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Condotta di parte e conc.

SINTESI:

Gli effetti delle condotte delle parti in caso di conciliazione fallita nel rito ordinario e nel rito del lavoro

La questione:

Quali sono le condotte delle parti che hanno effetti sul processo civile e sul processo del lavoro in caso di fallimento di un tentativo di conciliazione?

Vi sono differenze a seconda che le condotte vengano poste in essere in una fase antecedente al processo oppure in sede processuale?

La risposta in sintesi:

Riguardo al rito ordinario occorre distinguere tra comportamenti tenuti in sede di media-conciliazione, secondo quanto disposto dal D.lgs. 28/10 e comportamenti tenuti nel corso del processo di fronte al giudice in caso di tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 185 c.p.c.

Nel primo caso la disciplina di cui al D.lgs n. 28 dà rilievo alla mancata partecipazione delle parti al procedimento di media-conciliazione, valutabile ex art. 116, comma 2, c.p.c. nonché al rifiuto della proposta conciliativa che incide sul regime delle spese di lite del futuro processo ai sensi dell’art. 13 D.lgs n. 28/10, mentre condotte diverse non hanno alcun rilievo, non potendo le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione essere utilizzate nel successivo processo salvo espresso consenso della parte che le ha rese.

Nel secondo caso, invece, le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero possono essere valutate come argomenti di prova, mentre nessun effetto è previsto per il caso della mancata comparizione al tentativo di conciliazione. Il regime relativo alle spese risente dell’eventuale rifiuto della proposta di conciliazione, ai sensi dell’art. 91, comma 1, c.p.c., ma solo ove il rifiuto sia dato senza giustificato motivo.

Nel rito del lavoro, per quanto non sia univoca l’interpretazione data alle nuove disposizioni di cui all’art. 411 c.p.c., in tema di mancata conciliazione stragiudiziale, e all’art. 420 c.p.c., in tema di mancata conciliazione giudiziale, la migliore opzione interpretativa è quella che limita al regime delle spese giudiziali l’ambito di rilevanza del comportamento delle parti in tali sedi, senza possibilità di trarne elementi, neppure nella forma di argomenti di prova, relativi al merito della controversia.

Quanto, invece, all’interrogatorio libero delle parti di cui all’art. 420 c.p.c., è pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che possono essere valutati come argomenti di prova sia le risposte date dalle parti che la mancata comparizione delle stesse ai fini di rendere l’interrogatorio.

(Enrico Bernini, avvocato del foro di Livorno, dottore di ricerca in Diritto dell’Arbitrato interno ed Internazionale Università LUISS Guido Carli di Roma).

(Andrea Mengali, avvocato del foro di Pisa, dottore di ricerca in Diritto dell’Arbitrato interno ed Internazionale Università LUISS Guido Carli di Roma).

APPROFONDIMENTO:

GLI EFFETTI DELLE CONDOTTE DELLE PARTI IN CASO DI CONCILIAZIONE FALLITA NEL RITO ORDINARIO E NEL RITO DEL LAVORO

a cura di Enrico Bernini* ed Andrea Mengali*

L’APPROFONDIMENTO

Premessa

Uno degli scopi più pervicacemente perseguiti dal legislatore negli interventi degli ultimi anni in tema di processo civile è stato quello della deflazione del contenzioso giudiziario. Tale finalità non solo è alla base del nuovo istituto della “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, ma ha ispirato, almeno indirettamente, tutta un’altra serie di norme, disseminate nel codice di procedura civile nonché in leggi speciali. In tale ottica devono essere inquadrate le varie disposizioni finalizzate in qualche modo a punire la parte che, in modo ingiustificato, abbia deciso di portare avanti la controversia anziché aderire a un’istanza di conciliazione. In tale ottica si inquadrava, per esempio, l’abrogato art. 16, comma 2, D.lgs. 5/2003, che autorizzava il presidente del collegio a tentare la conciliazione della lite, con l’espressa possibilità di tener conto del comportamento delle parti in caso di esito negativo del tentativo al fine della distribuzione delle spese di lite, così che anche la parte, formalmente vittoriosa, poteva essere condannata, in tutto o in parte, al pagamento delle spese legali, qualora non fosse comparsa di persona all’udienza di comparizione ovvero avesse rifiutato ragionevoli proposte conciliative. Analoga previsione era dettata dall’art. 40 del medesimo D.lgs n. 5/03, anch’esso abrogato, con riferimento al tentativo di conciliazione svolto di fronte agli organismi di cui all’art. 38 del medesimo testo legislativo.

