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Diritto fallimentare tedesco

CONTRIBUTO AD UNA COMPARAZIONE DELLA RIFORMA DEL DIRITTO FALLIMENTARE ITALIANO CON IL DIRITTO CONCORSUALE TEDESCO

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La fonte normativa dell’insolvenza in Germania. - 3. I presupposti soggettivi di fallibilità e la procedura semplificata per il “consumatore”. – 4. I presupposti oggettivi. – 5. Finalità della procedura e Insolvenzplan. – 6. Finalità della procedura e Restschuldbefreiung. – 7. Il tipo di processo adottato.

1. Introduzione

Scopo del presente lavoro è delineare i principi di fondo del sistema delle procedure concorsuali nell’ordinamento tedesco, per poi esaminare più approfonditamente alcuni particolari istituti, che verranno posti a confronto con alcune delle novità introdotte nella legge fallimentare italiana dalla recente riforma (legge n. 80 del 2005 e d.lgs. di attuazione n. 5 del 2006, nonché d.lgs. n. 169 del 12 settembre 2007). Con ciò sottolineando le influenze che ha esercitato sul nostro legislatore il sistema tedesco, che pure era stato preso espressamente a modello di riferimento, insieme al sistema francese, dalla Commissione di studio Trevisanato per la riforma delle procedure concorsuali. E sottolineando anche la comunanza di principi tra i due sistemi, che registrano ormai l’abbandono definitivo di un fallimento sanzionatorio e dirigistico e la valorizzazione di una concezione privatistica della disciplina, improntata ad una maggiore cooperazione tra i nuclei di interesse coinvolti (debitore e creditori).

2. La fonte normativa dell’insolvenza in Germania

Fonte normativa della procedura concorsuale nell’ordinamento tedesco è l’Insolvenzordnung (InsO), cioè la legge sull’insolvenza entrata in vigore nel 1999, che ha sostituito la legge fallimentare (Konkursordnung) del 1977, la legge sul concordato preventivo (Vergleichsordnung) del 1935 e quella sulla procedura esecutiva concorsuale (Gesamtvollstreckungsordnung) che dal 1976 vigeva nelle regioni della ex D.D.R. Trattasi appunto di procedura e non di procedure, perché l’ordinamento tedesco, diversamente dal nostro, adotta un modello unitario di regolazione dell’insolvenza: anziché due distinte procedure di fallimento e concordato preventivo, ne esiste una sola che origina da presupposti unitari e al cui interno è poi possibile optare o per il trasferimento dell’amministrazione al curatore o per la conservazione di essa in capo al debitore con la c. d. Eigenverwaltung (assimilabile, a grandi linee, alla nostra amministrazione controllata abolita dalla recente riforma). Il concordato preventivo e quello fallimentare, a loro volta, s’inseriscono nell’unica procedura tramite il piano di regolazione dell’insolvenza (Insolvenzplan) che il debitore può presentare al momento della domanda di apertura della procedura.

3. I presupposti soggettivi di fallibilità e la procedura semplificata per il “consumatore”

Quanto ai presupposti soggettivi di fallibilità, l’ordinamento tedesco accoglie il principio dell’applicabilità della procedura concorsuale a tutti i debitori, ivi compresi i non imprenditori e le società di diritto civile. In particolare, se il debitore è una persona giuridica o una persona fisica titolare di un’attività d’impresa si applicherà la normale procedura (gewöhnliches Insolvenzverfahren); se invece il debitore è una persona fisica che non esercita né ha mai esercitato attività d’impresa si applicherà un procedimento semplificato definito letteralmente “insolvenza del consumatore” (Verbraucherinsolvenzverfahren). L’etichetta, peraltro, è fuorviante perché la nozione di “consumatore” ai fini della procedura d’insolvenza non coincide con quella delle norme che si applicano alla “tutela del consumatore” . Questa procedura si applica, in realtà, anche al piccolo imprenditore, cioè colui che ha in passato esercitato un’attività economica autonoma ed al momento in cui viene proposta la domanda ha un numero di creditori inferiore a 20. Ulteriore condizione per l’applicazione del Verbraucherinsolvenzverfahren è che nessuno di tali crediti derivi da rapporti di lavoro. La definizione pluricomprensiva di “consumatore” è data al § 304 InsO. L’ordinamento tedesco prevede per l’insolvenza del consumatore ex § 304 un vero e proprio sistema procedurale parallelo rispetto a quello applicabile alla restante generalità dei debitori. Tale sistema si articola infatti in due fasi nella prima delle quali si privilegia una soluzione concordata, giudiziale o stragiudiziale, della crisi. Il debitore deve, infatti, prima di tutto tentare di giungere ad una transazione stragiudiziale con i creditori e, solo se tale tentativo non riesce, può rivolgersi al giudice chiedendo l’avvio di una procedura sempre concordata ma giudiziale della crisi (Schuldbereinigungsplan, § 305 ss. InsO): egli propone ai creditori un concordato semplificato, che deve essere approvato a maggioranza e ha i contenuti di una vera e propria transazione giudiziaria , a seguito della quale le pretese dei creditori sopravvivono solo nella misura pattuita e possono essere fatte valere solo alle condizioni e nei tempi in essa previsti. L’effetto finale è quindi, in sostanza, la esdebitazione del debitore. La seconda fase si apre solo se debitore e creditori non si accordano sul piano di esdebitazione oppure se il debitore non ha nemmeno tentato di ottenerla; in questo caso si apre la procedura d’insolvenza semplificata (vereinfachtes Insolvenzverfahren). La differenza più significativa rispetto alla procedura ordinaria è offerta dalla circostanza che non viene nominato un curatore per l’amministrazione della massa fallimentare bensì un semplice fiduciario, che non può né alienare o comunque disporre dei beni del patrimonio, né esercitare le azioni revocatorie fallimentari, le quali restano in mano ai singoli creditori pur applicandosi le regole generali dell’InsO (§§ 129-147). La legge non dice espressamente se le somme recuperate con l’esercizio dell’azione revocatoria vanno a vantaggio del singolo creditore che l’ha esercitata o a favore di tutti i creditori. La soluzione più coerente con lo spirito dell’istituto è che le somme vadano ad accrescere la massa fallimentare a favore di tutti i creditori, anche perché la disciplina generale della revocatoria fallimentare non subisce qui alcuna deroga da parte di previsioni speciali. Altra semplificazione riguarda, infine, la liquidazione del patrimonio fallimentare, la quale può essere sostituita dal semplice obbligo del debitore di corrispondere al fiduciario una somma pari al valore del patrimonio stesso; la somma verrà poi ripartita dal fiduciario ai creditori.

