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Interrogatorio libero

Le risultanze dell’interrogatorio libero: loro valore probatorio e vizio di omessa motivazione

La Cassazione, con la sentenza 28 febbraio 2008, n. 5290, torna ad affermare che le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero non sono capaci da sole di fondare il convincimento del giudice e che la loro mancata valutazione in sentenza non costituisce vizio di omessa od insufficiente motivazione

Quesiti

Qual è il valore probatorio delle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero?

La mancata valutazione da parte del giudice delle risultanze dell’interrogatorio libero costituisce vizio di omessa motivazione?

Introduzione

L’interrogatorio libero può essere disposto dal giudice (art. 117 c.p.c.) o dalle parti per loro concorde richiesta (art. 185 c.p.c.). Controversa è la natura dell’istituto, se mezzo di prova o mezzo di chiarificazione dei fatti controversi. Questione da sempre dibattuta è poi quella del valore probatorio delle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio, nonostante la formulazione apparentemente chiara dell’art. 116, comma 2, c.p.c.

Le norme

Art. 116, comma 2, c.p.c.

Art. 117 c.p.c.

Art. 185 c.p.c

Art. 229 c.p.c.

La fattispecie

L’interrogatorio libero consente al giudice di richiedere alle parti una chiarificazione delle loro rispettive posizioni. In questo modo l’istituto può favorire la conciliazione.

Accanto all’aspetto di chiarificazione dei fatti controversi e conseguente strumento di verifica delle possibilità conciliative delle liti, vi è tuttavia un altro aspetto, che in qualche modo si pone in contrasto con il primo.

Si tratta dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalle parti.

E’ infatti evidente che le dichiarazioni delle parti in tanto possono avere efficacia probatoria in quanto siano confessorie, non avendo le dichiarazioni di fatti favorevoli alcun valore, in base alla massima di esperienza in base alla quale chi afferma fatti a se favorevoli non è attendibile.

E’ del pari evidente che attribuire valore confessorio alle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero significa pregiudicare la finalità di chiarificazione dei fatti controversi e di conciliazione, incentivando le parti alla massima cautela nelle risposte, di modo che esse non possono che finire per essere la ripetizione dei fatti così come già esposto negli atti di causa.

Per ovviare a tale inconveniente l’art. 229 c.p.c. dispone che “la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il disposto dell’art. 117 c.p.c.”

Dunque le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero, ancorché il verbale di udienza sia sottoscritto personalmente da queste, non hanno valore confessorio.

Se il legislatore si fosse limitato a dettare le disposizioni appena citate, molti dei dubbi e delle problematiche connesse all’istituto dell’interrogatorio non formale verrebbero meno. Tuttavia nel codice è contenuta un’altra disposizione relativa all’interrogatorio libero, ossia l’art. 116, comma 2, c.p.c., secondo cui “Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente [...] e, in generale, dal contegno delle parti nel processo”. Detto ultimo inciso, calato nella fattispecie dell’interrogatorio libero, rende rilevante, ad esempio, il contegno della parte che si rifiuti di rendere l’interrogatorio.

Detta disposizione esclude, quindi, che le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero siano prive di valore probatorio, rendendo attuale e reale il contrasto sopra accennato. Se da una parte si stabilisce che dette dichiarazioni non hanno valore confessorio, infatti, dall’altra vi si attribuisce comunque un valore probatorio, quello di argomento di prova, più o meno intenso a seconda delle interpretazioni.

Secondo una prima interpretazione, infatti, le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero non avrebbero di per se efficacia probatoria, potendo avere solo un’efficacia integrativa e convalidante delle altre risultanze istruttorie. Secondo una diversa interpretazione, invece, dette risposte sarebbero capaci di fondare da sole il convincimento del giudice.

Altra questione, connessa a quella già illustrata, è se il giudice abbia o meno l’obbligo di dar conto in sede decisoria delle risultanza dell’interrogatorio non formale, potendosi configurare in caso affermativo un vizio di omessa motivazione. E’ evidente che la risposta sarà positiva laddove si ritengano quelle risultanze istruttorie un vero e proprio mezzo di prova, potrà essere invece negativa laddove le si ritengano mero strumento di integrazione del convincimento del giudice, che deve e può fondarsi su altri elementi probatori, dei quali soli il giudice ha l’obbligo di rendere conto in fase decisoria.