Allo stato attuale, al fine di descrivere e approfondire la tematica degli effetti dei comportamenti delle parti in caso di mancata conciliazione, sia nel rito ordinario che nel rito del lavoro, occorre distinguere gli effetti che derivano dal fallimento del tentativo di conciliazione (o della mediazione finalizzata alla conciliazione) svolto di fronte agli organismi a ciò abilitati e dunque in una fase pre – processuale, da quelli derivanti dal fallimento di un tentativo di conciliazione svolto dinanzi al giudice nel corso di un processo civile (o del lavoro) o dal fallimento di un’istanza di conciliazione avanzata da una delle parti, sia essa intervenuta prima o durante il processo.

Gli effetti del comportamento delle parti in caso di fallimento della conciliazione giudiziale nel rito ordinario: A) L’interrogatorio libero e l’art. 116, comma 2, c.p.c.

Il primo tema da affrontare è quello degli effetti del comportamento delle parti in caso di fallimento di un tentativo di conciliazione svolto di fronte al giudice del processo ordinario di cognizione.

Nonostante che cronologicamente e logicamente la mediazione finalizzata alla conciliazione preceda il processo, la scelta dell’ordine di esposizione dipende da ragioni di ordine sistematico e dalla considerazione che gli effetti dei comportamenti resi nel corso del processo, a differenza della nuova disciplina di cui al D.lgs n. 28/10, sono maggiormente sedimentati nella nostra esperienza giuridica, sì da costituire dei punti di riferimento anche per l’interpretazione e la valutazione complessiva della suddetta novità legislativa.

La comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione non è più obbligatoria nel processo civile a seguito della riforma del 2006.

L’attuale disciplina prevede che la comparizione delle parti per l’interrogatorio libero, finalizzato alla conciliazione (oltre che alla chiarificazione dei fatti controversi) possa essere disposta su richiesta congiunta delle parti ai sensi del novellato art. 185 c.p.c. La stessa disposizione fa salva la possibilità per il giudice di ordinare la comparizione personale delle parti rinviando a tal fine al disposto dell’art. 117 c.p.c., non toccato dalle recenti riforme.

In caso di fallimento del tentativo di conciliazione con conseguente prosecuzione del processo, le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero potranno essere valutate come argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c..

L’esperienza processuale (e la logica stessa) insegnano che la funzione probatoria dell’interrogatorio libero contrasta con la sua finalità conciliativa, poiché le parti, sapendo che il loro comportamento può essere fonte di prova, tenderanno a rimanere rigide sulle proprie posizioni; vedremo che riguardo alla media-conciliazione questo dato è stato preso in considerazione dal legislatore dell’ultima riforma.

Medesimo valore probatorio, sempre ex art. 116, comma 2, c.p.c., ha in generale il contegno delle parti nel processo.

Non è espressamente regolato nel rito ordinario il caso della mancata comparizione personale delle parti, laddove essa sia disposta dal giudice o richiesta dalle stesse. Ciò a differenza di quanto accade nel rito del lavoro (sul punto v. infra).

Rimane da vedere se la mancata comparizione per rendere l’interrogatorio libero, nel rito ordinario, possa essere valutata quale condotta processuale dalla quale desumere elementi di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. La questione non è di univoca soluzione, poiché la giurisprudenza oscilla tra posizioni che escludono qualsiasi rilevanza a condotte non qualificate (cfr. Cass. 22 luglio 1981, n. 4722) e altre che danno rilievo, pur in concorso con altri elementi, perfino alla contumacia del convenuto (Cass. 29 marzo 2007, n. 7739). A ogni modo non va sottovalutato l’indubbio margine di discrezionalità attribuito al giudice di merito dall’art. 116, comma 2, c.p.c.

In caso di comparizione personale le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale. Questi deve essere a conoscenza dei fatti di causa e la mancata conoscenza senza giustificato motivo può essere valutata ex art. 116, comma 2, c.p.c. (art. 185, comma 1, c.p.c., ultimo inciso).

Segue: B) L’art. 91 c.p.c. alla luce della novella del 2009: conseguenze in punto di spese della mancata conciliazione.

Un ulteriore effetto del comportamento delle parti in caso di mancata conciliazione durante il processo è dato dall’art. 91 c.p.c. come novellato dalla L. n. 69/09, ai sensi del quale il giudice, in sede di decisione in punto di spese “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92”.

La condanna alle spese di chi ha rifiutato la proposta conciliativa e si è visto accogliere la domanda in misura non superiore a quella indicata nella proposta è obbligatoria e non dipende da un potere discrezionale del giudice.

