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L'appello delle ordinanze

L’APPELLO AVVERSO LE ORDINANZE DECISORIE

La QUESTIONE

Quando il rimedio dell’appello viene usato contro un’ordinanza decisoria idonea al giudicato è davvero configurabile come una revisio prioris istantiae o è in realtà più assimilabile ad un primo grado di giudizio? “Sommarietà” del primo grado di giudizio vuol dire necessariamente “cognizione sommaria”?

La RISPOSTA IN SINTESI

Mentre per l’ormai abrogato processo sommario societario la legge qualificava espressamente il procedimento di primo grado come a cognizione sommaria, non fa lo stesso per i procedimenti di cui agli artt. 186-quater e 702-quater c.p.c. Nel caso del giudizio ex art.186 quater non c’è dubbio che il rimedio contro il provvedimento finale sia un vero e proprio appello; infatti l’ordinanza è emessa a seguito di una cognizione piena ed esauriente («esaurita l’istruzione»), mentre la sommarietà riguarda solo le forme della fase decisoria. Invece è attorno all’appello nel nuovo processo sommario di cognizione ex art. 702 quater che ruotano i maggiori dubbi. A dispetto del nomen, è minoritaria la tesi che vede il primo grado di questo giudizio come una cognizione sommaria; per i più si tratterebbe di cognizione piena raggiunta con forme processuali semplificate (come confermato anche dalla Relazione illustrativa al decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150). Tuttavia il carattere di “apertura” dell’appello alle novità istruttorie getta dei dubbi sulla validità di tale interpretazione, inducendo alcuni Autori ad affermare che, in realtà, sia proprio l’appello a dover essere costruito come un giudizio di primo grado a cognizione piena.

di Francesca Sirianni, avvocato del foro di Catanzaro

Gli APPROFONDIMENTI

L’APPELLO AVVERSO LE ORDINANZE DECISORIE

a cura di Francesca Sirianni, avvocato del foro di Catanzaro

L’ordinanza decisoria: nozione e caratteri.

Nell’impianto generale del codice di rito la differenza sostanziale tra sentenza e ordinanza sta nel fatto che la decisione con sentenza (atto squisitamente decisorio) spoglia il giudice del potere di decidere la questione che ne è oggetto; mentre la decisione con ordinanza (tipico atto di natura ordinatoria o istruttoria) non priva il giudice del potere di ritornare sopra quanto già deciso (così F.P. LUISO, Diritto processuale civile, II, Milano, 2007, 171). Da questa differenza sostanziale discende la diversità dei rimedi esperibili contro i due provvedimenti: i mezzi d’impugnazione (ordinari o straordinari) per la sentenza, la semplice richiesta di modifica o revoca (o il reclamo ex art.178, 2° c., c.p.c.) per l’ordinanza, non essendo essa provvedimento idoneo al giudicato. Va da sé che, per il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, il regime impugnatorio del provvedimento dipenderà dalla forma che in astratto (cioè per legge) esso avrebbe dovuto avere, e non da quella che il giudice, errando, gli abbia in concreto dato. Naturalmente i casi in cui l’organo giudicante deve emettere l’uno o l’altro provvedimento non sono lasciati alla sua discrezionalità, ma sono stabiliti dalla legge: la regola generale è che tutte le questioni che sorgono durante lo svolgimento del processo sono risolte con ordinanza, tranne quelle previste dall’art. 279, 2° c., c.p.c., che vanno decise con sentenza. L’ordinanza è, in particolare, un provvedimento succintamente motivato con cui (art. 279, 1° c., c.p.c.) si decide su una questione di competenza o si affronta una questione relativa all’istruzione della causa senza definire il giudizio. Tuttavia è in atto da qualche tempo la tendenza legislativa a confondere le figure istituzionali della sentenza e dell’ordinanza (così B. CAPPONI, Note sul procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it), introducendo l’uso di provvedimenti succintamente motivati (ordinanze) a contenuto decisorio anche di merito: tale percorso è iniziato con l’art. 423 c.p.c. per il processo del lavoro ed è proseguito con le ordinanze provvisionali di cui agli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c., nonché con l’art. 19 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 per l’ormai abrogato processo societario, fino ad arrivare all’ordinanza ex art. 702-quater, 5° c., c.p.c., che chiude il nuovissimo procedimento sommario di cognizione introdotto con legge 18 giugno 2009, n. 69. L’uso dello strumento dell’ordinanza in funzione decisoria, soprattutto di merito, pone vari problemi, diversi a seconda del singolo procedimento di cui trattasi. Nella presente trattazione ci occuperemo, in particolare, dei problemi connessi all’impugnazione di tali provvedimenti, e, più nello specifico, delle ordinanze decisorie contro le quali la legge prevede espressamente il rimedio dell’appello, ossia l’ordinanza ex art. 186-quater e l’ordinanza ex art. 702-quater c.p.c.

