processuale dell’arbitrato, sia rituale sia irrituale.

2. Imparzialità dell’arbitro e “giusto processo”: l’art. 815 c.p.c. come garanzia necessitata

La questione della natura dell’arbitrato irrituale è stata, come noto, ampiamente discussa in dottrina ed in giurisprudenza. Pur non essendo possibile in questa sede ripercorrere tale lungo e variopinto dibattito, sarà utile ricordare come la riforma del d. lgs. n. 40/06, introduttiva dell’art. 808 ter c.p.c., sia stata salutata come “la fine dell’arbitrato irrituale quale “arbitrato libero”, inteso come episodio non regolato dalla legge” . In tal senso, è altamente sintomatico che l’art. 808 ter faccia esplicito riferimento alla definizione della controversia mediante una “pronuncia”, alla formulazione di “conclusioni”, alla proponibilità di “eccezioni” e, soprattutto, alla circostanza che l’intero “procedimento” debba essere retto dal principio del “contraddittorio” (obiettivo di impossibile realizzazione, ove non siano approntati adeguati meccanismi tesi a garantire l’imparzialità dell’arbitro).

In estrema sintesi, l’art. 808 ter presenta una pluralità di dati letterali dai quali emerge la natura giurisdizionale dell’arbitrato irrituale, ovvero la sua intrinseca funzione, appunto, di jus dicere. Tale lettura risulta, inoltre, pienamente conforme agli orientamenti espressi dalla Corte Costituzionale , la quale identifica la giurisdizione non solo sulla base di un indice soggettivo (la sussistenza di una certa qualifica o l’appartenenza ad un determinato organismo), ma anche, in via alternativa, sulla base di un indice oggettivo, ossia della natura dell’attività concretamente svolta (accertamento del diritto previa qualificazione della realtà sub specie juris - precisamente ciò che un arbitro è chiamato a fare).

Alla luce di quanto sopra esposto, non si vede come l’odierno interprete possa negare al fenomeno arbitrale, inteso nel suo complesso e comprensivo sia della forma rituale, sia della forma irrituale, natura giurisdizionale. Prendendo le mosse da tale basilare assunto, il problema dell’applicabilità all’arbitrato irrituale dell’art. 815 c.p.c. può essere facilmente inquadrato: se l’arbitrato è espressione di attività giurisdizionale, esso non potrà prescindere dal rispetto del principio di imparzialità dell’organo giudicante . Occorre, quindi, identificare gli strumenti attraverso i quali garantire adeguatamente l’imparzialità dell’arbitro.

Se è vero che il giudice statale è naturale e precostituito per legge, è altrettanto vero che l’arbitro è un giudice strutturalmente “artificiale”, non trattandosi di soggetto istituzionalmente dotato di funzioni giurisdizionali . Da ciò discende che nell’arbitrato l’imparzialità dovrà essere a fortiori tutelata, essendo stato il giudice privato investito della potestas decidendi unicamente su base consensuale e privatistica. Proprio alla luce di tale considerazione, sussiste più di un motivo di avanzare dubbi in ordine alla reale efficacia dell’istituto della ricusazione e dei correlati obblighi di disclosure previsti in molte esperienze di arbitrato amministrato, sovente idonei a garantire esclusivamente un’imparzialità apparente e formale. Tuttavia, nonostante la notevole complessità del problema, non si potrà che convenire su un basilare assunto: l’imparzialità non può essere adeguatamente garantita con lo strumento della revoca per giusta causa di cui agli artt. 1723 ss. c.c. La sentenza in commento è dunque pienamente condivisibile, in quanto effettua una doverosa distinzione tra una garanzia “soggettiva”, costituita dalla revoca del mandatario ex artt. 1723 ss. c.c. e basata sull’indice della buona fede contrattuale, ed una garanzia “oggettiva”, costituita dalla ricusazione e basata invece su elementi tipizzati dall’art. 815 c.p.c.: solo il secondo strumento appare in grado di realizzare, anche in sede arbitrale, l’irrinunciabile finalità del c.d. “giusto processo” .

Se il successo e la diffusione del fenomeno arbitrale è indice della maturità dei rapporti giuridici a contenuto patrimoniale, non si vede come si possa ottenere un qualsivoglia progresso, negando all’arbitrato irrituale ogni forma di efficace garanzia di imparzialità. In tal senso, l’utilizzo delle norme dettate dal codice civile in materia di contratto di mandato risultano palesemente insufficienti: se l’arbitrato irrituale è un fenomeno processuale , esso non potrà non essere un “giusto processo”. Dunque l’orientamento del Tribunale di Lucca, nel senso dell’applicabilità dell’art. 815 c.p.c., costituisce senza dubbio la scelta più vicina al disposto degli artt. 6 CEDU e 111 Cost.