Importante sottolineare, soprattutto nell’ottica del paragone con il nuovo art. 13 D.lgs n. 28/10 (su cui v. infra), che il confronto tra la proposta conciliativa e la successiva pronuncia di accoglimento opera sul piano della maggiore o minore misura della seconda rispetto alla prima, il che non comporta particolari problemi applicativi.

Altra importante annotazione è che il giudice provvederà ai sensi della detta norma soltanto ove la proposta conciliativa sia stata rifiutata “senza giustificato motivo”.

Quanto alla salvezza del disposto dell’art. 92, comma secondo, secondo parte della dottrina dovrebbe essere limitata al caso della soccombenza parziale reciproca e non anche al ricorrere di “gravi ed eccezionali ragioni” (G.F RICCI., La riforma del processo civile, legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009, 17; Contra S. MENCHINI, sub art. 91, in AAVV, La Riforma della Giustizia Civile, Torino, 2009, 24 s.).

Resta da capire, in riferimento alla“proposta conciliativa”, da chi debba provenire e in quale forme e circostanze debba essere formulate affinché possa trovare applicazione la disposizione in esame.

In altre parole occorre stabilire se debba trattarsi di una proposta proveniente dal giudice, o proveniente dalla controparte, o indifferentemente dall’uno o dall’altra; ancora se debba trattarsi di una proposta formulata in giudizio o possa invece essere anche una proposta stragiudiziale.

Sul punto le interpretazioni finora fornite non appaiono univoche; la lettera della norma sembrerebbe, però, lasciare spazio all’interpretazione più ampia.

Tuttavia, laddove la proposta dovesse provenire dal giudice, si deve ritenere che l’operatività della norma sia limitata al caso in cui al rifiuto di una parte si contrapponga la disponibilità ad accettare dell’altra.

Ciò che è certo è che la disposizione non si applica alle proposte rese all’interno degli organismi di media-conciliazione di cui al D.lgs n. 28/10, che, con riferimento agli effetti della mancata conciliazione sulle spese di lite del futuro processo contiene una disciplina speciale e in parte diversa, sulla quale v. infra.

Le condotte delle parti nella media conciliazione ed il loro riflesso sul processo ordinario di cognizione. A) L’art. 8, comma 5, D.lgs n. 28/10 e la mancata partecipazione al procedimento di mediazione senza giustificato motivo

Nell’affrontare il tema degli effetti del comportamento delle parti in caso di esito negativo della mediazione finalizzata alla conciliazione, volendo seguire l’ordine del D.lgs n. 28/10, la prima disposizione da analizzare è quella di cui all’art. 8, comma 5, che dispone che “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, secondo comma, del codice di procedura civile”. Si tratta di un effetto giuridico derivante da un ben preciso comportamento delle parti, ossia la mancata partecipazione di una (o più) di esse.

In dottrina (cfr. M. BOVE, La mancata comparizione innanzi al mediatore, in www.judicium.it, 2 s.)

è discusso se l’ambito di applicazione della disposizione esame sia limitato alla sola mediazione obbligatoria (ex art. 5, comma 1, D.lgs. n. 28/10) e a quella avente fonte in un precedente accordo tra le parti (clausola di mediazione) ovvero si estenda anche alla mediazione facoltativa (ex art. 2 D.lgs cit.). La collocazione della norma e il fatto che la disposizione non operi alcuna distinzione in merito fanno decisamente propendere per la seconda soluzione, ossia per l’applicazione generalizzata a tutti i procedimenti di mediazione.

Il primo problema da affrontare attiene all’individuazione del significato da dare all’espressione “mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione”.

I primi commentatori del D.lgs n. 28 hanno evidenziato (Cfr. M. CICOGNA, Procedimento in La Nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, commentario al dlgs 4/3/2010 n. 28 a cura di A. BANDINI e N. SOLDATI, 158) come dalla lettera della norma sia possibile qualificare come “mancata partecipazione” ogni comportamento ostruzionistico della parte, vale a dire anche l’assenza a uno soltanto degli incontri (ammesso che in concreto ve ne sia più di uno) svolti di fronte al mediatore.

In effetti non essendo utilizzabili le categorie processualcivilistiche dell’assenza e della contumacia, istituti che sono definiti e distinti in relazione alla “costituzione in giudizio”, che non ha un alter ego nel procedimento di mediazione, la mancata partecipazione rimane un elemento di fatto che non può che essere interpretato in modo ampio, e in tale senso depone la stesso utilizzo che del termine “partecipazione” viene normalmente svolto dalla dottrina processuale e dallo stesso codice di procedura (si veda il verbo “partecipare” indistintamente riferito alla partecipazione alle udienze (es. art. 201, comma 2, c.p.c.,) ovvero al giudizio (es. art. 246 c.p.c.). Ciò non toglie che un diverso peso rispetto a diverse situazioni di mancata partecipazione sarà garantito dalla valutazione discrezionale del giudice, che deciderà nel caso concreto se fare o meno applicazione dell’art. 116, comma 2, c.p.c.