Anche la Germania è, dunque, allineata alla tendenza in atto nella maggioranza dei paesi europei , tesa ad estendere la fallibilità anche all’insolvente civile e al piccolo imprenditore; tendenza a cui invece rimane ancora estranea l’Italia, che, anche con la «Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali» introdotta dalla legge n. 80 del 2005 e dal d.lgs. di attuazione n. 5 del 2006, è rimasta legata alla fallibilità del solo imprenditore “non piccolo” (salvo quanto si dirà tra breve), con esclusione non solo del piccolo imprenditore e dell’insolvente civile, ma addirittura dell’imprenditore agricolo in quanto tale. Eppure tutti i più importanti progetti di riforma che hanno visto la luce in questi anni avevano previsto la disciplina dell’«insolvente civile» e della sua «esdebitazione». La riforma della nostra legge fallimentare ha inserito, agli artt. 142 segg., l’istituto generale dell’esdebitazione (infra par. 6), ma lo ha disancorato da qualunque previsione relativa all’insolvente civile, introducendo nei confronti di quest’ultimo un’ulteriore discriminazione rispetto all’imprenditore fallito, al quale soltanto è concesso di liberarsi definitivamente e in maniera stabile dei debiti residui.

Per la verità bisogna tener conto del recentissimo decreto legislativo n. 169 del 12 settembre 2006, emanato in attuazione della delega ad «adottare disposizioni correttive e integrative al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267» contenuta all’art. 1 c. 5 bis della l. 14 maggio 2005 n. 80 e destinato ad entrare in vigore il 1° gennaio 2008, il quale pare aver profondamente innovato il presupposto soggettivo di fallibilità. Esso ha, infatti, all’art. 1 1°c. l. fall., eliminato la nozione di piccolo imprenditore, lasciando soggetti a fallimento tutti «gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici». La modifica tiene conto del fatto che – come recita la relazione illustrativa - «l’eccessiva riduzione dell’area della fallibilità venutasi a determinare a seguito della novella del 2006, spesso ha impedito di assoggettare alla procedura fallimentare (…) imprenditori di rilevanti dimensioni in grado di raggiungere elevati livelli di indebitamento, con conseguente danno, sia per i numerosi creditori insoddisfatti, che per l’economia in generale» . Poiché la norma continua a riferirsi al solo imprenditore commerciale resta comunque ferma l’esclusione dall’area concorsuale di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e non. Dunque per delimitare l’area dei soggetti esonerati non si ricorre più alla nozione di piccolo imprenditore commerciale , ma la si ritaglia in positivo facendo ricorso a stringenti requisiti quantitativi, che devono essere posseduti congiuntamente dall’imprenditore. Essi sono indicati dal novellato secondo comma, che affianca ai due criteri già attualmente previsti (investimenti e ricavi lordi) il terzo e nuovo parametro della esposizione debitoria complessiva, comprendente sia debiti scaduti sia non scaduti, che non deve essere superiore a 500.000 €. A sua volta il preesistente requisito degli «investimenti», che per la sua vaghezza aveva già provocato parecchi problemi agli operatori pratici, viene sostituito con quello più specifico dell’«attivo patrimoniale» . L’attivo patrimoniale deve avere un ammontare complessivo annuo non superiore a 300.000 € e dev’essere considerato riguardo agli ultimi tre esercizi anteriori alla data di deposito dell’istanza di fallimento, così come il successivo parametro dei ricavi lordi (che a sua volta non deve superare i 200.000 € annui).

4. I presupposti oggettivi

È bene precisare subito che, pur non costituendo presupposto per la dichiarazione di fallimento, la mancanza di un attivo (Kostendeckende Masse) sufficiente a coprire i costi del procedimento, compresi gli onorari del curatore, è motivo per il rigetto della domanda altrimenti fondata e ammissibile (§ 26 InsO) . La relativa indagine viene svolta immediatamente dopo la proposizione della domanda di fallimento e dà luogo ad un giudizio prognostico, che se di segno negativo condurrà al rigetto della domanda, salva però la possibilità per i creditori di anticipare loro i costi della procedura, o la possibilità di ottenere una dilazione del pagamento, ammissibile però solo ove il debitore sia una persona fisica ed abbia chiesto lui stesso il fallimento accompagnato da domanda di esdebitazione. La previsione è chiaramente volta ad evitare fallimenti improduttivi ed, anzi, onerosi per le casse statali.