3. La ricusazione dell’arbitro irrituale: una scelta “economica”

Quanto sopra esposto risulta tanto più evidente, ove si analizzi lo strumento della revocazione con l’ausilio di alcuni basilari strumenti economici. Naturalmente, la ricusazione dell’arbitro è un’eventualità che si pone in un momento cronologicamente successivo rispetto alla nomina dello stesso; tale dinamica nomina-ricusazione può essere descritta secondo uno schema che gli studiosi del comportamento strategico definirebbero “gioco in due fasi”. Le parti processuali - salvo i casi di nomina affidata a terzi - si trovano di fronte a due scelte: la prima, quella della nomina degli arbitri, e la seconda, quella della eventuale ricusazione degli stessi. Nella prima fase, i “giocatori” potranno scegliere se nominare un arbitro effettivamente imparziale, oppure nominare un arbitro parziale, pur essendo a conoscenza di tale parzialità; nella seconda fase, essi dovranno scegliere se ricusare o meno l’arbitro nominato dalla controparte, facendo valere il citato motivo di parzialità. Ciò che accade nella seconda fase del “gioco”, ovvero l’effettiva possibilità di censura in sede di ricusazione, influenzerà necessariamente il comportamento dei “giocatori”, ossia della parti processuali, nella prima fase, ovvero al momento della nomina dei soggetti giudicanti. Ora, se la parti in lite sono consapevoli del fatto che lo strumento della revocazione non sarà utilizzabile, l’animus delle stesse sarà negativamente influenzato in sede di nomina degli arbitri: esse saranno tentate di nominare un arbitro parziale, poiché tale parzialità ben difficilmente potrà trovare successiva censura.

In sintesi, la non applicabilità dell’art. 815 c.p.c. all’arbitrato irrituale avrebbe effetti deleteri sul piano degli incentivi strategici delle parti e, dal punto di vista processualcivilistico, allontanerebbe l’istituto da quell’ideale di imparzialità del soggetto giudicante ed effettiva applicazione del principio del contraddittorio che stava, invece, alla base della riforma del d. lgs. n. 40/06 . La sentenza in commento è, da questo punto di vista, altamente lodevole, in quanto l’applicabilità della ricusazione all’arbitrato irrituale va nel senso dell’efficienza processuale e dell’incentivo di comportamenti soggettivi virtuosi.

Un altro spunto di riflessione giuridico-economica può essere desunto da una lettura dell’art. 815 c.p.c. in combinato disposto con le norme dettate in materia di impugnazione del lodo. Si potrebbe affermare che la ricusazione serve a reagire ad una “patologia” - un determinato difetto soggettivo dell’organo giudicante - prima che essa possa tradursi, con la pronuncia del lodo, in un difetto oggettivo, afferente la statuizione arbitrale. In proposito, è altamente significativa l’esperienza di molte camere arbitrali , nella quale si prevede che i motivi di ricusazione degli arbitri possano essere fatti valere dalle parti in misura inferiore man mano che ci si avvicina al momento dell’emissione del lodo : si potrebbe quasi dire che i sintomi di assenza di imparzialità, costituenti in origine motivi di ricusazione dell’arbitro, vanno progressivamente convertendosi in eventuali profili di ingiustizia della decisione, suscettibili di costituire, all’esito, motivi di impugnazione del lodo. Tali regole rispondono ad un basilare principio di economia: se la pronuncia del lodo è ormai prossima, non ha più senso interrompere l’iter processuale; se invece il procedimento arbitrale è agli albori, la ricusazione potrà sopprimere la “patologia” verificatasi e prevenire, al tempo stesso, lo svolgimento di attività viziate.

Conseguentemente, atteso che l’arbitrato irrituale è espressione di giurisdizione e che avverso il lodo irrituale l’art. 808 ter prevede espressamente la possibilità di esperire mezzi di impugnazione, sarebbe del tutto diseconomico impedire alle parti, prima che quel lodo sia pronunciato, il ricorso alla ricusazione ex art. 815 c.p.c., lasciando alle stesse il solo, eventuale rimedio ex post dell’impugnazione per nullità.