L’appello avverso l’ordinanza di cui all’art. 186-quater c.p.c.

L’ordinanza di cui all’art. 186-quater c.p.c. è un provvedimento decisorio (perché idoneo a disporre del diritto che ne è oggetto, cioè il diritto al pagamento di una somma o alla consegna-rilascio di beni mobili o immobili), emesso a seguito di una cognizione piena ed esauriente (ossia a chiusura dell’istruttoria di un ordinario processo di cognizione di primo grado), ma a decisione sommaria, in quanto (2° c.) è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio (se quest’ultima è stata richiesta dalla parte intimata entro 30 giorni dalla pronuncia o comunicazione dell’ordinanza). Il mancato richiamo agli artt. 177 e 178 c.p.c. preclude al giudice che ha emesso l’ordinanza una sua modifica o revoca, se non, appunto, in sede di sentenza finale che sia stata eventualmente richiesta. Tuttavia l’intimato può appellare immediatamente l’ordinanza, chiedendo al giudice, ex art. 283, la sospensione dell’efficacia esecutiva della stessa (o la sospensione dell’esecuzione eventualmente già iniziata). Dopo le modifiche apportate dalla riforma del 2005, infatti, l’appello può essere immediato, senza bisogno che l’intimato rinunci prima alla pronuncia della sentenza. Prima della riforma, in particolare, l’ordinanza acquistava efficacia di sentenza impugnabile solo se la parte intimata dichiarava espressamente di rinunciare alla pronuncia della sentenza; dal 1° marzo 2006, invece, l’ordinanza ha fin dalla sua emissione tale efficacia, essendo, al contrario, necessaria una apposita manifestazione di volontà dell’intimato (che chieda cioè l’emanazione della sentenza) affinché essa venga meno (così LUISO, op. cit., 68). Se viene tempestivamente richiesta l’emanazione della sentenza, sarà quest’ultima – e non, quindi l’ordinanza – a poter essere appellata, oltre che sottoposta agli altri mezzi d’impugnazione ordinari e straordinari.

I termini per proporre appello avverso l’ordinanza sono quelli consueti (breve di 30 gg. e lungo di 6 mesi) disciplinati agli artt. 325 e 327 c.p.c. Tuttavia il dies a quo di decorrenza è diverso a seconda della fattispecie che dà origine all’efficacia di sentenza. In particolare, nel caso disciplinato dal 4° c. dell’art. 186-quater, cioè quando tale efficacia discende dalla avvenuta estinzione del processo successivamente alla pronuncia dell’ordinanza, vi è disputa in dottrina tra chi ritiene che il termine d’impugnazione decorra dal perfezionamento in sé della fattispecie estintiva e chi, invece, ritiene rilevante la pronuncia del provvedimento dichiarativo dell’estinzione stessa, o addirittura il passaggio in giudicato dello stesso.