Sulla spinta delle medesime esigenze di economicità sono state introdotte nella legge fallimentare novellata due nuove norme. La prima di esse – relativa però al passivo e non all’attivo – è l’art. 15 ultimo co.: si esclude che possa dichiararsi il fallimento dell’imprenditore (pur fallibile) qualora durante l’istruttoria prefallimentare risulti che l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia inferiore ai 30.000 Euro . Anche questa misura è inserita in un’ottica deflattiva di fallimenti improduttivi o comunque privi di rilevanza collettiva , come chiarisce la Relazione illustrativa quando stabilisce che l’intento del legislatore è «evitare l’apertura di procedure fallimentari nei casi in cui si possa ragionevolmente presumere che i loro costi superino i ricavi distribuibili ai creditori», senza però «interferire sul profilo dell’accertamento dello stato d’insolvenza, quale presupposto oggettivo del fallimento». La seconda è l’art. 102 l. fall., il quale stabilisce che il tribunale «dispone non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali se risulta che non può essere acquisito attivo da distribuire ad alcuno dei creditori che abbiano chiesto l’ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura». La previsione di insufficiente realizzo deve essere fatta dal tribunale, su istanza del curatore, sentito il fallito e con il parere del comitato dei creditori e, con decreto motivato da adottarsi prima dell’udienza per l’esame dello stato passivo o nel corso delle udienze successive, quindi in un momento notevolmente successivo rispetto a quanto avviene nella procedura tedesca (la quale neppure si apre se la previsione è negativa), provocando così la chiusura anticipata del fallimento ex art. 118 1°c. n. 4 l. fall. Si ritiene , peraltro, che l’utilità della prosecuzione della procedura debba essere valutata con una certa discrezionalità dal tribunale, in base alla sufficienza dell’attivo (esistente o recuperabile tramite azioni giudiziarie) a soddisfare almeno le spese della procedura, compreso anche qui il compenso del curatore, e i crediti in prededuzione. Quindi, interpretando l’art. 102 unitamente all’art. 118 1° c. n. 4 l. fall. dove prevede l’impossibilità di soddisfacimento neppure parziale dei creditori concorsuali, dei crediti prededucibili e delle spese della procedura, dovremmo concludere che il fallimento potrà essere chiuso anticipatamente se si prevede che neanche i crediti in prededuzione potranno essere soddisfatti almeno in parte, ma non potrà invece essere chiuso prima del tempo se c’è la possibilità di soddisfare almeno parzialmente quei crediti, nonostante sia già chiaro che nulla potrà essere attribuito ai creditori concorsuali.

Venendo ai presupposti oggettivi per l’apertura della procedura, essi sono, nell’ordinamento tedesco, tre, alternativi tra loro: l’insolvenza (§ 17), il rischio d’insolvenza (§ 18) e lo sbilancio patrimoniale (§ 19).

L’insolvenza (Zahlungsunfähigkeit) è letteralmente l’incapacità di pagamento, che si ha quando il debitore non è in grado di adempiere ai debiti scaduti: si tratta di una illiquidità valutata in un ben preciso momento (Zeitpunkt- Illiquidität), non all’interno di un arco temporale, e riguarda solo debiti già scaduti, senza che la futura evoluzione del patrimonio del debitore giochi alcun ruolo. L’insolvenza si presuppone, di regola, quando l’imprenditore ha cessato i pagamenti. Non basta, però, un momentaneo ritardo nei pagamenti (Zahlungsstockung) se nell’arco di tre settimane il debitore riesce a procurarsi nuova liquidità, fosse anche col ricorso a prestiti o con la vendita di cespiti del patrimonio . È chiaro che in tali ultimi casi la crisi viene solo rimandata.

È allora del tutto sensata la previsione di un secondo, alternativo, presupposto il quale dà, invece, spazio alle previsioni: il rischio d’insolvenza (drohende Zahlungsunfähigkeit), letteralmente la minacciosa incapacità di adempiere. Si ha quando il debitore prevedibilmente non sarà in condizione di adempiere i propri debiti al momento in cui essi scadranno: si tratta, quindi, di una prognosi di illiquidità valutata in un periodo di tempo prolungato (Zeitraum-Illiquidität). La sua durata non è, però, predeterminata dal legislatore e può abbracciare alcuni mesi o anche un periodo superiore. Naturalmente quanto maggiore sarà tale periodo tanto più imprecisa e generica sarà la previsione e quindi più difficile la prova del presupposto. Ecco perché il rischio d’insolvenza costituisce presupposto di fallibilità solo quando sia il debitore stesso a chiedere l’apertura del procedimento (non, quindi, quando essa venga richiesta da un creditore), perché egli è verosimilmente l’unico soggetto in possesso dei dati necessari per fare una valutazione prognostica di questo tipo. Così si riesce ad anticipare l’apertura del procedimento ad un momento anteriore la propria situazione d’insolvenza, il che sicuramente permetterà, in molti casi, la continuazione dell’impresa .

Il terzo ed ultimo presupposto è il sovraindebitamento (Überschuldung) o sbilancio patrimoniale, che si ha quando il patrimonio del debitore non riesce più a coprire i debiti, quando, più semplicemente, le passività superano l’attivo. Lo sbilancio patrimoniale costituisce presupposto per l’apertura del procedimento solo nei confronti delle persone giuridiche (l’inasprimento della disciplina è dovuto alla responsabilità limitata delle società di capitali) e delle società prive di personalità giuridica nelle quali nessuno dei soci illimitatamente responsabili è una persona fisica. Esso è stato previsto per favorire un’apertura tempestiva del procedimento prima che si manifesti l’insolvenza vera e propria, nell’ottica di un principio di prevenzione della crisi e di conservazione dell’impresa.