La “mancata partecipazione” che consente al giudice di trarre argomenti di prova nel successivo giudizio civile è tuttavia solo quella “senza giustificato motivo”.

Si pone pertanto il problema di definire quali sono i “giustificati motivi” che impediscono al giudice del futuro processo di trarre dalla mancata partecipazione delle parti argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.

Prendendo come riferimento l’interpretazione fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento al “giustificato motivo” di cui all’art. 232 c.p.c. per il caso della mancata risposta all’interrogatorio formale, ricorrerà il giustificato motivo, per esempio, in caso di malattia propria o di stretto congiunto, in caso di mancanza o inadeguatezza dei mezzi di trasporto in rapporto alla distanza da percorrere. In relazione a quest’ultimo aspetto è stato osservato (M. CICOGNA, op. cit., 159 s.; R. Tiscini, Il procedimento di mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali, in www.judicium.it, 14) che l’individuazione di un giustificato motivo nel caso in cui la mancata partecipazione sia dettata dalla distanza tra luogo dove si svolge la mediazione e luogo di residenza, domicilio o dimora della parte può ovviare al problema derivante dalla possibilità per chi promuove la mediazione di scegliere un organismo sito in un luogo non avente alcun collegamento né con le parti né con la lite.

Altra ipotesi di giustificato motivo sarà quella della mancata ricezione dell’istanza di mediazione (che deve essere comunicata “con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione” ai sensi dell’art. 8, comma 1, Dlgs n. 28/10); anche in questo caso è apprezzabile il parallelo con l’interpretazione dell’art. 232 c.p.c. (cfr. Cass. 14 giugno 1976, n. 478, secondo cui è ravvisabile un giustificato motivo nella omessa o irregolare notifica al contumace dell’ordinanza ammissiva dell’interrogatorio), pur ribadendo le considerazioni già svolte sulle differenze tra “mancata partecipazione” e “contumacia”.

Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo, come già anticipato,“il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, secondo comma, del codice di procedura civile”.

Nonostante che la dottrina pressoché unanimemente consideri gli argomenti di prova come “prove minori” (F.P. LUISO, Diritto Processuale Civile, II, V ed., Milano, 2009, 77 s.; conf. L.P. COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 191), comunque capaci soltanto di essere una fonte sussidiaria di convincimento per il giudice, occorre aver ben chiaro che secondo un’interpretazione fatta propria in alcune pronunce dalla Corte di Cassazione il giudice può fondare il proprio convincimento unicamente su di un argomento di prova (Cass. 15 luglio 2005, n. 15019). La giurisprudenza contraria, pur copiosa, concorda invece con la dottrina ritenendo che gli argomenti di prova possano costituire solo fonte sussidiaria di convincimento (cfr. Cass. 10 novembre 1988, n. 6060 in Rep. Foro It., 1988, voce prova civile in genere, n. 23).

Alla luce di ciò appare discutibile aver attribuito alla mancata partecipazione al procedimento di mediazione un’efficacia a fini di prova sconosciuta nel caso di contumacia nel processo civile, laddove, nel nostro ordinamento, non vi è alcuna sanzione per chi volontariamente si disinteressa del processo.

Pur concordando con chi osserva (R. TISCINI, Vantaggio e svantaggio della nuova mediazione finalizzata alla conciliazione: accordo e sentenza a confronta in Giust. civ., 2010, II, 494) che il trattamento della contumacia come ficta litis contestatio appartiene alla nostra tradizione ma non vale quale principio inderogabile, non si può non rilevare lo stridore della soluzione adottata dal D.lgs n. 28/10 rispetto alle risultanze della quasi coeva novella dell’art. 115 c.p.c, in base alla quale l’onere di specifica contestazione dei fatti allegati dall’avversario è attribuito alla sola parte costituita, con un atteggiamento non sanzionatorio nei confronti della contumacia ma anzi, da un certo punto di vista, “premiale”.

Segue: B) Il rifiuto della proposta di conciliazione e l’art. 13 del D.lgs n. 28/10

Oltre alla “mancata partecipazione” l’altro comportamento che viene tipizzato dalla nuova disciplina sulla media-conciliazione e al quale, in modo peraltro almeno apparentemente analogo al caso regolato dall’art. 91, comma 1, c.p.c., alla luce della riforma di cui alla legge n. 69/2009, viene ricondotto un ben preciso effetto sul futuro processo giurisdizionale, è il rifiuto della proposta di conciliazione.