Riguardo infine agli aspetti dinamici dell’istituto, occorre sottolineare come l’interrogatorio libero sia a disposizione del giudice, che può disporlo in qualunque momento (art. 117 c.p.c.), mentre le parti potranno richiederlo solo congiuntamente (art. 185 c.p.c.). E’ invece scomparso dall’art. 183 c.p.c. il riferimento al libero interrogatorio delle parti, per cui oggi l’interrogatorio non formale è momento solo eventuale del processo, e si svolgerà solo se disposto dal giudice o richiesto dalle parti.

La disposizione ha peraltro ricondotto la situazione di diritto a quella che è sempre stata la prassi applicativa degli uffici giudiziari, ossia il carattere solo eventuale e subordinato alla richiesta di parte dell’interrogatorio libero.

E’ invece rimasta invariata dopo l’ultima riforma la formulazione dell’art. 420, comma 1, c.p.c, che, relativamente al rito del lavoro, prescrive che il giudice, all’udienza di discussione “interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite”.

La giurisprudenza

La Corte di Cassazione ha dapprima escluso che l’interrogatorio libero sia un mezzo di prova, contrapponendolo all’interrogatorio formale, che come noto, invece, mira a provocare la confessione giudiziale (Cass. 13 febbraio 1987, n. 1574).

L’interrogatorio libero, secondo tale interpretazione, serve allora solo a “corroborare le prove già acquisite al processo, oppure a disattenderle” (Cass. 1574/1987 cit.).

In seguito la Suprema Corte, nonostante abbia continuato a escludere la natura di mezzo di prova dell’interrogatorio non formale, ha invece affermato che “le dichiarazioni rese dalla parte nell’interrogatorio libero […] possono essere fonte anche unica del convincimento del giudice” (cfr. Cass. 15 luglio 2005, n. 15019).

Questa sembra ad oggi la posizione prevalente della giurisprudenza. Certo è che appare contradditorio da una parte negare la natura di mezzo di prova dell’interrogatorio libero, dall’altra attribuire di fatto efficacia di prova liberamente valutabile alle dichiarazioni delle parti .

Senza dubbio detta interpretazione della giurisprudenza non favorisce l’utilizzo dell’interrogatorio libero come strumento di conciliazione tra le parti, e ciò nonostante che il legislatore del 2006 abbia espressamente accostato l’interrogatorio non formale all’istituto della conciliazione giudiziale, disponendo all’art. 185 c.p.c che “il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa a comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione” , mentre nel rito del lavoro il nesso tra conciliazione ed interrogatorio era già esplicito nella formulazione dell’art. 420 c.p.c.

Al contrario, la recentissima Cass. 28 febbraio 2008, n. 5290 è tornata ad affermare, riguardo alle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero, che il giudice “in difetto di altre risultanze processuali, non può attribuire efficacia probatoria al relativo contenuto”.

Appare così recuperata, almeno stando a tale ultima pronuncia, l’originaria impostazione della giurisprudenza di Cassazione, che aveva ampiamente sviluppato gli argomenti favorevoli a detta interpretazione con la sentenza 27 febbraio 1990, n. 1519 .

Tale pronuncia prendeva atto del fatto che “nell'istituto concorrono due funzioni: la prima, indicata dalla relazione del codice e precisata da una autorevole dottrina, consiste nella "chiarificazione delle allegazioni delle parti"; la seconda in una funzione probatoria di carattere sussidiario.

La sentenza poneva ancora l’accento sulla relazione ministeriale al codice di procedura così proseguendo: “La prima funzione è ben chiarita dalla relazione ministeriale quando afferma: "... questo interrogatorio libero di cui il giudice ha l'iniziativa, non mira, come l'interrogatorio formale a istanza di parte a provocare una confessione con efficacia di prova legale; mira piuttosto a far sì che le parti possono chiarire le loro allegazioni di fatto e le loro conclusioni, là dove queste sembrino al giudice incomplete od oscure.