Come si vede, il legislatore tedesco fa di tutto per favorire l’emersione della crisi dell’impresa prima che la situazione sia irrimediabile, espressamente graduando i relativi presupposti. In Italia ciò avviene ancora solo in parte, tramite la differenziazione dei presupposti che regolano l’accesso rispettivamente al fallimento e al concordato preventivo, parlandosi nell’un caso di «insolvenza» (art. 5 l. fall.) e di «stato di crisi» (art. 160 l. fall.) nell’altro. Prima delle riforme 2005-2006 l’insolvenza costituiva il presupposto oggettivo di tutte le procedure concorsuali, ad eccezione della sola amministrazione controllata recentemente abrogata, e continua comunque ad essere il parametro di riferimento a cui anche lo «stato di crisi» si rapporta . Infatti l’accesso all’amministrazione controllata era subordinato nel vecchio art. 187 l. fall. alla dimostrazione della «temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni» quando fossero altresì presenti «comprovate possibilità di risanare l’impresa». La dottrina faceva coincidere la «temporanea difficoltà» con un periodo di illiquidità transitoria , suscettibile di essere sanata in un lasso di tempo che veniva identificato nella durata massima dell’amministrazione controllata (2 anni dall’inizio della procedura). Si trattava, quindi, sempre di un’incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni: un’insolvenza, caratterizzata però dal requisito della reversibilità. L’istituto, però, non ha mai avuto grosso successo rispetto alla finalità di emersione preventiva della crisi, visto che «l’eccessiva prossimità all’insolvenza della temporanea difficoltà ad adempiere non ha favorito il tempestivo ricorso al tentativo di risanamento che, invece, dovrebbe essere esperito appena si manifestino i primi inequivocabili sintomi della crisi e non quando la stessa sia divenuta così grave da non consentire il regolare adempimento delle obbligazioni assunte» . L’istituto è stato perciò espunto dal nostro ordinamento con le riforme 2005-2006, che hanno altresì mutato, come si diceva, il presupposto per l’accesso alla procedura di concordato preventivo, che non è più l’insolvenza ma lo «stato di crisi». Scompare, così, dal nostro ordinamento la nozione di temporanea difficoltà ad adempiere, ma alcuni Autori si sono posti il problema di capire se essa possa essere ancora di qualche utilità nell’interpretazione del concetto di “crisi”. In senso affermativo ci sono state solo talune isolate pronunce di merito, le quali hanno ritenuto che «la nuova terminologia usata dal Legislatore in sostituzione del termine “stato d’insolvenza” giustifichi una differenza concettuale tra i due termini e in assenza di definizioni normative si debba fare ricorso al contenuto economico del termine “crisi” e cioè una situazione di stallo dell’economia dovuta a fattori di breve periodo, cioè a cause contingenti di squilibrio o inefficienza che precede l’insolvenza stessa ma che tendenzialmente risulta reversibile» . In questo senso la distinzione tra i due termini rappresentava uno spartiacque invalicabile tra situazioni assoggettabili a concordato preventivo e situazioni assoggettabili esclusivamente a fallimento. La dottrina maggioritaria ha, invece, sempre sostenuto che nella nozione di “crisi” andassero ricomprese anche le situazioni di insolvenza irreversibile, così che «per situazione di crisi deve intendersi ogni situazione di difficoltà definitiva o no dell’imprenditore, anche diversa dallo stato d’insolvenza, e non necessariamente tale da prevederne il superamento visto che lo scopo del concordato preventivo non è necessariamente l’eliminazione dello stato di insolvenza ed il ripristino di una situazione normale dell’imprenditore» . Il D.L. 273/2005 ha finalmente posto fine ai dubbi a favore del secondo orientamento, prevedendo l’aggiunta di un secondo comma all’art. 160 l. fall., nel quale si specifica che «ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza». Ecco allora che lo stato di crisi è «verosimilmente comprensivo tanto dell’insolvenza vera e propria quanto di situazioni ad essa prodromiche o finitime, ma che insolvenza ancora non sono e che, verosimilmente, dovrebbero distinguersi sul piano di un loro possibile superamento, sia pure attraverso provvedimenti straordinari di riorganizzazione e ristrutturazione del debito» .

5. Finalità della procedura e Insolvenzplan

In realtà la conservazione e il risanamento dell’impresa non rientrano tra le finalità della procedura, ma sono, piuttosto, uno dei mezzi utilizzabili per il soddisfacimento dei creditori. La finalità è, infatti, quella del soddisfacimento concorsuale dei creditori (§ 1 InsO), i quali rappresentano i protagonisti principali della procedura e hanno un ruolo propulsivo fondamentale in essa. Anzi proprio su questo aspetto si gioca la differenza di fondo tra la procedura d’insolvenza dell’imprenditore e la procedura d’insolvenza del consumatore : se infatti il § 1 InsO individua nel soddisfacimento dei creditori la finalità primaria della procedura d’insolvenza, prevedendo poi che al debitore persona fisica, se meritevole, sia data la possibilità di ottenere l’esdebitazione, nel caso dell’insolvenza del consumatore ad assumere un rilievo preminente è proprio l’esdebitazione, come strumento per risolvere il problema sociale dell’eccessivo indebitamento delle famiglie (come vedremo più approfonditamente nel paragrafo 6).

La necessaria centralità dei creditori è stata finalmente riconosciuta anche nella legge fallimentare italiana con la riforma del 2006, la quale ha rivitalizzato il comitato dei creditori ampliandone notevolmente le competenze e le occasioni d’intervento, tanto che ormai si può parlare di una triade di governo della procedura fallimentare: curatore - giudice delegato - comitato dei creditori. La valorizzazione dell’autonomia privata in seno alla procedura d’insolvenza è diventata, ormai, fondamentale per adattare le scelte operative alle peculiarità del dissesto.

La legge tedesca sull’insolvenza persegue tale obiettivo mediante lo strumento del “piano di regolazione dell’insolvenza” (Insolvenzplan), che ha sostituito i due precedenti istituti del concordato preventivo e del concordato fallimentare. Esso può essere presentato sia dal debitore sia dal curatore su mandato dell’assemblea dei creditori e può avere contenuto molto vario, potendo o prevedere la conservazione dell’impresa, in capo al debitore (Sanierungsplan) oppure attraverso il trasferimento a terzi (Übertragungsplan), o invece, se l’obiettivo della conservazione dell’impresa non possa essere perseguito né con il piano di risanamento né con quello di cessione, le modalità di liquidazione atomistica dell’azienda (Liquidationsplan). Nel piano possono essere coinvolti (§221 InsO) sia i creditori chirografari che i creditori privilegiati (c. d. Absonderungsberechtigte); ne sono invece esclusi i creditori della massa e coloro che – in forza di un diritto reale o personale – vantano un diritto alla separazione del bene loro appartenente dalla massa fallimentare (c. d. Aussonderungsberechtigte), perché sulle loro posizioni il piano non può incidere. Queste ultime due categorie di creditori possono, però, rinunciare volontariamente al loro diritto e partecipare, così, al piano e alla votazione.

Da ciò emerge il superamento, o meglio l’evoluzione, del principio di par condicio creditorum (ben radicato nell’ordinamento tedesco come in quello italiano), evoluzione che emerge ancora di più dalla possibilità di suddividere i creditori partecipanti al piano in varie classi, alle quali viene attribuito un trattamento differenziato: il principio della parità di trattamento è applicato soltanto ai creditori facenti parte della stessa classe, i quali hanno interessi economici omogenei. La suddivisione in gruppi è comunque obbligatoria se esistono creditori con posizioni giuridiche differenti.