Ai sensi di quella che può già definirsi come una delle disposizioni più controverse, “quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degil articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4” (art. 13, comma 1, D.lgs n. 28/10).

Si tratta di un obbligo per il giudice il quale, ricorrendo gli elementi della fattispecie, sarà tenuto a:

- escludere la ripetizione delle spese legali sostenute nel corso del giudizio civile dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta;

- condannare quest’ultima al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo;

- condannare la medesima parte al versamento di una sanzione civile in favore dello Stato pari all’importo del contributo unificato dovuto;

- escludere la ripetizione delle spese relative all’esperto di cui all’art. 8, comma 4 e/o condannare la parte che ha rifiutato la proposta conciliativa al rimborso delle stesse.

Oltre a sottolineare i dubbi circa l’opportunità - nonché la legittimità costituzionale - di una soluzione legislativa che sanziona la mancata adesione alla proposta di conciliazione e appare in aperto contrasto con il principio di soccombenza, si pone il problema di delineare la fattispecie con riguardo, in particolar modo, all’elemento della “corrispondenza” (che ai fini dell’operatività della norma di cui al primo comma deve essere integrale) tra contenuto del provvedimento finale e proposta conciliativa.

Risulta infatti una contraddizione in termini il riferimento alla corrispondenza tra una proposta conciliativa, che per sua natura avrà ad oggetto reciproche concessioni, ed un provvedimento decisorio che, invece, tenderà ad accogliere le istanze di una parte a scapito delle difese dell’altra.

In realtà nei fatti quella corrispondenza potrà verificarsi, per esempio nel caso in cui oggetto della proposta di conciliazione sia la corresponsione di una somma di denaro da una parte all’altra, ma la complessità e atipicità del contenzioso civile e commerciale rischia di rendere arduo il confronto tra due atti, la cui natura è senza dubbio eterogenea.

Il problema evidenziato potrebbe essere ridimensionato da una lettura elastica della disposizione, applicandola anche ai casi in cui la decisione del giudice dia alla parte che ha rifiutato la proposta conciliativa “meno di quanto proposto” (cfr. M. Fabiani, Profili critici del rapporto tra mediazione e processo, in www.judicium.it., § 5). Tuttavia non sempre sarà agevole determinare se una parte ha ottenuto più o meno di quanto era stato proposto, e ciò è evidente in modo particolare con riferimento al caso di estensione soggettiva del processo a soggetti che non hanno partecipato alla mediazione.

Ulteriore osservazione da svolgere è che secondo il tenore letterale della disposizione la parte vincitrice sarà condannata per il rifiuto della proposta di conciliazione anche qualora l’altra parte quella proposta non abbia mai accettato. A differenza di quanto detto circa l’art. 91, comma 1, c.p.c., qui non è in discussione da quale soggetto debba provenire la proposta, perché la stessa viene formulata dal mediatore ai sensi dell’art. 11 del D.lgs n. 28/10; quindi ben può darsi che entrambi le parti rifiutino e ciononostante la parte vincitrice venga condannata ex art. 13. Un risultato che appare irragionevole, per cui si auspica un’interpretazione costituzionalmente orientata (o fondata sul rinvio all’art. 92, comma 2 ed alle “gravi ed eccezionali ragioni”) che subordini l’operatività dell’art. 13 al caso in cui la parte “non vincitrice” avesse accettato la proposta.

Il primo comma dell’art. 13 D.lgs. n. 28/10 fa salva l’applicazione degli artt. 92 e 96 c.p.c.

Con riferimento all’art. 92 l’intento del legislatore sembra quello di conservare un margine di discrezionalità del giudice che potrà compensare, in tutto od in parte le spese di giudizio “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre grave ragioni” (art. 92, comma 2, c.p.c.).

Da questo punto di vista si tratta di una previsione analoga a quella dettata dall’art. 91, comma 2, c.p.c., per il caso di rifiuto della proposta conciliativa in corso di causa.

Con riguardo in particolare alla soccombenza reciproca, la disposizione costituisce una norma di chiusura per il caso in cui non sia possibile individuare un “vincitore” ex. 13 D.lgs n. 28/10.

Riguardo alla responsabilità processuale aggravata, invece, il coordinamento tra l’art. 13 e l’art. 96 c.p.c. appare più problematico, non potendosi che condividere il rilievo (DITTRICHT, L. Il procedimento di mediazione nel d.lgs n. 28 del 4 marzo 2010, in www.jidicium.it, 23) secondo il quale ben difficilmente potrà essere condannata al risarcimento dei danni la parte soccombente ma vincitrice sulla proposta di mediazione ed essendo difficile pensare all’individuazione di un danno che sia provocato dalla parte “soccombente” riguardo alla proposta di conciliazione ma vincitrice nel merito.