Sulla funzione probatoria, come detto, la citata Cass. 1519/1990 prendeva atto che “accanto a questa che è la funzione primaria dell'Istituto, la dottrina ne ha posto in rilievo da tempo una seconda funzione: quella di consentire al giudice di provocare il comportamento delle parti per trarne elementi di valutazione delle prove già acquisite, ove da queste il giudice non abbia potuto desumere gli elementi per il suo pieno convincimento. L'interrogatorio libero acquista così la natura di strumento probatorio di carattere sussidiario "per pervenire ad una decisione fondata sul prudente apprezzamento il luogo che su regole legali”.

Osservava poi la Cassazione che "il risultato dell'interrogatorio libero può essere più proficuo di quello che la norma non faccia pensare: perché non c'è dubbio che può anche sbocciare in vere e proprie ammissioni ... e può anche dar luogo ad una vera confessione". Il giudice, una volta disposto l'interrogatorio non formale, raramente sfuggirà alla tentazione di evadere dai cancelli del chiarimento e di spaziare sul terreno della vera prova; e può quindi accadere che, spontaneamente o per sollecitazione del giudice, una parte consapevolmente o meno dichiari fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all'altra parte come in una confessione giudiziale”.

Venendo alle conclusioni di quella sentenza, la Cassazione, con argomentazioni implicitamente fatte proprie da Cass. 590/2008 e che appaiono largamente condivisibili, affermava che “si tratta, tuttavia, di un risultato non soltanto non conforme a quella che è la funzione dell'istituto, ma tale da poter pregiudicare in pratica lo svolgimento di esso. Potrebbe difatti accadere che un istituto previsto per la tutela delle parti e diretto a instaurare il rapporto più immediato e sincero tra le parti ed il giudice, finisca per ritorcersi su chi sia stato più ingenuo dell'altro; che questi, anziché trovarsi di fronte ad un giudice che voglia dargli un aiuto paterno a spiegarsi e a difendersi meglio, si trovi dinanzi ad un inquisitore che approfitti delle sue dichiarazioni per ritorcergliele contro.

L'ordinamento giuridico pertanto guarda con sfavore alle dichiarazioni confessorie o ammissioni che le parti possono compiere in sede di interrogatorio libero; non dispone, come pure avrebbe potuto, che il giudice non deve tenere conto alcuna di esse, ma, tuttavia, esclude che esse possano avere valore di prova piena ed esclusiva come la confessione giudiziale (art. 229 c.p.c.) e riconosce ad esse solo il valore di criterio sussidiario di valutazione delle prove già acquisite.

Nonostante il carattere senz’altro persuasivo di dette argomentazioni la giurisprudenza, sino alla recente Cass. 28 febbraio 2008, n. 5290, si è spostata, come detto, sull’interpretazione diametralmente opposta, con la conseguenza che attualmente e proprio grazie alla sentenza da ultimo richiamata ben può dirsi presente e attuale il contrasto giurisprudenziale in ordine all’efficacia probatoria delle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero.

Di conseguenza vi è un contrasto interpretativo anche riguardo al secondo quesito posto al nostro esame, ossia se la mancata valutazione da parte del giudice delle risultanze dell’interrogatorio libero costituisce o meno vizio di omessa motivazione.

Difatti, sulla base dell’interpretazione sopra vista, secondo cui le risposte delle parti, rese in sede di interrogatorio libero, sono capaci da sole di fondare il convincimento del giudice, Cass. 15 luglio 2005, n. 15019, afferma che “il giudice a quo avrebbe dovuto esaminare tali dichiarazioni […] e dare conto delle sue valutazioni su di esse”.

Al contrario Cass. 28 febbraio 2008, n. 5290 afferma che “financo la mancata valutazione dell’interrogatorio non formale non costituisce invero violazione dell’art. 2697 c.c., riguardante l’onere della prova, o dell’art. 2733 c.c., concernente la confessione giudiziale, né può integrare vizio di omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, essendo la suddetta valutazione rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, il cui omesso esame non è sindacabile in sede di legittimità”.

Diverso e da non confondere con quanto finora detto è il problema dei rapporti tra confessione giudiziale spontanea ed interrogatorio libero.

Se è pacifico, perché è il codice ad affermarlo, che le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero non possono mai avere valore confessorio, del pari è pacifico in giurisprudenza che l’interrogatorio libero possa essere l’occasione nella quale si verifichi una confessione spontanea della parte.