Quanto alla possibilità di partecipazione dei creditori privilegiati al concordato preventivo in Italia bisogna segnalare una grossa novità intervenuta con il decreto correttivo. A partire dall’ultima novella legislativa, infatti, il 3°c. dell’art. 177 l. fall. stabilisce che «i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, non hanno diritto di voto se non rinunciano al diritto di prelazione. (…)». Se essi rinunciano in tutto o in parte alla prelazione sono assimilati ai creditori chirografari (art. 177 4°c.). Tali disposizioni hanno provocato problemi di coordinamento con l’art. 160 lett. c) e d), che consente di dividere in classi i creditori secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei e di prevedere trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. Il problema consiste nello stabilire se il concordato possa prevedere la suddivisione in classi e trattamenti differenziati anche per i creditori privilegiati, indipendentemente dai loro diritti di prelazione, e sussiste perché fino a prima della riforma era pacifico che i creditori muniti di prelazione andassero invece soddisfatti integralmente. Finora si è ritenuto che « la possibilità di attribuire ai creditori con diritti di prelazione pagamenti non integrali e, quindi, suddividerli in classi è soggetta a tre condizioni: a) che la somma promessa non sia inferiore a quella realizzabile in caso di vendita, tenendo conto della posizione preferenziale; b) che il valore di mercato attribuibile al cespite oggetto della garanzia (…) sia indicato in una relazione giurata qualificata; c) che non sia alterato l’ordine delle cause legittime di prelazione» . Il decreto correttivo, come anticipato, interviene recependo proprio la soluzione appena proposta, con l’inserimento nell’art. 160 l. fall. di un secondo comma che così recita: «la proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di prelazione non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al cespite o al reddito oggetto della garanzia indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale. Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione». Tutto ciò nell’intento, dichiarato nella Relazione illustrativa, di incentivare ulteriormente il ricorso al concordato preventivo , oltre che di eliminare una illogica diversità di disciplina rispetto al concordato fallimentare.

Venendo alle modalità di approvazione dell’Insolvenzplan, esso dev’essere accettato dalla maggioranza dei gruppi di creditori e, all’interno di ciascun gruppo, deve essere raggiunta una doppia maggioranza: deve votare favorevolmente la maggioranza dei creditori votanti (Kopfmehrheit), che rappresentino altresì la maggioranza della somma del valore dei crediti ammessi al voto (Summenmehrheit). A presidio di tutela dell’autonomia privata è messo il c. d. Obstruktionsverbot (lett. divieto di ostruzionismo), secondo cui è possibile “fingere” l’approvazione di un gruppo di creditori, anche se in esso la maggioranza non è stata raggiunta, se ricorrono alcuni requisiti: il consenso di un gruppo al cui interno non siano state raggiunte le maggioranze si considera fittiziamente dato quando comunque la maggioranza dei gruppi abbia approvato la proposta, la situazione dei creditori che hanno votato contro non sarebbe stata migliore in assenza del piano e tutti i creditori partecipano in misura equa ai vantaggi del piano stesso. È poi necessario il consenso del debitore, il quale, però, si considera dato quando egli non si oppone al piano; anche qui gioca il divieto di ostruzione, il debitore non può opporsi se con il piano si trova in una posizione migliore rispetto a quella che avrebbe senza di esso. Il programma, così come approvato dai creditori, va infine omologato dal tribunale, che controllerà il raggiungimento delle maggioranze prescritte e il rispetto delle norme procedimentali .

Proprio da questo istituto sembrano essere stati mutuati i principi di riforma del concordato preventivo nella legge fallimentare italiana, soprattutto per quanto riguarda le novità della suddivisione dei creditori in classi e dei sistemi di votazione a maggioranza adottati per l’approvazione del concordato, sia in seno a ciascuna classe che complessivamente. Anche qui è stata poi introdotta una sorta di Obstruktionsverbot, laddove l’art. 180 l. fall. stabilisce che il tribunale può comunque omologare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori (e sul presupposto che sia stata proposta opposizione da parte di un creditore), se la maggioranza delle classi lo ha approvato e se i creditori dissenzienti risulteranno soddisfatti dal concordato in misura non inferiore alle altre alternative praticabili (ad esempio accordi di ristrutturazione, altre proposte di concordato o al limite il fallimento stesso) . La conservazione dell’impresa – se prevista dal piano – non può quindi concretamente pregiudicare nessun creditore.

Abbiamo più sopra visto che l’Insolvenzplan può condurre a risultati corrispondenti a quelli conseguibili nel nostro ordinamento con le due forme del concordato preventivo con garanzia e del concordato preventivo con cessione dei beni ad un terzo assuntore; ma se il soddisfacimento dei creditori non può essere raggiunto né col piano di risanamento né con quello di cessione, il piano d’insolvenza avrà il compito di pianificare e regolamentare la liquidazione dell’azienda (Liquidationsplan). Sorge spontaneo il parallelo con un’assoluta novità introdotta dal d. lgs. n. 5 del 2006 nella legge fallimentare all’art. 104 ter, il “Programma di liquidazione”: è un vero e proprio programma di azione che indica le modalità e i termini per la realizzazione dell’attivo, dando conto dell’opportunità dell’esercizio provvisorio anche di singoli rami dell’azienda, dell’affitto o della cessione di essa e regolamentando perfino le condizioni di vendita dei singoli cespiti. Nell’ambito della tendenza alla privatizzazione del fallimento che caratterizza l’intervento riformatore, anche qui il legislatore dà spazio all’autonomia privata, prevedendo la possibilità per il comitato dei creditori di interloquire sul contenuto del piano predisposto dal curatore e di proporre modifiche. Si cerca di giungere, per questa via, ad una migliore attuazione di quella tutela dei creditori che dovrebbe restare la finalità principale di una procedura concorsuale ; e si segna il definitivo abbandono dell’idea tradizionale di liquidazione intesa come attività vincolata posta sotto lo stretto controllo dell’autorità giudiziaria, sostituendola con l’idea che la liquidazione implichi sempre (a prescindere dall’esercizio provvisorio) anche una amministrazione dell’attivo, una sua gestione nel senso di programmazione, ponderazione degli interessi in gioco e apprezzamento discrezionale delle alternative praticabili.