Quanto, invece, alla fattispecie delineata dal 4° c. della stessa norma, cioè la mancata richiesta della sentenza ad opera dell’intimato, il termine lungo per impugnare l’ordinanza inizia a decorrere appena scadono, inutilmente, i 30 giorni che l’intimato ha per richiedere la pronuncia della sentenza (R. TISCINI, sub art. 186-quater, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di BRIGUGLIO e CAPPONI, Padova, 2007, 111). Per quanto riguarda il rispetto dei 30 giorni da parte dell’intimato (inteso come destinatario dell’ordinanza), l’opinione prevalente ritiene che sia sufficiente la sola notificazione del ricorso che chiede di procedersi verso la sentenza, e non anche il deposito dello stesso (BALENA, in BALENA-BOVE, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 107; F.P. LUISO-B. SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006,46). Per altra dottrina, invece, sarebbe meglio addossare all’intimante l’onere della verifica dell’avvenuto deposito del ricorso in cancelleria (TISCINI, op. cit.). Si ritiene comunque possibile, pur dopo la riforma, da parte dell’intimato una rinuncia esplicita fatta prima della scadenza del termine di 30 giorni, finalizzata a consentire l’appello immediato dell’ordinanza (BALENA, in BALENA-BOVE, op. cit., 108). Per il resto il giudizio di appello si svolge secondo la disciplina ordinaria.

Una precisazione: poiché l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile «sull’oggetto dell’istanza», e non già sull’oggetto del solo provvedimento, è chiaro che, in caso di accoglimento solo parziale della domanda, l’appello relativamente alla parte non accolta è l’unico rimedio esperibile anche per l’intimante (G. GILARDI, L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex art. 186-quater c.p.c., in www.judicium.it).

L’appello nel processo sommario di cognizione.

L’art. 702- quater c.p.c. prevede e disciplina espressamente l’appellabilità dell’ordinanza emessa a conclusione del nuovo procedimento sommario di cognizione. La disposizione pone, però, un primo problema di base: quello dell’esatta individuazione del tipo di provvedimento impugnabile. Il 1° comma, infatti, nello stabilire l’idoneità al giudicato del provvedimento non appellato fa riferimento soltanto all’«ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’art. 702-ter», ossia alla sola ordinanza di accoglimento nel merito della domanda (solo questa, infatti, è provvisoriamente esecutiva e può costituire titolo idoneo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale e per la trascrizione), non anche a quella di rigetto nel merito. Tale letterale interpretazione è stata abbracciata da una sentenza della Corte d’appello di Roma (11 maggio 2011), la quale ha anche precisato che, nel caso di rigetto nel merito della domanda, la tutela del soccombente resterebbe affidata alla facoltà di riproporre la domanda, se del caso in via ordinaria. Tuttavia, la stragrande maggioranza della dottrina (per tutti v. C.M. CEA, L’appello nel processo sommario di cognizione, in www.judicium.it, M.A. LUPOI, Sommario ma non troppo, in www.judicium.it, e dottrina ivi citata in nota 170) considera irragionevole, oltre che incostituzionale, una simile interpretazione della norma: il riferimento al solo sesto comma dell’art. 702-ter andrebbe considerato come l’ennesima svista del legislatore, ed inteso come rinvio all’ordinanza in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto.

Quanto al termine per proporre appello l’art. 702-quater stabilisce solo il termine breve di 30 giorni, decorrenti dalla notificazione (a cura di parte) o comunicazione (a cura dell’ufficio) dell’ordinanza stessa. Non si occupa, invece, del caso in cui non vi sia stata né comunicazione né notificazione. In tale ipotesi, secondo alcuni autori i 30 giorni decorreranno dalla pronuncia dell’ordinanza in udienza (CEA, op. cit.), mentre secondo altri (BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it. 2009, V, 332; OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione, in AULETTA, BOCCAGNA, CALIFANO, DELLA PIETRA, OLIVIERI, RASCIO, Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico la semplificazione e la competitività, Napoli 2009, 97) decorrerebbe il solo termine lungo, di sei mesi dalla pronuncia. Se, invece, l’ordinanza è stata pronunciata fuori udienza e vi sia una mancanza patologica della comunicazione, si applica sempre il termine lungo di sei mesi dal deposito (LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2009, 118). Naturalmente, se la comunicazione avverrà dopo la scadenza di tale termine esso non potrà essere riaperto.