Ciò a condizione che essa non sia provocata dalle domande del giudice, ma che sia appunto spontanea, e che il verbale rechi la sottoscrizione della parte (cfr., tra le tante, Cass. 16 maggio 2006, n. 11403).

A ben vedere si tratta di problema del tutto autonomo rispetto a quello sinora preso in esame. Non si tratta, infatti, di determinare il valore probatorio delle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio, ma quello di autonome dichiarazioni, che si inseriscono all’interno del libero interrogatorio solo accidentalmente.

La dottrina

Parte minoritaria della dottrina distingue l’interrogatorio libero, previsto dall’art. 183 c.p.c. (oggi dall’art. 185 c.p.c.), dall’interrogatorio non formale, previsto dall’art. 117 c.p.c., ritenendo il primo una species del secondo . Preferibile appare, invece, considerare i due termini come sinonimi, così come ritiene la stragrande maggioranza degli autori .

La dottrina evidenzia come la funzione tradizionale dell’interrogatorio libero sia quella di chiarire e precisare i fatti di causa, anche se la giurisprudenza ha inequivocabilmente reso prevalente la funzione probatoria . A questo proposito, vi è chi ha parlato di “ambigua natura dell’interrogatorio libero ”.

In particolare l’interrogatorio faciliterebbe al giudice l’inquadramento giuridico della fattispecie, svolgendo una funzione di contestazione – allegazione , e di definitiva fissazione del thema probandum, ossia dei fatti realmente controversi e bisognosi di prova .

Che questa sia la funzione principale dell’interrogatorio libero, almeno secondo le intenzioni del legislatore, è dato, per la dottrina, oltre che dalla relazione al codice di procedura, dalla stessa collocazione normativa dell’istituto, disciplinato nel titolo V del libro I, intitolato “dei poteri del giudice” .

La dottrina poi, giustamente, evidenzia come l’interrogatorio libero abbia una funzione di verifica della conciliabilità della controversia. Vi è chi, in particolare, ravvisa nell’istituto due diverse finalità, una processuale e l’altra strumentale al tentativo di conciliazione .

Quanto alla funzione probatoria, mentre alcuni autori si limitano a registrare il descritto contrasto giurisprudenziale , osservando che la prevalenza della funzione probatoria rischia di pregiudicare l’originaria finalità dell’istituto , vi è chi giustamente distingue a seconda che i fatti dichiarati in sede di interrogatorio siano sfavorevoli alla parte che li dichiara o invece favorevoli.

Nel primo caso, pur non configurandosi una confessione, minoritaria ma autorevole dottrina ritiene che le dichiarazioni siano idonee a “porre il fatto ammesso fuori del thema probandum ed a vincolare il giudice a doverlo ritenere, in quanto pacifico e non controverso, come esistente ”. Secondo questa interpretazione, pur non valendo come confessione, l’interrogatorio libero darebbe al giudice ben più di un argomento di prova, finendo per fissare il fatto oggetto della controversia e non contestato con lo stesso effetto di una prova legale .

Nel secondo caso il valore probatorio è minimo, per la massima di esperienza per cui non è attendibile chi dichiara fatti a se sfavorevoli .

Gli autori sottolineano poi come oggetto di valutazione da parte del giudice sia anche, in forza della previsione di cui all’art. 116, comma 2, c.p.c. (valutazione del contegno delle parti nel processo), il comportamento delle parti in sede di interrogatorio, in particolare la loro mancata presentazione a renderlo, che può costituire argomento di prova .

Riguardo al problema della mancata valutazione delle risultanze dell’interrogatorio, alcuni autori, ritenendo prevalente la funzione chiarificatoria, evidenziano come la mancata considerazione delle risultanze dell’interrogatorio non dia luogo a un vizio in procedendo o in iudicando, poiché la “funzione chiarificatoria viene comunque assicurata con altri mezzi, nel corso del giudizio ”. E’ lo stesso Autore citato in nota che giustifica ulteriormente l’assunto, osservando che “l’interrogatorio, in quanto è libero, […] si sottrae a qualsiasi veicolo modale precostituito, rimanendo soggetto all’iniziativa ex officio, discrezionale ed insindacabile, del giudice di merito” .