6. Finalità della procedura e Restschuldbefreiung

Resta da esaminare un ultimo istituto, disciplinato al § 286 e seguenti della legge tedesca sull’insolvenza, la “esdebitazione” (Restschuldbefreiung) posta a chiusura del procedimento liquidatorio. Con essa viene introdotta tra le finalità della procedura anche quella di consentire la liberazione definitiva del debitore, affinché gli sia possibile intraprendere una nuova attività dopo la chiusura del fallimento senza la continua minaccia di persecuzione da parte dei creditori che non siano stati (interamente) soddisfatti all’interno della procedura.

Per questo l’esdebitazione è ammessa solo all’interno di una procedura fallimentare già aperta e solo per il debitore persona fisica. Essa si fonda su una dichiarazione del debitore, il quale s’impegna a cedere i suoi futuri guadagni o i redditi sostitutivi, per un periodo di sei anni, ad un fiduciario che sarà nominato dal giudice. Nel periodo in questione il debitore è tenuto a svolgere un lavoro adeguatamente retribuito e, se ne è sprovvisto, deve adoperarsi per trovarlo e non può rifiutare le relative offerte. Se invece svolge un’attività autonoma egli deve, con i pagamenti al fiduciario, porre i creditori nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se avesse svolto un’adeguata corrispondente attività di lavoro subordinato. L’ammissione alla Restschuldbefreiung è decisa dal tribunale al ricorrere di alcuni requisiti (§ 290 InsO) : il debitore non dev’essere stato condannato per bancarotta o reati simili; non deve aver compiuto nei tre anni precedenti all’apertura del fallimento atti fraudolenti diretti all’ottenimento di credito; non dev’essere, nei dieci anni precedenti, stato ammesso alla Restschuldbefreiung (o da essa escluso); non deve, nell’anno anteriore al fallimento, aver nascosto voci patrimoniali attive né creato passività inesistenti o aggravato l’insolvenza; non deve aver violato gli obblighi di informazione e collaborazione prescritti nei suoi confronti dalla legge fallimentare; e non deve, nella domanda di apertura del fallimento o nell’elenco consegnato immediatamente dopo, aver fornito dati falsi o incompleti relativamente al suo patrimonio o ai creditori e alle loro pretese. Ci sono delle eccezioni – peraltro abbastanza limitate - rispetto al prodursi del generale effetto liberatorio, riguardo ad alcuni debiti contratti prima dell’apertura della procedura concorsuale: l’esdebitazione non pregiudica i debiti derivanti da atti illeciti, multe ed obbligazioni ad essi equiparati per legge. Essa, di contro, produce effetti anche nei confronti dei creditori che non hanno presentato domanda d’insinuazione al passivo fallimentare (§ 301 InsO). L’ammissione alla Restschuldbefreiung preclude ai creditori l’esercizio di azioni esecutive individuali per i crediti rimasti insoddisfatti nella procedura e le somme che il fiduciario riscuote vengono ripartite annualmente fra i creditori. Trascorso positivamente il “periodo di buona condotta” di sei anni l’esdebitazione produce finalmente i suoi frutti: i crediti che non sono stati soddisfatti interamente con le ripartizioni annuali del fiduciario si estinguono. Non si tratta, in realtà, di una vera estinzione, ma piuttosto di una trasformazione: essi si convertono in obbligazioni naturali. La giustificazione teorica del perché si debba consentire ad un soggetto insolvente di liberarsi da tutte le obbligazioni preesistenti anche indipendentemente dal fatto che in futuro egli potrà essere nuovamente in grado di adempiere è stata oggetto d’indagine da parte della dottrina di quei paesi in cui l’istituto del discharge (esdebitazione, appunto) è previsto e disciplinato ormai da secoli (Inghilterra e Stati Uniti innanzitutto) . Un primo filone di pensiero, attento a profili di natura sociologica e redistributiva, vede il discharge alternativamente come un atto di perdono del debitore da parte della società, motivato da esigenze etiche e morali, oppure come correttivo alla natura impulsiva degli esseri umani e alla loro tendenza a sottovalutare sistematicamente i rischi del ricorso al credito. Altra teoria, più saldamente ancorata alla realtà oggettiva e più attenta a profili di efficienza dell’istituto, legge il discharge come misura premiale che incoraggia la partecipazione del debitore al procedimento di liquidazione e distribuzione dei propri beni ai creditori; il coinvolgimento del debitore in questo processo, infatti, massimizzerebbe i recuperi dei creditori, i quali, in cambio, sono quindi disposti a liberare il debitore dalle sue obbligazioni residue. Senza contare, poi, che la cancellazione del debito potrebbe incrementare l’utilità sociale consentendo il ritorno del debitore a lavori produttivi. La finalità dell’istituto è stata infine indagata in base alla sua posizione nel generale sistema di politica economica, e si è visto che esso coinvolge i due principi fondamentali della libertà negoziale e della libertà da interferenze dello Stato in economia: da un lato il mercato avrebbe vita breve se non ci fosse la certezza negoziale e la possibilità di dare esecuzione anche coattiva ai contratti, e dall’altro proprio le esigenze dell’esecuzione forzata espongono il debitore al rischio di trovarsi indefinitamente alla mercé dei creditori, privandolo della libertà di agire di nuovo senza impedimenti sul mercato. E il ruolo del discharge sarebbe proprio quello di creare un equilibrio tra le due opposte esigenze della libertà di contrarre e della libertà di agire sul mercato, per non arrivare al punto in cui la previsione di un’esdebitazione a favore degli individui sovraindebitati giunga a minacciare la fiducia nelle contrattazioni e quindi la libertà negoziale, compromettendo così l’intraprendenza e l’imprenditorialità che sono il motore dello sviluppo economico. Ovviamente varie e diverse sono le soluzioni che sono state offerte dai diversi ordinamenti. Abbiamo visto quella tedesca, che con un approccio di tipo moderato prevede il beneficio della cancellazione dei debiti solo su richiesta dell’interessato (non quindi automaticamente come ad es. avviene negli Stati Uniti e in Gran Bretagna), previa valutazione dei requisiti di meritevolezza in capo al debitore da parte del giudice e produce i suoi effetti solo al termine di un periodo di “buona condotta”.