Anche da questo punto di vista, dunque, la sentenza in commento appare pienamente condivisibile.

4. Inapplicabilità dell’art. 1726 c.c.: le ragioni della specialità

Sarà utile, infine, approfondire il secondo problema sollevato dalla pronuncia del Tribunale di Lucca, ovvero l’inapplicabilità all’arbitrato irrituale dell’istituto della revoca per giusta causa ex artt. 1723 ss. c.c. Come sopra accennato, la revoca per giusta causa, basandosi unicamente sul criterio soggettivo della buona fede contrattuale, sarebbe, nel caso di specie, un rimedio decisamente “debole”: la disciplina della revoca del mandatario, infatti, è stata pensata per un normale rapporto di mandato, e non per un fenomeno complesso quale l’arbitrato libero. Anche ammettendo che il rapporto arbitri-parti possa essere ricondotto allo schema del mandato (circostanza, peraltro, sulla quale sono stati sollevati in dottrina numerosi dubbi ), allo stesso non potranno applicarsi acriticamente ed integralmente le norme di diritto sostanziale in materia di mandato, essendo al contrario necessaria una costante integrazione con le garanzie fondamentali del processo .

Quanto sopra illustrato fa capo ad una basilare distinzione: il rapporto contrattuale (sia esso qualificato come mandato o come un’ibrida locatio operis) si forma tra l’arbitro o gli arbitri ed ogni singola parte individualmente considerata; il rapporto processuale, al contrario, lega tra loro in un unico rapporto tutte le personae che danno vita all’actus della giustizia privata. Il Tribunale di Lucca, effettuando questa doverosa distinzione, nega giustamente l’applicabilità dell’art. 1726 c.c.: stante la natura procedimentale e giurisdizionale dell’arbitrato irrituale, sulle norme di diritto sostanziale prevarrà, in base ad un basilare criterio di specialità, il rimedio processuale dell’art. 815 c.p.c.

Tale conclusione, si badi bene, non postula alcuno sforzo innaturale di interpretazione analogica: l’art. 808 ter esclude l’applicabilità delle sole norme dettate in materia di efficacia del lodo, essendo per il resto pacificamente ammissibile un’applicazione all’arbitrato irrituale delle regole dettate dagli artt. 806 ss. c.p.c., con l’ovvio limite del principio di specialità (si pensi al diverso sistema delle impugnazioni). Il Tribunale di Lucca, quindi, ha seguito la soluzione non soltanto più corretta, ma anche strutturalmente necessitata, stante il dato normativo così come modificato dalla riforma, nonché la palese inadeguatezza del rimedio delle revoca del mandatario. La buona fede, infatti, è un’”obbligazione di mezzi”, ovvero un obbligo di diligenza e correttezza, rilevante sul versante soggettivo, che grava sulle parti di un comune rapporto di natura contrattuale. Al contrario il principio del contraddittorio – cui l’art. 808 ter fa oggi espresso riferimento – è un’”obbligazione di risultato”, rilevante sul versante oggettivo: esso dovrà trovare puntuale e verificabile applicazione, a nulla valendo la mera disposizione psicologica del soggetto giudicante, in assenza di un’effettiva parità tra le parti in lite. L’actus trium personarum non assumerà mai dignità processuale, ove il giudice (in questo caso il giudice privato) non si trovi in una situazione di oggettiva imparzialità, tale da consentire che gli apporti delle parti in contesa confluiscano sul banco del giudizio arbitrale secondo un criterio di fattuale parità: in tal senso, l’applicabilità dell’art. 815 c.p.c., rimedio di natura specificamente processuale, gioca un ruolo determinante.

5. Conclusioni

La sentenza del Tribunale di Lucca aderisce al più recente orientamento dottrinario e giurisprudenziale, secondo il quale il fenomeno arbitrale è tutto caratterizzato dalla medesima natura processuale, sia esso di species rituale o irrituale, nonché dalla medesima funzione giurisdizionale. Tale tendenza ha trovato definitiva conferma e consacrazione con la riforma del d. lgs. n. 40/06, la quale ha introdotto all’interno del codice di rito l’art. 808 ter. In modo del tutto coerente rispetto a tale opzione interpretativa di fondo, dunque, il Tribunale ha sancito l’inammissibilità della domanda di revoca ex artt. 1723 ss. c.c., essendo applicabile all’arbitrato irrituale il rimedio specifico di cui all’art. 815 c.p.c.