Si tratta di argomenti senz’altro condivisibili, che danno ragione dell’interpretazione giurisprudenziale da ultimo prospettata dalla sopra vista Cass. 28 febbraio 2008, n. 5290.

Elenco delle massime

La mancata valutazione delle risultanze dell'interrogatorio libero (da cui il giudice può semplicemente dedurre motivi sussidiari di convincimento per rafforzare o disattendere le prove già acquisite al processo) costituisce espressione del potere discrezionale del giudice del merito e, conseguentemente, non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo dell'omessa od insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. (Rigetta, App. Trento, 28 Settembre 2002)

Cass. civ. Sez. III Sent., 28-02-2008, n. 5290 (rv. 601945)

La facoltà di trarre argomenti sfavorevoli alla parte dalla sua mancata risposta all'interrogatorio formale, o dalla sua mancata comparizione al fine di rendere interrogatorio libero, e di ritenere o meno valido il motivo dedotto a giustificazione della mancata comparizione, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, e non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15-04-2004, n. 7208 (rv. 572096)

Poiché le eventuali ammissioni fatte dalla parte in sede di interrogatorio libero non costituiscono prova piena in danno della parte medesima, ma hanno un valore solamente indiziario, la mancata considerazione di siffatto elemento in favore dell'altra parte ad opera del giudice di merito non è sindacabile nel giudizio di legittimità.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15-05-2003, n. 7596

Nel rito del lavoro, le risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero ex art. 420 c.p.c. sono liberamente utilizzabili dal giudice come elemento di convincimento, soprattutto se riguardino fatti che possono essere conosciuti solo dalle parti medesime, o non siano contraddette da elementi probatori contrari, e possono arrivare a costituire anche l'unica fonte di convincimento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 02-04-2002, n. 4685

Le dichiarazioni rese dalla parte nell'interrogatorio libero di cui all'art. 117 c.p.c., pur non essendo un mezzo di prova, possono essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza ed attendibilità.

Cass. 15 luglio 2005, n. 15019

Quando la parte sia a diretta conoscenza delle circostanze, o comunque queste siano state direttamente percepite o percepibili dalla medesima, le dichiarazioni rese in proposito da essa nell'interrogatorio libero di cui all'art. 117 c.p.c., pur non costituendo un mezzo di prova, possono essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione - non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata - della loro concludenza ed attendibilità.

Cass. civ. Sez. I, 22-10-1998, n. 10497

Ai sensi degli art. 420, comma 1, 116 e 117 c.p.c., il giudice di merito ha il potere incensurabile di valutare le risultanze del libero interrogatorio delle parti.

Cass. civ. Sez. lavoro, 05-05-1997, n. 3910

L'interrogatorio libero della parte ha la sola funzione di fornire chiarimenti o precisazioni sui fatti di causa e, pertanto, a differenza dell'interrogatorio formale, che mira a provocare la confessione giudiziale, non è un mezzo di prova, ma serve a corroborare le prove già acquisite al processo, oppure a disattenderle.

Cass. civ. Sez. II, 13-02-1987, n. 1574

Una confessione giudiziale spontanea è configurabile anche in sede di interrogatorio non formale, qualora risulti dal verbale che la dichiarazione della parte non sia stata provocata da una domanda del giudice ma sia stata resa autonomamente ed il verbale rechi la sottoscrizione della parte. (Rigetta, App. Cagliari, 31 Dicembre 2001)

Cass. civ. Sez. II, 16-05-2006, n. 11403

Conclusioni

L’interrogatorio non formale o libero è istituto ibrido che vive di una doppia natura, da una parte chiarificatore dei fatti di causa e finalizzato a favorire la conciliazione, dall’altra mezzo da cui trarre argomenti di prova, capaci, secondo parte della giurisprudenza e della dottrina, di fondare da soli il convincimento del giudice.