Molto più a buon mercato è, invece, per il debitore italiano, l’esdebitazione introdotta dalla riforma agli artt. 142 - 144 della legge fallimentare , la quale fino a poco tempo fa adottava invece un approccio conservativo, che si limitava ad escludere i soggetti non imprenditori dall’assoggettamento a procedura concorsuale, sottraendoli conseguentemente anche all’eventuale beneficio della cancellazione dei debiti, e che ancora oggi conserva il distacco tra debitore civile e debitore-imprenditore. Anch’essa consistente nella liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti e volta a permettere un fresh start all’imprenditore persona fisica (pur sempre imprenditore) una volta chiuso il fallimento, l’esdebitazione italiana non è però condizionata alla cessione dei futuri guadagni, bensì solo al fatto che i creditori concorsuali siano stati parzialmente soddisfatti e alla buona condotta del debitore nel corso del fallimento stesso. In particolare si richiede che il debitore abbia collaborato con gli organi della procedura attivamente, fornendo tutti i documenti e le informazioni necessarie allo svolgimento della procedura, e passivamente, non cercando di ritardare lo svolgimento delle attività, nascondendo l’attivo, esponendo passività inesistenti, o aggravando il dissesto; si richiede, infine, che egli non abbia già beneficiato dell’esdebitazione nei dieci anni precedenti e che non sia mai stato condannato per reati quali la bancarotta fraudolenta o altri delitti contro l’economia pubblica (salva riabilitazione). Inoltre, anche l’esdebitazione nostrana conosce delle eccezioni – più numerose rispetto a quella tedesca - al generale principio della liberazione dai crediti residui. Non può, infatti, riguardare (art. 142 3°c. l. fall.) gli obblighi di mantenimento, alimentari, e in generale quelli derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa (la formulazione precedente al decreto correttivo parlava invece di “rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46”, cioè tutti i rapporti estranei al patrimonio fallimentare ); sono inoltre esclusi i debiti per il risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale e le sanzioni pecuniarie penali ed amministrative non accessorie a debiti estinti. L’esdebitazione non può poi essere concessa «qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali» (art. 142 2°c. l. fall.): la norma parla di creditori «concorsuali» in generale e non di creditori «chirografari»; se ne può trarre che per legittimare l’esdebitazione basti un parziale pagamento dei creditori con diritto di prelazione, mentre essa non è impedita dalla circostanza che nessun creditore chirografario sia stato (neppure parzialmente) pagato .

Venendo al procedimento, l’esdebitazione può essere pronunciata d’ufficio dal tribunale nel decreto di chiusura del fallimento o su ricorso successivo del debitore, possibile, ex art. 143, solo fino ad un anno successivo alla chiusura del fallimento stesso. È obbligatoria l’audizione del curatore e del comitato dei creditori, ma il relativo parere non è vincolante. Il tribunale con procedimento in camera di consiglio – verificati i presupposti di buona condotta indicati all’art. 142 e «tenuto altresì conto dei comportamenti collaborativi del medesimo» (disposizione inutile e ridondante rispetto ai requisiti richiesti già nell’art. 142) – dichiara inesigibili nei confronti del fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente. L’art. 144 stabilisce, poi, che gli stessi effetti si producono anche nei confronti dei creditori anteriori alla procedura di liquidazione che non si sono insinuati al passivo (e in questo caso l’esdebitazione «opera per la sola eccedenza rispetto alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado»); cioè, come spiega la Relazione al decreto legislativo, l’effetto sanante si produce nei confronti di tutti i creditori, anche quelli che non si sono insinuati al passivo, e ciò per evitare che i creditori non s’insinuino al passivo temendo proprio l’esdebitazione . Ciò detto, resterebbe solo da stabilire se quella che colpisce le obbligazioni residue sia effettivamente un’estinzione o se esse si convertano invece in obbligazioni naturali, come avviene in Germania e nel nostro concordato fallimentare, ma il problema non è di grossa rilevanza pratica.

Come si vede, la disciplina dettata dal nostro legislatore per modellare l’istituto della esdebitazione si inserisce nel filone dell’approccio moderato adottato anche da altri paesi europei, tra cui appunto la Germania, l’Austria e la Francia, che consiste nel prevedere la cancellazione dei debiti ma solo su istanza dell’interessato e previa valutazione da parte del giudice di requisiti di meritevolezza del debitore . In questi paesi, però, la realtà concreta ha dimostrato che solo un esiguo numero di debitori ottiene l’esdebitazione, perché sono molto pochi coloro che, accedendo a procedure concorsuali, ne fanno richiesta. E ciò non stupisce, perché le ragioni ideologiche sopra esposte che stanno alla base dell’istituto si giustificano secondo schemi di vita di concezione americana, ma non reggono più se messe a confronto con la realtà dell’imprenditore europeo. E soprattutto, se esse rendono comprensibile e doverosa la liberazione dai debiti del consumatore, non vale altrettanto per il soggetto imprenditore, che può contare sempre su una rete di protezione – la cancellazione dei suoi debiti – che gli permette di riaprire una nuova attività imprenditoriale con nuovi debiti .

7. Il tipo di processo adottato

Resta infine da fare un accenno al tipo di procedura in senso stretto adottata, ma ci limiteremo per ragioni di spazio al procedimento per la dichiarazione di fallimento e a quello per l’accertamento del passivo fallimentare, che sono quelli che presentano gli aspetti più interessanti.