Per quanto riguarda l’atto introduttivo del giudizio il legislatore nulla dispone, a differenza di quanto aveva fatto nell’omologo e ormai abrogato rito societario, dove aveva espressamente previsto la forma della citazione. Per la dottrina pressoché unanime deve utilizzarsi la citazione, dovendosi ritenere – nel silenzio del legislatore – applicabile la disciplina ordinaria del processo di appello (contra BOVE, Il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., in www.judicium.it, per il quale l’appello dovrebbe assumere la forma del ricorso e anche la fase di trattazione e decisione dovrebbero seguire le forme semplificate del primo grado). La disciplina destinata a regolamentare l’appello nel processo sommario è, dunque, quella dettata per lo stesso grado di giudizio nel processo ordinario, naturalmente nei limiti della compatibilità (ad es. non saranno applicabili tutte le norme relative all’impugnazione di sentenze non definitive, laddove si accolga l’opinione dominante che non ammette tale tipo di pronuncia nel giudizio sommario). Così l’atto di citazione dovrà contenere, ex art. 342 c.p.c., l’enunciazione dei motivi specifici di appello; e potrà contenere la richiesta di inibitoria ex art. 283 c.p.c., richiesta cui si darà corso secondo lo schema e i presupposti propri del giudizio ordinario. È stata, invece, messa in dubbio l’applicabilità dell’istituto della rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c. In particolare, secondo alcuni autori l’istituto sarebbe incompatibile con un processo in cui non tutti i gradi di giudizio si svolgano con le regole della cognizione piena (OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione, in Dir. Giur., 2009, 389). Secondo altri (CEA, op. cit.), invece, non solo la disomogeneità tra le cognizioni dei due gradi di giudizio non sarebbe di ostacolo, ma il rinvio al primo giudice (ovviamente nelle ipotesi tassative di cui agli artt. 353 e 354) potrebbe servire anche a ripristinare le condizioni per una corretta valutazione circa l’idoneità della causa a esser trattata con il rito sommario (si pensi, ad es., all’errata estromissione di una parte le cui difese avrebbero reso necessaria un’istruttoria non sommaria).

In particolare la disciplina dello ius novorum.

Uno dei pochi aspetti disciplinati espressamente dal legislatore è quello dei c.d. nova. La previsione (art.702-quater, secondo periodo) suscita, tuttavia, più di una perplessità. Innanzitutto perché prende in considerazione soltanto le nuove prove, ignorando invece le allegazioni. Poi perché detta una regola che, se non correttamente interpretata, sembra irrazionale, oltre che inutile. Si dice, infatti, che «sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile». Quanto alla prima parte dell’alternativa (nuova prova ammissibile se rilevante), è evidente che si tratti di una previsione superflua, in quanto ammettere l’assunzione di mezzi di prova irrilevanti sarebbe contrario al principio di economia processuale, oltre che ai principi generali in materia di prova. Ne deriva che, anche nell’ammettere prove dalla parte incolpevolmente non richieste in precedenza, il collegio dovrà effettuare il giudizio di rilevanza della prova. Per meglio darle un senso, la goffa previsione potrebbe essere interpretata – soprattutto se posta a confronto con quella dell’art. 345 c.p.c. che per l’appello ordinario richiede l’indispensabilità del mezzo di prova – come frutto di una volontà legislativa nel senso di favorire un regime più permissivo delle novità probatorie nell’appello del rito sommario (in tal senso CEA, op. cit.), non limitandolo, appunto, alle sole prove indispensabili. Questa conclusione sarebbe supportata anche dall’ultima frase dell’art. 702-quater («il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio»), la quale dimostrerebbe che nell’appello avverso un’ordinanza sommaria l’attività istruttoria è prevista dal legislatore come più frequente rispetto che nell’appello ordinario (così LUISO, op. ult. cit., 119). Tuttavia questo argomento cade a seguito della recente riforma dell’art. 350, che al 1° comma generalizza la possibilità di delega, prevedendola anche per l’appello ordinario.