Il risultato è che la seconda funzione rischia fortemente di pregiudicare la prima, soprattutto se si aderisce all’interpretazione secondo cui le risultanza dell’interrogatorio possono da sole fondare il convincimento del giudice e devono essere prese in considerazione nella fase di decisione, pena il vizio di omessa motivazione. Ciò perché la parte interrogata, sapendo che le sue dichiarazioni possono essere pregiudizievoli, non sarà incentivata ad esporre con chiarezza tutte le proprie ragioni, con il risultato che sarà pregiudicata sia la funzione di chiarificazione dei fatti, sia quella tendente alla conciliazione. Inoltre, nel caso le dichiarazioni di fatti sfavorevoli vi siano, c’è il rischio che sia penalizzata la parte più ingenua, che si rivolge al giudice nel modo più sincero, senza temere le conseguenze delle proprie affermazioni.

L’interpretazione da ultimo fornita da Cass. 22 febbraio 2008, n. 5290 appare dunque preferibile, sia per la salvaguardia dell’originaria funzione di chiarificazione dei fatti controversi e di strumento finalizzato alla conciliazione, sia per la persuasività degli argomenti proposti da parte della dottrina e della giurisprudenza precedente.

Quanto alla necessità che il giudice dia conto in sede di decisione delle risultanze dell’interrogatorio libero, pena il vizio di omessa motivazione, si ribadisce quanto già anticipato, ossia che la risposta al quesito è conseguente alla soluzione che si voglia dare circa il valore probatorio delle risposte delle parti. Laddove le si ritengano capaci da sole di fondare la decisione del giudice, con ciò equiparandole, quanto ad efficacia probatoria, ad un mezzo di prova liberamente apprezzabile (con le precisazione di cui supra, nota 1), si potrà pretendere che il giudice ne tenga conto in sede di decisione. Laddove invece, come sembra più giusto, le si ritenga solo argomenti di prova, integrativi (eventualmente) delle altre risultanze istruttorie, non si potrà pretendere che il giudice ne dia atto in sentenza, con conseguente insindacabilità della pronuncia sotto tale profilo.

Caso concreto

Tizio cita in giudizio dinanzi al Tribunale competente in funzione di giudice del lavoro la società Alfa S.r.l. chiedendo che gli venga riconosciuta la qualifica di dipendente subordinato quale agente della società convenuta e il suo conseguente diritto alle differenze retributive oltre alla rivalutazione e gli interessi.

Durante il processo Tizio non riesce a dar prova del rapporto di subordinazione. Tuttavia in sede di interrogatorio libero il legale rappresentante della società convenuta afferma l’esistenza di tale rapporto di subordinazione.

Tizio pertanto insiste per l’accoglimento del ricorso introduttivo, affermando che la dichiarazioni del legale rappresentante sono la prova del’esistenza del rapporto di subordinazione.

La Società Alfa si difende sostenendo che Tizio non ha dato prova del rapporto di subordinazione, né questa può emergere dalle risultanze dell’interrogatorio libero, non avendo le risposte date dalle parti valore confessorio sulla base del disposto dell’art. 229 c.p.c.

Sulla base delle interpretazioni relative al ruolo e alla funzione dell’interrogatorio libero, ma soprattutto relative all’efficacia delle risposte delle parti, il caso concreto posto in esame può essere in due modo tra loro radicalmente opposti.

Se si ritiene che prevalga la natura di mezzo di prova dell’interrogatorio e, fermo restando che le dichiarazioni ivi rese non hanno valore confessorie ai sensi dell’art. 229 c.pc.., che dette risultanze probatorie possano da sole fondare il convincimento del giudice, il giudice avrà in primis l’obbligo di dar conto di dette dichiarazioni in sede di decisioni. Potrà quindi, secondo il suo prudente apprezzamento, ritenere quelle dichiarazioni inattendibili e quindi non capaci di dar prova del rapporto di subordinazione, come potrà invece fondare su dette prove il proprio convincimento dell’esistenza del rapporto di subordinazione.

In caso di mancato riferimento a dette risultanze in sede di decisione, la sentenza sarà affetta da vizio di omessa motivazione.

Se invece si ritiene che nell’interrogatorio libero prevalga la funzione di chiarificazione dei fatti controversi e che dunque le risposte date dalle parti possono servire solo ad integrare altre risultanze probatorie e non a fondare, da sole, il convincimento del giudice, il caso concreto esaminato dovrà concludersi per forza di cose con il rigetto della domanda del ricorrente. Non vi sono, infatti, prove acquisite al processo, per cui il giudice non potrà che decidere in base alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.