Per quanto riguarda la dichiarazione di fallimento la competenza per materia spetta alla sezione fallimentare della pretura (Amtsgericht), ed è una competenza esclusiva perché indipendente dal valore della controversia (§ 2 InsO). Territorialmente è competente la pretura nel cui circondario il debitore ha la sede principale dell’impresa; se l’impresa manca (perché, ad esempio, il debitore è insolvente civile) è competente la pretura nel cui circondario il debitore ha il suo foro generale (§ 3 InsO). Il processo per la dichiarazione di fallimento è autonomamente regolato ed ha elementi propri del contenzioso ma anche della volontaria giurisdizione; sono poi applicabili, ove compatibili, le regole del codice di procedura civile (ZPO). Le caratteristiche speciali di tale procedura consistono anzitutto nel fatto che essa si può aprire solo su domanda (del debitore o dei creditori) , ma la sua prosecuzione avviene d’ufficio. «In proiezione processuale, tutto ciò vuol dire che nella legge tedesca tutto ciò che precede (§ 34 InsO) o segue (§ 178 3° c. e 180 InsO) la dichiarazione (di fallimento) è un processo di parti» . E caratteristica del processo di parti tedesco è l’idoneità al giudicato sia interno che esterno di tutta una serie di atti, dal provvedimento conclusivo del ricorso immediato contro i provvedimenti del tribunale e di quello che decide sul rigetto dell’istanza di fallimento (§§ 6 3°c. e 34 3°c. InsO) alla registrazione dei creditori ammessi al passivo nella tabella (§ 178 3°c. InsO). In particolare la registrazione è un istituto che è sconosciuto al nostro ordinamento: essa, se non contestata, provoca gli effetti del giudicato nei confronti del curatore e dei creditori concorsuali.

Il giudice conduce d’ufficio tutti gli accertamenti necessari (mentre nel processo civile vige il principio opposto), indipendentemente dalle offerte di prova e dalle allegazioni delle parti, ed ha forti poteri probatori, potendo interrogare testimoni e chiedere pareri orali o scritti ad esperti . La trattazione è scritta, e le decisioni del giudice assumono la forma di pareri o ordinanze, mai di sentenza. Viene comunque garantito il diritto ad essere ascoltati dal giudice previsto dalla Costituzione (art. 103 GG), che nel caso del debitore viene però limitato (ad es. nel caso di contumacia) per non ritardare la prosecuzione del processo. Le notifiche vengono effettuate d’ufficio. Contro le decisioni del giudice è dato il ricorso immediato al tribunale (Landgericht) quando la legge preveda un’impugnazione, il normale ricorso negli altri casi. Contro le decisioni del tribunale è proponibile il ricorso per motivi di diritto alla corte di Cassazione federale (Bundesgerichtshof).

Quanto al procedimento per l’accertamento del passivo fallimentare sono i singoli creditori a doversi attivare, presentando domanda scritta al curatore (mentre prima della riforma del 1994 era competente il giudice dell’insolvenza) entro un termine che decorre dalla pubblicazione della decisione di apertura del procedimento (Eröffnungsbeschluß) e deve avere una durata minima di tre settimane e massima di tre mesi. Il termine non è, comunque, perentorio, data l’ammissibilità domande tardive. Una peculiarità è che la domanda di ammissione può essere presentata congiuntamente da più creditori, cosa che comporta forti vantaggi «dal punto di vista della semplificazione organizzativa e della riduzione dei costi di partecipazione al procedimento» . Esattamente come da noi, è di fondamentale importanza che i creditori s’insinuino al passivo fallimentare, perché è l’unica possibilità che hanno per soddisfare le loro pretese, vigendo anche nell’ordinamento tedesco il divieto di azioni di accertamento ed esecutive individuali in pendenza di fallimento (§§ 87 e 89). Ma è tanto più importante in Germania perché, come abbiamo visto (supra par. 6), l’esdebitazione produce effetti anche verso chi non abbia presentato domanda di ammissione al passivo; ma il § 302 InsO esclude dall’esdebitazione i debiti che derivano da un fatto illecito del debitore se il creditore, quando ha fatto domanda d’insinuazione al passivo, ha dichiarato tale provenienza. Così, se il creditore s’insinua al passivo e dichiara la provenienza del suo credito da un illecito del debitore, questi non viene liberato dall’obbligazione.

Il curatore, man mano che riceve le domande, le esamina per valutarne l’ammissibilità (non la fondatezza) e procede all’inserzione delle relative pretese in una tabella (Insolvenztabelle, § 175). Successivamente, entro un termine che va da un minimo di una settimana a un massimo di due mesi dalla scadenza del termine finale per la presentazione delle domande, ha luogo un’udienza di verifica (Prüfungstermin), nella quale il giudice procede a un esame formale circa l’ammontare e il rango dei crediti e, solo se riguardo ad alcuni di essi sorgono delle contestazioni, procederà a verificarne la fondatezza. L’inserimento nella tabella produce, relativamente alla pretesa accertata, gli effetti di una sentenza passata in giudicato nei confronti dei creditori e del curatore (§178).

Per quello che riguarda il nostro ordinamento basterà ricordare che, con la riforma 2006, il legislatore aveva generalizzato l’uso del poco garantistico modello camerale, applicabile tanto al procedimento per la dichiarazione di fallimento, quanto a quello per l’accertamento del passivo, ai reclami contro i provvedimenti del giudice delegato e del tribunale, e perfino alle “azioni derivate dal fallimento” ai sensi dell’art. 24 l. fall., revocatorie comprese. Su quest’ultimo punto, però, il decreto correttivo sembra aver fatto retromarcia, prevedendo una modifica all’art. 24 nel senso della reintroduzione della trattazione a cognizione piena per tutte le azioni derivanti dal fallimento, com’era auspicabile anche per scongiurare eventuali declaratorie d’incostituzionalità della norma. Non ha, però, per il resto, introdotto delle regole processuali uniformi, ma solo una varietà di procedimenti con modalità e termini da rispettare tra loro del tutto eterogenei e privi di qualunque armonizzazione.

Francesca Sirianni