Quanto ai restanti aspetti (domande ed eccezioni) dello jus novorum l’art. 702-quater nulla dispone. Ove non si ritenga di dover estendere de plano la disciplina dell’art. 345 c.p.c., la soluzione dovrà dipendere dalla natura che, più in generale, si riconosce al primo grado del giudizio sommario. Più precisamente, se si vede nel primo grado un giudizio a cognizione sommaria in senso proprio (cioè dove i fatti di causa vengono accertati in maniera sommaria), l’appello finirà (a pena, altrimenti, d’incostituzionalità) per essere il luogo in cui si recupera la cognizione piena: dunque le parti potranno proporre nuove domande e nuove eccezioni, oltre che ottenere la rinnovazione di prove sommariamente assunte in primo grado e chiedere l’assunzione di ogni mezzo di prova rilevante che emerga per la prima volta in appello (in tal senso S. MENCHINI, L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr. Giur. 2009, 1032). Laddove, invece, si ritenga che il rito di cui trattasi in primo grado sia sommario solo per la semplificazione delle forme, mentre la cognizione sia piena ed esauriente, la disciplina dei nova si dovrà avvicinare molto di più a quella di cui all’art. 345 c.p.c., dando vita ad una struttura essenzialmente chiusa del giudizio di appello: dunque nuove domande ed eccezioni ammesse solo nei limiti dell’art. 345 e nuovi mezzi di prova solo se indispensabili, a meno che la parte dimostri di non averli potuti chiedere in primo grado per causa a lei non imputabile (in tal senso BOVE, op. cit.).

Considerazioni conclusive.

Quale che sia la soluzione prescelta non si può, infine, trascurare di analizzare l’impatto che sulla stessa avrà l’uso della nuova modalità decisoria in appello, introdotta con l’art. 27 della legge 12 novembre 2011, n. 183. La norma citata aggiunge (con effetto dal 31 gennaio 2012) un ultimo comma sia all’art. 351 che all’art. 352 c.p.c. in tema di appello ordinario. Il risultato è la possibilità di adottare – al posto della precisazione delle conclusioni con successivo scambio di comparse conclusionali e repliche ed eventuale discussione orale – lo schema più agile della discussione orale e successiva lettura in udienza del dispositivo e della concisa motivazione della sentenza, da inserire nel verbale ex art. 281-sexies. Tale modello può – per espressa previsione legislativa – essere adottato, se il giudice ritiene la causa matura per la decisione, già durante la prima udienza di trattazione e addirittura in sede di discussione sull’inibitoria (ovviamente previa assegnazione alle parti di un termine a difesa). Proprio questa possibilità e, soprattutto, la “passerelle” (così si esprime A. TEDOLDI, Rapsodia normativa per (la rottamazione di) appelli e procedimenti in Cassazione, in www.ilcaso.it, doc. n. 275/2012) tra inibitoria e decisione di merito suscita perplessità se applicata negli appelli avverso ordinanze sommarie quale quello di cui all’art. 702-quater c.p.c. Se, infatti, si ritiene che questo appello sia costruito come momento di recupero delle garanzie difensive compresse nel primo grado, allora un’ulteriore compressione, quale sarebbe quella derivante dall’applicazione della suddetta passerelle, potrebbe esporre tutto l’impianto a dubbi di legittimità costituzionale (in tal senso TEDOLDI, op. cit.). Il problema non si pone, invece, nell’appello avverso l’ordinanza di cui all’art. 186-quater c.p.c., essendo la stessa frutto di una cognizione piena ed esauriente nel primo grado di giudizio.

Normativa di riferimento

Art. 186-quater c.p.c.; art. 702-quater c.p.c.; art. 19 decreto legislativo n. 5 del 2003.