Il secondo comma dell’art. 13 attribuisce al giudice, con riferimento alla decisione sulle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore nonché per il compenso dovuto all’esperto di cui all’art. 8, comma 4, un potere discrezionale, vincolato tuttavia all’accertamento di “gravi ed eccezionali ragioni”, per il caso in cui la corrispondenza tra la proposta di conciliazione ed il provvedimento sia soltanto parziale. Se la “corrispondenza”, come visto, è fattispecie non facilmente riscontrabile, la “non intera corrispondenza” è, specularmente, ipotesi altamente probabile. Se è apprezzabile, ad onta dei problemi che nascono da una disposizione rigida come quella del primo comma, la discrezionalità attribuita al giudice, l’operatività della norma è tuttavia fortemente limitata dalla necessaria sussistenza di gravi ed eccezionali ragioni e dal solo riferimento alle spese sostenute per il mediatore e per l’esperto di cui lo stesso si sia avvalso.

Segue: Irrilevanza delle altre condotte relativamente agli effetti sul processo

Al di là delle condotte sopra esaminate, vale a dire la mancata partecipazione al procedimento di mediazione ed il rifiuto della proposta conciliativa, il D.lgs n. 28/10 non prevede alcun altro tipo di condotta, che può essere tenuta dalle parti durante il procedimento di mediazione, che abbia effetti sul processo in caso di mancata conciliazione.

Non solo, poiché l’art. 10 del D.lgs. n. 28/10, dispone al primo comma che “le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”.

Si deve dunque ritenere che, eccetto per il caso dell’espresso consenso della parte cui provengono le informazioni e dichiarazioni (ma in questo caso le dichiarazioni non hanno valore probatorio in base al principio nemo testis in re sua), le condotte delle parti in sede di conciliazione non hanno alcuna rilevanza ed efficacia nel successivo giudizio civile, neanche, e a differenza di ciò che accade qualora la conciliazione sia tentata dal giudice nel corso del processo a seguito dell’interrogatorio libero, come argomenti di prova.

Gli effetti dei comportamenti delle parti in caso di mancata conciliazione stragiudiziale nel rito del lavoro.

Passando ad analizzare il processo del lavoro, già si è fatto cenno al fatto che, a seguito dell’approvazione del cd. “Collegato lavoro” (L. 183/2010), il tentativo di conciliazione, da obbligatorio, è diventato facoltativo, fatta eccezione per il tentativo previsto ai sensi dell’art. 80, comma 4, in tema di certificazione dei contratti di lavoro.

In precedenza l’art. 412 c.p.c. prevedeva, al comma quattro, che in caso di mancata conciliazione il giudice, in sede di giudizio, avrebbe tenuto conto delle risultanze del verbale ai fini della quantificazione delle spese. La norma veniva generalmente interpretata nel senso che le ragioni del mancato accordo erano in grado di incidere esclusivamente sulla quantificazione delle spese, mentre non potevano avere alcuna efficacia probatoria, neppure sotto forma di argomenti di prova.

Disposizione analoga vigeva in tema di controversie di pubblico impiego, prevedendo l’abrogato art. 66 D.lgs. 165/2001 l’acquisizione, anche di ufficio, dei verbali concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito e la valutazione da parte del giudice del comportamento tenuto dalle parti, anche in relazione alla proposta conciliativa effettuata dalla commissione in questo tipo di controversie, nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese.

L’attuale art. 411 c.p.c., come modificato dal Collegato lavoro, contiene la disciplina del processo verbale (positivo e negativo) di conciliazione redatto di fronte alle commissioni operanti presso le Direzioni provinciali del lavoro. Tale disposizione si ispira in gran parte al predetto art. 66 D.lgs. 165/2001, anche nella parte in cui prevede che la commissione di conciliazione debba formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia in caso di disaccordo tra le parti. I termini della proposta, se questa non viene accettata, vengono riassunti nel verbale, con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti e, nel successivo giudizio, il giudice “tiene conto” “delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione”.

La novità è potenzialmente dirompente, dal momento che la disposizione, non limitando, rispetto a quanto avveniva in passato, il potere del giudice di tener conto delle ragioni della mancata conciliazione al solo fine di modulare la ripartizione delle spese di causa, potrebbe essere interpretata nel senso che la valutazione dei comportamenti tenuti in sede di tentativo di conciliazione siano in grado di incidere sull’attività di giudizio propriamente intesa, sotto la forma, occorre ritenere, degli argomenti di prova.