Approfondimenti dottrinali

B. CAPPONI, Note sul procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it

M. GERARDO – A. MUTARELLI, Procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c.: primo bilancio operativo, in www.judicium.it

N. PICARDI (a cura di), Codice di procedura civile, Milano, 2008, 1150 ss.

P. PORRECA, Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche osservazione iniziale, in www.judicium.it

R. TISCINI, L’accertamento del fatto nei procedimenti con struttura sommaria, in www.judicium.it

Selezione giurisprudenziale

ART. 186-quater c.p.c.:

Cassazione civ., 22 gennaio 2004, n. 1007

L’ordinanza con la quale il giudice istruttore rigetta in toto l’istanza proposta ai sensi dell’art. 186-quater non è idonea ad acquistare l’efficacia della sentenza impugnabile; conseguentemente, sono inammissibili sia la rinuncia alla sentenza della parte soccombente, sia il successivo atto di appello. (Foro It., I, 1068).

Cassazione civ., sez. III, 20 ottobre 2006, n. 22533

In tema di impugnazione dell’ordinanza anticipatoria di condanna ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c., l’attività posta in essere dall’intimato con la notificazione alla controparte dell’atto di rinuncia alla pronuncia della sentenza e con il deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia notificato, cui consegue l’acquisto, per l’ordinanza, dell’efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza, costituisce adeguata dimostrazione della legale conoscenza del provvedimento da parte dell’intimato. Ne deriva che dal momento in cui detta attività si perfeziona decorre, per l’intimato, il termine breve d’impugnazione, mentre resta esclusa l’applicabilità del così detto termine lungo.

ART. 702-quater c.p.c.:

Corte di Appello di Roma, sez. III, 11 maggio 2011

Il giudizio di appello contro l’ordinanza di accoglimento conclusiva del procedimento sommario di cognizione è retto dalla disciplina ordinaria dell’appello, per quanto l’art. 702-quater c.p.c. nulla di diverso dispone in proposito: ciò vuol dire anzitutto che il giudizio di appello delineato dall’art. 702-quater c.p.c. rimane, come di regola, una revisio prioris istantiae fondata sulla deduzione di specifiche doglianze connotate dal requisito di specificità di cui all’art. 342 c.p.c. Sicchè, se il giudice di primo grado non è incorso in errori, non è pensabile che la sua decisione debba essere ribaltata. (ProcessoCivile 74, 2011).

Tribunale Catanzaro, sez. II, 06 giugno 2011

Il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c, introdotto dalla legge n. 69/2009, è un procedimento a cognizione piena ma a struttura semplificata, atteso che il requisito della sommarietà riguarda le forme attraverso le quali si svolge il processo (la cui scelta è sostanzialmente rimessa alla valutazione del giudice, salvo l'ineludibile limite del rispetto del contraddittorio), ma non il contenuto dell'accertamento posto a base della decisione, il quale accertamento deve invece tendere alla verifica della fondatezza delle allegazioni di parte in termini di verità (processuale) e non già di mera verosimiglianza.

lnvero, la possibilità di un'istruzione "sommaria" deve essere intesa, non già in senso deteriore come istruttoria "superficiale", come tale non compatibile con un sistema giudiziario di accertamento delle pretese azionate, tanto più in ragione dell'efficacia (provvisoria esecutività e titolo idoneo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale nonché per la trascrizione) e del regime impugnatorio (appellabilità ex art. 702 quater c.p.c.) dell'ordinanza conclusiva (che definisce il giudizio di primo grado, anche in ordine alle spese del procedimento), bensì - più propriamente - come istruttoria "marginale", "snella" e "veloce" (cfr. Trib. Varese 18.11.2009; Trib. Mondovì 10.11.2009).(…) L'elemento di discrimine con il procedimento ordinario attiene quindi piuttosto alle modalità di acquisizione dei mezzi di prova poiché nell'istruttoria sommaria risultano ammissibili prove assunte atipicamente laddove l'istruttoria ordinaria si svolge nell'ambito della dettagliata predeterminazione legislativa delle forme e dei termini di svolgimento del processo.

La deregolamentazione procedurale con ampliamento della sfera discrezionale del Giudice circa la gestione della fase istruttoria non impedisce peraltro, come chiarito, la pienezza della cognizione sugli elementi della causa proponibile ai sensi dell'art. 702- bis c.p.c. (Dejure)