Tale interpretazione, forse più corretta da un punto di vista letterale (in quanto il legislatore della riforma ha omesso di riportare la clausola che limitava espressamente alla statuizione sulle spese il valore delle dichiarazioni dalle parti in sede pregiudiziale) e sostenuta da parte della dottrina (R. Tiscini, Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il restyling della l. n. 183/2010 (cd. collegato lavoro), in www.judicium.it, § 9), deve però essere respinta, non solo per ragioni di opportunità, dal momento che ben difficilmente le parti sarebbero disponibili ad affrontare un tentativo di conciliazione le cui risultanze siano in grado di incidere addirittura sul merito della futura controversia, ma anche per ragioni sistematiche, in quanto, come è stato messo in evidenza, se il mero fatto di aver rifiutato una proposta transattiva, quando la parte non è per definizione in grado di sapere quali saranno gli esiti del successivo processo, avesse effetti che vanno oltre la mera responsabilità delle spese processuali, le parti vedrebbero compressa la loro libertà di adire il giudice per tutelare i propri diritti, con probabili riflessi in termini di incostituzionalità della disposizione. Secondo altri autori (M. Bove, ADR nel c.d. collegato lavoro(prime riflessioni sull’art. 31 della legge 4 novembre 2010 n. 183), in www.judicium.it, § 2), peraltro, non sarebbe possibile trarre argomenti di prova da comportamenti che si tengono fuori dal processo quando ciò non sia espressamente previsto dalla legge.

Occorre infine ricordare come, ai sensi dell’art. 412 c.p.c., in ogni fase del tentativo di conciliazione ovvero al suo termine le parti possono affidare alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere la controversia tramite arbitrato.

La norma in oggetto, ribaltando i principio stabiliti in tema di mediazione nel processo civile, attribuisce la possibilità di deferire la decisione della controversia allo stesso organo che ha guidato la procedura di conciliazione e ha effettuato la proposta conciliativa. In questo caso gli effetti dei comportamenti che le parti hanno tenuto in sede di conciliazione, al di là della loro qualificazione giuridica, finirebbero per incidere in modo determinante sull’esito della controversia.

La continuità tra conciliazione e giudizio, sotto forma di arbitrato, per quanto salutata con favore da alcuni autori (R. TISCINI, op. ult. cit., § 10), suscita delle perplessità, tanto che altri autori (G. CANALE, Arbitrato e collegato lavoro, in www.judicium.it, § 5) hanno sottolineato come i commissari che hanno presieduto al tentativo di conciliazione non possano coincidere con quelli che hanno gestito la fase pregiudiziale.

Segue. Gli effetti dei comportamenti delle parti rispetto al tentativo obbligatorio di conciliazione giudiziale.

Alla trasformazione del tentativo di conciliazione pregiudiziale da obbligatorio a facoltativo fa da contraltare, nel processo del lavoro, l’accentuazione dei poteri giudiziali, in quanto il Collegato lavoro, modificando l’art. 420 c.p.c., ha attribuito al giudice, in sede di udienza di trattazione, il potere/dovere di formulare una proposta conciliativa e ha previsto, in caso di rifiuto senza giustificato motivo della proposta transattiva del giudice, la possibilità di valutare il comportamento “ai fini del giudizio”.

L’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva viene pertanto equiparato, quanto agli effetti, alla mancata comparizione a rendere l’interrogatorio libero. In realtà, mentre non sembrano esserci dubbi sul fatto che dalla mancata comparizione personale delle parti senza giustificato motivo (così come dalle risposte date in sede di interrogatorio libero) il giudice possa dedurre argomenti di prova, talvolta ritenuti idonei, dalla giurisprudenza, a costituire l’unica fonte di convincimento del giudice (v. Cass. 2 aprile 2009, n. 8066), discorso differente deve essere fatto per la mancata accettazione della proposta conciliativa del giudice.

La migliore opzione interpretativa (v. ad es. L. DE ANGELIS, Collegato lavoro 2010 e diritto processuale, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2011, 2, 159), sul punto, tende a equiparare gli effetti della mancata accettazione della proposta conciliativa da parte del giudice a quelli della mancata accettazione della proposta effettuata in sede di conciliazione pregiudiziale, ossia affermando che il comportamento della parte, che non ha accettato la proposta conciliativa senza giustificato motivo, non possa essere sanzionato se non nell’ambito della pronuncia sulle spese, senza che da tale comportamento si possano trarre elementi al fine del giudizio di merito.

Vi sono peraltro altri autori che, seppur in forma dubitativa, sostengono che dall’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa il giudice possa trarre argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. (M. BOVE, op. loc. ult. cit).

Conclusioni

A conclusione della disamina degli effetti sul processo civile del comportamento delle parti in caso di mancata conciliazione, quanto al rito ordinario, appaiono evidenti e irragionevoli le discrepanze tra la disciplina codicistica e quella dettata dal D.lgs n. 28/10.

A ben vedere, gli effetti sono in parte opposti: in sede di media-conciliazione non hanno infatti alcun rilievo i comportamenti delle parti diversi dalla mancata presenza al tentativo, valutabile ex art. 116, comma 2, c.p.c., (oltre che dal rifiuto della proposta); in caso di tentativo di conciliazione in giudizio, invece, il comportamento delle parti è valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., mentre alcuna previsione è dettata per il caso della mancata comparizione.

Incomprensibilmente diverse sono poi le discipline dettate con riferimento agli effetti sulla pronuncia in punto di spese, dal momento che l’art. 91, comma 1, c.p.c., si applica solo in caso di rifiuto della proposta senza giustificato motivo, requisito che non trova invece spazio nell’art. 13 del D.lgs n. 28/10.

Con riguardo a detta disposizione, inoltre, non pochi problemi, come visto, sorgono dalla sua formulazione, con particolare riferimento all’elemento della corrispondenza tra il provvedimento giudiziale e la proposta conciliativa.

Riguardo al rito del lavoro, occorre ribadire come debbano essere accolte le opzioni interpretative che attribuiscono rilevanza ai soli fini della ripartizione delle spese di causa sia alla mancata accettazione, senza giustificato motivo, della proposta conciliativa effettuata dalla commissione di conciliazione ai sensi dell’art. 411, comma 2, c.p.c. sia al rifiuto della proposta transattiva effettuata dal giudice in sede di udienza di trattazione, dovendosi limitare la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova esclusivamente alla mancata comparizione delle parti in udienza per rendere l’interrogatorio libero ovvero alle risposte date dalle parti in tale sede.

Le norme

C.P.C.:

- art. 91, comma 2, c.p.c.

- art.116, comma 2, c.p.c.

- art. 117 c.p.c.

- art. 185 c.p.c.

- art. 411 c.p.c.

- art. 420 c.p.c.

D.Lgs n. 28/10

- art. 8, comma 5

- art. 10

- art. 13

Approfondimenti dottrinali

BOVE M., La mancata comparizione innanzi al mediatore, in www.judicium.it

CANALE G., Arbitrato e collegato lavoro, in www.judicium.it

CICOGNA M., Procedimento in La Nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, commentario al dlgs 4/3/2010 n. 28 a cura di A. BANDINI e N. SOLDATI

DE CRISTOFARO M,, Il nuovo regime delle alternative alla giurisdizione statale (ADR) nel contenzioso del lavoro: conciliazione facoltativa e arbitrato, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2011, I, 57 ss.

FABIANI M., Profili critici del rapporto tra mediazione e processo, in www.judicium.it.,

MENCHINI S., sub art. 91, in AAVV, La Riforma della Giustizia Civile, Torino, 2009

MONTELEONE G., La mediazione “forzata”, in www.judicium.it

SCARSELLI G., La nuova mediazione e conciliazione, in www.judicium.it

TISCINI R., Vantaggio e svantaggio della nuova mediazione finalizzata alla conciliazione: accordo e sentenza a confronto, in Giust. civ., 2010, II, 489 ss.

TISCINI R., Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il restyling della l. n. 183/2010 (cd. collegato lavoro), in www.judicium.it.

La pratica

IL CASO CONCRETO

Il sig. X avvia procedimento di mediazione contro il dr. Y per la condanna dello stesso al risarcimento dei danni per responsabilità medica in relazione al sinistro avvenuto in data gg/mm/aaaa. Il dr. Y si presente in sede di mediazione davanti all’organismo Alfa scelto dal sig. X e contesta ogni addebito. Il mediatore Z, che si avvale per lo svolgimento della sua attività dell’esperto Q, propone di definire la controversia con il pagamento da parte del dr. Z della somma di € K. Il sig. X rifiuta la proposta e agisce in giudizio nei confronti del dr. Z. Il giudice adito all’esito del processo emette sentenza di condanna del dr. Y al pagamento di € K e condanna l’attore sig. X al pagamento delle spese di lite sostenute dal dr. Z ed al versamento di una somma al bilancio dello Stato pari all’importo del contributo unificato, con esclusione della ripetizione delle spese di lite, oltre che delle indennità corrisposte al mediatore ed all’esperto.